Le Marche in Biblioteca, 2016

I Giovedì letterari della Planettiana

La poesia in Biblioteca: cronaca dell’ultimo Giovedì Letterario

unnamedAlcuni appunti sull’incontro con Francesco Scarabicchi, nella serata conclusiva dei Giovedì Letterari della Planettiana

di Tullio Bugari

La poesia in biblioteca, mi veniva da commentare giovedì sera, parafrasando il titolo della nostra rassegna, durante l’ultimo dei cinque giovedì letterari della Planettiana, a conclusione di questo itinerario, mentre ero seduto vicino a Francesco Scarabicchi e lo ascoltavo, cogliendo nelle sue parole non un bilancio di chiusura ma l’apertura di uno sguardo che ha la stessa tensione di un abbraccio, o di un respiro. Inizio a scrivere i primi appunti sulla serata appena qualche istante dopo, per ascoltare meglio le suggestioni che ho provato. Nel clima caldo e amico della sala, come un ritrovarsi, attraverso la conversazione tra poeti, tra Alessandro Seri e Francesco Scarabicchi e le poesie di Francesco musicate e cantate da Marco Gigli e Gastone Pietrucci, La Macina, tra cui Nave che porti a niente. Io mi sono inserito leggendo un brano del libro scelto per l’incontro, Una città di scoglio, perché fin dalla prima volta che l’ho aperto, l’ho  sentito come uno di quei libri che ti fanno venire la voglia di leggerli ad alta voce. A me ha fatto questo effetto, e non solo e non tanto per il fluire bello delle parole ma proprio per il passo che le accompagna e l’attenzione dello sguardo. È questa la mia sensazione, un libro di passi e di sguardi. Passi e sguardi di poeta. Così ho chiesto a Francesco di inserirmi nella conversazione leggendone un brano, e ho scelto quello dedicato alle librerie, al primo ingresso in libreria di quel ragazzo che allora, con le monete in mano raccolte durante la settimana, si preparava al suo primo acquisto, e poi seduto nella panchina di fronte contemplava, stupito e consapevole, il libro tra le sue mani. Quasi un rito d’iniziazione. Una dichiarazione d’amore per la parola scritta sulla carta, con la sua fisicità, che ha un suo luogo e un suo tempo. Continua a leggere

«Appunti sulla contemplazione» di Francesco Scarabicchi

Appunti sulla contemplazione, di Francesco Scarabicchi
(dal libro “Una città di scoglio. Breve viaggio ad Ancona, affinitàelettive, 2016)

Ci resta, forse,
un albero, là sul pendio,
da rivedere ogni giorno;
ci resta la strada di ieri,
e la fedeltà viziata d’un’abitudine
che si trovò bene con noi e rimase, non se andò.
(Rainer Maria Rilke, Elegie udinesi)

Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo.
(Cesare Pavese, Stato di grazia)

velaÈ stato Charles Baudelaire, nel 1859, sulla “Revue Française”, a proposito del paesaggio, a scrivere: “Se un certo raggruppamento d’alberi di monti, d’acque e di case, cui diamo il nome di paesaggio, è bello, non lo è già per se stesso, ma per mio mezzo, per mezzo della mia propria grazia, dell’idea e del sentimento di cui lo compenetro”.

La Via del Cònero che porta verso Sirolo è una via di colline, piante, vigne, cieli, case, macchie, erbe. Poi il mare. Temi dello sguardo, del riconoscimento e della riconoscenza di un luogo del mondo al quale affidiamo un senso e del quale possiamo decretare la bellezza, proclamarla, declamarla, pronunciarla. Il luogo non sa e non saprà mai d’essere bello. Il luogo è. Non ha alcuna necessità d’essere nominato. L’esigenza dell’uomo è quella di “chiamarlo” e di affidarlo alla ragione del senso, al sentimento del senso. Per questo, credo, esiste ciò che definiamo “paesaggio”, nella plurale valenza dei significati, nel brivido e nella commozione, nello strazio e nella grazia. In esso sono la misura e il silenzio, l’istante in cui è dato di ascoltare la profonda identità dell’anima circostante. Ogni sosta convoca la pazienza dell’osservatore, la sua disponibilità a dimenticarsi per essere veramente là, in quell’aria, nell’odore di terra e di corteccia, nell’umido mattino che prelude al plenario farsi del giorno.

Su tutto vige la maestà della luce. Senza la luce, è ovvio, nulla potrebbe darsi. Ogni luogo che ha la carità dell’accoglienza e mi ospita, è per me un luogo prediletto. Il paesaggio mi consegna una “cittadinanza”, una “residenza” ed è, forse, dopo la scrittura, l’unica casa possibile, l’unica dimora nella quale mi senta davvero a mio agio, nella quale mi possa riconoscere e condividere.

Il paesaggio è un’idea del tempo, una misura del tempo, un modo di percepirlo e comprenderlo, immobile e ineluttabile, invisibile e inesistente, eppure spietato proprio perché umano: Forse è il tempo a togliere arcadia e idillio al paesaggio, a renderlo concreto come un minerale, a decretarne la sua forza e la sua precarietà, esposto alle intemperie della storia e della natura, dell’epoca e di una contingenza che, volta a volta, lo esalta e lo cancella, lo venera e lo sfregia, lo illumina e lo deturpa. Il tempo è la sua forma, lo scandisce tra pensiero e sguardo, tra concetto e sensi.

Tra me e me, in uno degli innumerevoli viaggi a Recanati, dicevo che nessuno vedrà mai quel che gli occhi di Leopardi hanno visto. L’Infinito raccoglie appunto tempo e spazio del paesaggio e affida a noi il privilegio d’essere nati dopo di lui, dopo che egli ha aperto la porta del moderno e del contemporaneo. Ci è toccato in sorte, soprattutto ai marchigiani, di tentare di scorgere, per quel che si può, una trama di verità attraverso la limpida e perfetta dettatura dei versi mediante i quali si esprime la “direzione” del percepire e del sentire luogo e istante, tempo del paesaggio e paesaggio del tempo.

Tutto si tiene, se scegliamo la bellezza come confine e orizzonte, se di lei accogliamo la perdita o la vocazione a durare nonostante la crudeltà del presente, di ogni presente che si manifesta e scompare. Perfino il paesaggio della pittura oltrepassa la piccola porta del visibile per scegliersi un posto felice ed essere rammentato. Ci appartiene, si affida al cuore della mente, entra nella familiare costellazione delle nostre “vedute”, non se ne va più. Il mare con la piccola vela bianca che torna nella Deposizione di Lorenzo Lotto a Jesi, a Palazzo Pianetti, è una delle presenze insostituibili della mia vita e calma più d’una notte insonne nella quiete drammatica della vicenda che si svolge al centro della tela. Così come il paesaggio dei versi, da Dante a Umberto Saba, dall’Iliade al poema di Melville, Moby Dick. Lo stesso avviene per la musica e per il cinema. Chi cancellerà dagli occhi della mia memoria le terre spente di Pasolini in Teorema e di Zurlini nel Deserto dei tartari? O la luce umida delle campagne nel Barry Lyndon di Kubrick?

Il paesaggio – rurale o montano, di lago o di mare, di deserto o urbano, di pianura o foresta, di fiume o d’altro – è un’impressione di umanesimo e pronuncia il suo idioma inscrivendosi nel destino delle creature. Anche il luogo più deietto ha, nel fondo della sua buia condizione, un frammento che lo lega a noi, una piccola scheggia di luce ferita, una memoria. Non fosse altro perché unico, una volta per sempre.

Conversazione con Gastone Pietrucci

gastone_pietrucci-1Conversazione con Gastone Pietrucci La Macina, a cura di Tullio Bugari. Aspettando l’ultimo appuntamento della rassegna Le Marche in Biblioteca, l’incontro con Francesco Scarabicchi e il suo libro Una città di scoglio, Breve viaggio ad Ancona, in programma giovedì 3 novembre alle 21.15 alla Biblioteca Planettiana di Jesi.

t.b.) Le Marche in Biblioteca. Una delle persone che seguito gli incontri, a proposito della tua partecipazione alla prima serata, ha commentato così sul nostro blog: “Bellissima serata, la cultura ufficiale (quella dei libri negli scaffali) che dialoga alla pari con quella popolare (canto della Pasquella)”. Tu interverrai di nuovo all’ultimo incontro, con Francesco Scarabicchi, e nel frattempo hai seguito anche gli altri tre incontri già svolti. Ti va di darci le tue impressioni generali su questa rassegna?

g.p.) Una rassegna interessante, tutta da seguire. Per me è stato facilissimo seguirla, perché praticamente me l’avete fatta… in casa (infatti abito proprio di fronte alla Biblioteca Planettiana). Inoltre “simpatico” ed anche interessante e non disturbante, la parte conviviale della degustazione dei vini, tra l’altro con produttori giovani, amanti del loro lavoro, della terra e della produzione del buon vino. Insomma una formula felice. I libri tutti interessanti, peccato che I matti del duce , non era disponibile (comunque sono riuscito a prenotarlo, ad acquistarlo e ad averlo proprio oggi. Spero e mi auguro che dopo questa bella e riuscita rassegna ne possano nascere delle altre. Contate sempre sulla nostra disponibilità.

t.b.) Tu hai dedicato moltissimo della tua passione alla ricerca delle nostre radici popolari, attraverso la strada della musica, mantenendole vie in mezzo a noi, e facendole dialogare e incontrare con ciò che di nuovo e genuino nel frattempo prendeva vita. Io ho l’impressione che una parte fondante, che definirei mitica, di queste nostre radici sia localizzata propio nelle zone montane dell’entroterra colpite in questi ultimi giorni dal terremoto, e che dunque ci sia un intero mondo a rischio. Qual è la tua percezione?

g.p.) Il mondo “popolare” è ormai a rischio, da tanti, troppi anni, il terremoto è arrivato ben ultimo. Già Pier Paolo Pasolini aveva denunciato la distruzione della civiltà contadina, naturalmente inascoltato, in questo “paese mancato”, dove tutto viene cancellato dall’gnoranza e dalla stupidità della nostra classe politica. Noi siamo un paese senza memoria, quindi un paese destinato a non avere un futuro.
Praticamente dopo gli anni cinquanta, un mondo, un’intera civiltà contadina, dopo secoli di vita, si è sgretolata ed annientata in pochissimo tempo. Con il risultato che quel mondo contadino non esiste più, inesorabilmente spazzato via, da molte cause e da profonde trasformazioni. Ad ogni modo, il contadino di una volta, poteva essere qualsiasi cosa, però nella sua “ignoranza”, aveva ancora qualcosa da affermare, magari anche solo il valore del pane, che poi non è altro che la natura, il rispetto della terra, del sacro, del necessario. Diceva Pasolini che “il vero genocidio avvenuto nel Novecento è stato quello dei contadini”. E se non c’è più il mondo contadino, non c’è più la terra, il rapporto con le stagioni, non c’è più la natura, non c’è più la radice biologica dell’appartenenza ad una cultura. E invece, come ha scritto Allì Caracciolo, in una delle sue spelndide poesie di Malincore, 1996 ” Noi veniamo dal ricordo dei tempi / carichi di promesse e di parole…”.
Il terremoto ha cencellato le notre case, i nostri magnifici centri storici, quindi parte della nostra storia, del nostro passato, ma l’ ignavia di questa assurda società del cosiddetto benessere, ci sta “affogando”, tra l’altro, in questi utili, ma terribili ed anestetizzanti telefonini, non ci fa più alzare più la testa, né guardare alto, ed io mi sento impotente di fronte a questo sfacelo fisico e morale, in perfetta sintonia con Enzo Siciliano, che nel 2005, scrisse questo tragico ed amaro frammento di poesia: “Poche parole, ma quelle giuste per far capire / il dolore di chi si sente vietato a nutrire speranze.” Non aggiungo altro.

t.b.) Volevo chiederti di parlarci delle esperienze di incontro tra la tua musica e i percorsi artistici e culturali di altri autori. Mi pare che questa ricerca dell’incontro sia una costante nella tua ricerca musicale e culturale; in particolare volevo chiederti come è nata e si è sviluppata la tua collaborazione con due importanti autori presenti in questa rassegna, Allì Caracciolo che hai accompagnato nella prima serata dedicata al libro “S’agli occhi credi”, e poi Francesco Scarabicchi, con cui sarai insieme al prossimo incontro.

g.p.) L’incontro tra musica popolare (diciamo la “mia” musica) ed i percorsi artistici e culturali con altri autori, è scaturito da un mio bisogno di spaziare, di collaborare, di contaminare il mio lavoro con altri artisti. La Macina l’ho formata nel 1968 e dopo una riproposta del canto popolare rigorosa e dopo l’incisione ben otto dischi, improvvisamente nel 1998 ho incontrato la grande indimenticabile Valeria Moriconi e con lei abbiamo costruito un Concerto-Spettacolo per il centenario della morte del grande studioso popolare dell’Ottocento, lo jesino Antonio Gianandrea. L’esperienza con Valeria è stata folgorante e “contagiosa”, perché da lì ho sentito proprio un bisogno “fisico” di incontrare e collaborare con altri artisti e con altri campi della musica. Ecco allora l’incontro con Rossana Casale, Giovanna Marini, Moni Ovadia, Riccardo Tesi, Federico Mondelci, Enzo Cucchi, Marco Poeta, i Gang, uno dei gruppi storici del rock italiano, con i quali abbiamo inciso uno dei più importanti cd Nel tempo ed oltre cantando (Premio “Tenco” 2004, come supergruppo italiano), sino all’esperienza con il jazz di Samuele Garofoli ed il suo quartetto con il quale abbiamo inciso Ramo di fiori, e la musica sinfonica con il maestro Stefano Campolucci ed il suo ensemble, con il quale stiamo registrando un nuovo cd, per dire soltanto di alcuni che ho incontrato nel mio percorso artistico.
Con Allì Caracciolo praticamente ci cerchevamo da diversi anni, finalmente nel 2000, ci siamo incontrati e dal nostro incontro è nata una grande collaborazione tra lei ed il suo straordinario Sperimentale Teatro A, che ancora continua e che tra l’altro ha prodotto uno degli spettacoli più sconvolgenti che La Macina abbia mai realizzato, quel Piange piange Maria povera donna..., una Sacra rappresentazione dove il canto popolare de La Macina incontra la grande recitazione degli attori, in un connubio di grande forza e di grande pathos.
Con Francesco Scarabicchi ci lega una grande stima reciproca, che ci ha portato a varie collaborazioni: la prima nel 2002, per un concerto omaggio a Luigi Tenco, L’espressione di un volto per caso, dal titolo del suo saggio scritto appositamente per lo spettacolo, dove lui era la voce narrante inframezzata dalle più belle e significative canzoni di Tenco, interpretate da La Macina. Poi dopo questo lavoro: La polvere si alza (Omaggio a Luigi Tenco-Piero Ciampi-Fabrizio De André).
Tra l’altro sia Allì Caracciolo, che Francesco Scarabicchi, hanno sempre accompagnato con le loro preziose prefazioni i nostri lavori discografici più importanti e significativi: nel primo volume della trilogia dell’ “Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto” , del 2002 e nel nostro ultimo lavoro, uscito proprio quest’anno ed edito dalla prestigiosa casa editrice romana, squi[libri], La Macina. Nel vivo di una lunga storia. Tra l’altro nell’incontro di domani sera (3 novembre) in occasione della presentazione del libro Una città di scoglio. Breve viaggio ad Ancona, io e Marco Gigli, interverremo interpretando tre poesie di Scarabicchi, musicate da La Macina, una delle quali scritta appositamente per noi, Nave che porti al niente. Per noi sarà un’emozione ulteriore, suonare e cantare queste tre splendide liriche, alla presenza dell’autore e dopo averne ascoltata la sua inimitabile, coinvolgente lettura, e sicuramente anche per tutto il pubblico che avrà la fortuna di assistere ad una simile ed unica performance!

Giovedì 3 novembre il 5° incontro con Le Marche in Biblioteca: “Una città di scoglio” di Francesco Scarabicchi

3152916LE MARCHE IN BIBLIOTECA
I Giovedì Letterari della Planettiana

Quinto incontro
Giovedì 3 novembre alle ore 21.15

Una città di scoglio – Breve viaggio ad Ancona” di Francesco Scarabicchi,  con uno scritto di Emanuele Trevi, affinità elettive (http://www.edizioniae.it/catalogo/una-citta-di-scoglio/

Conversazione con l’autore, letture di brani, interventi musicali di Gastone Pietrucci La Macina (http://www.macina.net).

La serata si concluderà con una degustazione di vini locali offerta dall’azienda Pievalta, di Maiolati Spontini (http://www.pievalta.it), con la collaborazione di Pergolesi Enocaffè (http://www.pergolesienocaffe.it/).

La rassegna è stata promossa dalle associazioni culturali Altrovïaggio e Licenze Poetiche, con la collaborazione della Biblioteca Planettiana di Jesi e un contributo del Comune di Jesi.
http://www.altroviaggio.org/category/le-marche-in-biblioteca/
https://licenzepoetiche.wordpress.com/

Le Marche in Biblioteca, cronaca della quarta serata

7È la Memoria nei suoi infiniti modi di esprimersi, a sembrarmi in questo momento uno dei fili conduttori che sta attraversando i nostri Giovedì Letterari della Planettiana. Quella Memoria che vive con noi e si rinnova nella sua ricerca e riscoperta continua del mondo che ci ha formati.
Così nelle Marche dell’arte attraverso lo sguardo dei poeti (S’agli occhi credi) con cui si è aperta la rassegna, nelle opere d’arte che sono il riferimento del nostro paesaggio interiore, connotato di luoghi, paesi, incontri.
6Così nelle parole di Maria Grazia Maiorino (Angeli a Sarajevo) capaci di rendersi leggere per cogliere la pienezza delle nostre relazioni con i luoghi, che non sono mai soltanto spazi ma insieme, come in una metamorfosi, anche luoghi del tempo.
Ne abbiamo parlato con Loretta Emiri (Amazzone in tempo reale) scovandone ancora altre angolazioni, ed evidenziando come le culture non sono oggetti statici da preservare all’oblio, imbalsamandole, ma sono la vita stessa che nonostante la compressione esterna riesce a rinnovarsi e restare presente tra noi proprio se non perde la memoria delle radici.

1E anche ieri sera, giovedì 27, con Matteo Petracci (I matti del duce) è emerso, a mio avviso, un’altro lato di questa Memoria che ci attraversa, ad esempio quando Matteo ha sottolineato come l’uso strumentale dello stigma della malattia mentale (“paranoia-mania politica” era scritto nella diagnosi che marchiavano) aveva proprio l’intenzione di spezzare una Memoria. Chiudere in prigione o inviare al confino un oppositore fa di lui un martire, da cui lo stesso può riscattarsi, rivendicando la repressione subita come elemento costitutivo della sua persona. Stigmatizzarlo, invece, è il tentativo di ucciderne anche l’identità, farlo scomparire. Nessuno rivendica di essere stato rinchiuso in manicomio.
2L’esclusione estrema, che arreca un dolore incontenibile, e chi l’ha subita riesce a riscattarsi, a ristabilire la continuità non solo con la propria storia individuale ma soprattutto tra se e gli altri, solo annullandola quell’esclusione, se vi riesce. E così Matteo, che ha raccontato il suo libro attraverso la conversazione con Alessandro Seri,  ha concluso proprio con una una di queste storie di riscatto, che gli ha consentito poi di allargare di più il discorso, per ricordarci come tutti noi, la nostra storia oggi, l’affermazione della nostra dignità, di cui godiamo magari senza rendercene conto, sono possibili perché altre generazioni prima di noi hanno ingaggiato un percorso di riscatto, fatto di lotte e di fatiche. Siamo noi la nostra Storia.
3Avevo introdotto la serata ricordando il nuovo terremoto che la sera prima ha colpito le zone montane della nostra regione, e l’impatto che può avere sulla continuità culturale e sociale delle nostre comunità. È questa la nostra reazione con i luoghi.
Come nei due incontri precedenti, la conversazione tra Alessandro Seri e Matteo Petracci è stata arricchita, introdotta e poi accompagnata da alcuni brani musicali degli allievi della Scuola Musicale Pergolesi e dalla lettura, a cura del gruppo ArciVoce di alcuni brani del libro, scegliendo in particolare alcune lettere scritte allora – siamo attorno agli anni Trenta del 4Novecento – da parenti degli internati oppure testimonianze dirette degli internati stessi, i “pazzi non allineati”, affetti da “mania politica”. Per chi vuole approfondire, ricordo la recensione del libro a cura di Luca Pakarov.

Nella seconda parte della serata, dedicata ai vini, l’ospite di turno è stata l’azienda vinicola La Staffa di Staffolo, presente Riccardo Baldi che ci ha presentato la sua attività e il verdicchio che aveva portato con se per degustarlo insieme a noi. Nell’articolo “il vino è il canto della terra verso il cielo” è raccolto un commento al lato “vignaiolo” della rassegna e  al suo significato, con le schede di tutti i vignaioli che hanno collaborato.

(Il prossimo e quinto appuntamento è giovedì 3 novembre, con il libro “Una città di scoglio” di Francesco Scarabicchi, accompagnato da Gastone Pietrucci La Macina.)

 

 

L’impatto del terremoto (confermato il ns incontro del 27 ott)

Il nostro impegno. LE MARCHE IN BIBLIOTECA. Ci siamo consultati questa mattina e abbiamo confermato l’appuntamento di questa sera, giovedì 27 ottobre, per il quarto incontro, con il libro I MATTI DEL DUCE, di Matteo Petracci e l’insieme del programma. C’è stata molta agitazione anche qui a Jesi per le scose di terremoto di ieri sera, e inoltre alcuni dei nostri partecipanti, compreso l’autore, vengono da Macerata, dove l’agitazione è stata ancora più alta.

Il terremoto ci porta, purtroppo, un ulteriore elemento di riflessione al discorso che abbiamo avviato con i nostri incontri in biblioteca, e che riguarda in modo ancora più prepotente la nostra regione, la sua capacità di assorbire queste scosse, non solo per l’impatto immediato – per fortuna, pare questa volta senza vittime – sugli edifici, sia quelli privati che quelli di interesse pubblico – ad esempio di nuovo ospedali evacuati e danni a scuole – e artistico, che costituiscono il nostro patrimonio culturale, e che pare abbiano subito anche questa volta ingenti e diffusi danni.

Oltre a quello immediato, l’impatto si ripercuoterà anche sulla vita stessa di zone che sono il cuore della regione ma che già da sole, negli ultimi anni, avevano problemi di abbandono, perché le dinamiche economiche della società attuale distoglie sempe più l’attenzione, e quindi le risorse, dai piccoli centri, che invece sono il nostro patrimonio antropologico – o “paesologo”, se vogliamo citare il termine proposto da Franco Arminio. Sono i custodi della nostra memoria collettiva. Inseriamo questo impegno anche nella riflessione che abbiamo avviato con questi incontri in biblioteca.

crollo_camerino_terremoto26-ottobre-650x488foto da Cronache Maceratesi

Giovedì 27 ottobre il 4° incontro con Le Marche in Biblioteca: “I matti del duce” di Matteo Petracci

LE MARCHE IN BIBLIOTECA
I Giovedì Letterari della Planettiana

Quarto incontro
Giovedì 27 ottobre alle ore 21.15

“I matti del duce” di Matteo Petracci, Donzelli editore (http://www.donzelli.it/libro/9788868431310).

Conversazione con l’autore, lettura di alcuni brani a cura del gruppo ArciVoce, commenti musicali a cura della Scuola Pergolesi (http://www.scuolapergolesi.it/nuovo_sito/)
La serata si concluderà con una degustazione di vini locali offerta dall’azienda La Staffa (http://www.vinilastaffa.it/staffa/?page_id=17) di Staffolo, con la collaborazione di Pergolesi Enocaffè (http://www.pergolesienocaffe.it/).

La rassegna è promossa e organizzata dalle associazioni culturali Altrovïaggio e Licenze Poetiche con la collaborazione della Biblioteca Planettiana di Jesi e un contributo del Comune di Jesi.

Programma:
http://www.altroviaggio.org/category/le-marche-in-biblioteca/
https://licenzepoetiche.wordpress.com/

Il vino è il canto della terra verso il cielo

di Tullio Bugari

vino

“Come io ammiro Picasso perché lo riconosco, così posso apprezzare un vino o qualsiasi altra cosa che viene dalla terra, se la riconosco. Trovo che questo sia un recupero di civiltà, di intelligenza e di libertà estremamente importante. Per questo non mi piacciono i prodotti tipici. Sono diventati un marchio commerciale. Non mi piacciono le tradizioni imbalsamate.  Ma voglio sapere dove nasce un prodotto. Mi fido dell’autocertificazione del produttore che mi spiega come è fatto il suo vino o i suoi ortaggi”.

Scrive così Luigi Veronelli a proposito del vino, e leggendo queste righe mi vengono in mente anche tante analogie, in contesti e momenti anche molto diversi, come passeggiare sotto un cielo stellato, alzare lo sguardo e potersi ritrovare in una mappa familiare di costellazioni e antichi miti scegliendo poi ognuno il suo, oppure mi viene in mente un libro di tanti anni fa di un mio amico che aveva vissuto in un paese del centro america, e l’aveva intitolato le diciassette tonalità di verde, tanti i nomi utilizzati dagli indigeni per cogliere le diversità e particolarità dei tanti verdi che rendono più viva la natura, potendo così apprezzarla nella sua varietà e non invece uniformata o standardizzata sulla base di una tonalità media monocolore. E potrei continuare ed estenderle perfino a questo percorso di cinque appuntamenti in Biblioteca, cogliendone la ricchezza della trama nella particolarità degli stimoli offerti da ciascuno degli incontri. O per usare le parole ben più appropriate di Francesco Scarabicchi, nel testo che ci ha inviato per il primo incontro, “la forza delle parole”: “Ogni cosa ha il suo nome per essere conosciuta, ‘chiamata’, definita.” Ed è per questo che si può “cogliere (sotto il profilo emotivo, sensoriale, percettivo, mentale e poi linguistico, formale, artistico, letterario) la presenza della poesia nella vita quotidiana, attraverso le sue manifestazioni minime.”

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Le Marche in Biblioteca: recensione del libro di Matteo Petracci “I matti del duce”

Giovedì 27 ottobre ore 21.15, quarto incontro di LE MARCHE IN BIBLIOTECA, I Giovedì Letterari della Planettiana. Il libro della serata è “I matti del duce”, di Matteo Petracci, Donzelli editore.

La recensione di Luca Pakarov, «La pazzia non allineata», apparsa su Il Manifesto del 29 gennao 2015:

I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista. L’istituzione totale come punizione e marchio d’infamia per i dissidenti

cop_matti-del-duceUna ricerca durata cinque anni fra ospedali psichiatrici e Prefetture per capire come, nel Ventennio, la medicalizzazione del dissenso fosse considerata innanzitutto una tutela sociale, come l’eterodossia diventò sinonimo di malattia. Ne I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista (Donzelli, pp. 238, euro 33) il pregiudizio entra nella psichiatria e viceversa giacché, ogni qual volta si devono combattere le idee contrarie al pensiero unico, la repressione si instaura agevolmente nelle pieghe dell’interpretazione scientifica. Un punto di vista inesplorato sul totalitarismo fascista, caduto nell’oblio con l’armistizio, anche, e comprensibilmente, per volontà delle stesse vittime che continuarono a percepire l’internamento come un marchio di infamia, talvolta da nascondere agli stessi figli. A tracciarle mediante referti medici e giudiziari, lettere e testimonianze dei famigliari, con un’attenta e fruibile narrazione, è stato lo storico Matteo Petracci che, seguendo un’ingente mole documentaria, è riuscito a ricostruire alcune delle vicende dei 475 antifascisti schedati nel Casellario Politico Centrale e finiti in manicomio giudiziario. Di questi, 122 persero la vita. Continua a leggere

Le Marche in Biblioteca: i due brani letti da “Amazzone in tempo reale”

37b2e238-b4e8-4349-92a3-f8df0f7ff439“Amazzone in tempo reale” di Loretta Emiri.

I due brani che seguono sono stati letti durante l’incontro con l’autrice, rispettivamente da Cristina e Paolo del gruppo ArciVoce.

 

Brano estratto dal racconto “Xavante”:

Ci eravamo date appuntamento a Cuiabá, capitale dello Stato e importante snodo regionale, provenienti da vari e lontanissimi luoghi: sei donne che avrebbero impartito un corso di formazione e aggiornamento per maestri xavante. Con il pullman raggiungemmo la cittadina piantata ai margini della riserva indigena, dove c’era ad aspettarci la camionetta di un padre salesiano. Arrivammo a destinazione verso sera, ma c’era ancora luce sufficiente per intravedere quanto alti, forti, belli e alteri fossero gli uomini che stavano aspettandoci. Fu amore a prima vista: tutte e sei ci innamorammo, e non di uno, ma di tutti loro.

Le novità scandirono le ore di quei giorni tanto corti: ricerche linguistiche e cosmogoniche; lezioni di etnomatematica e portoghese; informazioni su diritti acquisisti e su come organizzarsi per far approvare nuove leggi; verifiche e programmazioni didattiche; dinamiche di gruppo, filmati e discussioni. Per sgranchire le idee si facevano quattro passi fra la miriade di solide costruzioni facenti parte la missione salesiana, e si raggiungeva l’attigua ampia piazza su cui, in circolo, si affacciavano le quaranta fresche case di paglia degli xavante. A volte si aveva tempo per andare fino ai campi dove, in disordine sparso, si scorgevano macchinari e strumenti abbandonati; le squallide sculture di ferro era quanto restava di faraonici piani governativi di sviluppo agricolo per paleolitiche popolazioni e suoli aridi.

Un maestro, mostrando il disegno realizzato dal gruppo di studio cui aveva fatto parte, ci aveva spiegato che l’elemento principale del disegno stesso era il circolo, che la disposizione in circolo del villaggio simbolizza l’unione del popolo xavante, che tutte le feste tradizionali iniziano nel centro della piazza, e che, se non ci fosse il circolo, non esisterebbe “finalità”. Per quella che sarebbe stata l’ultima notte del corso, gli anziani organizzarono una festa di commiato. Le insegnati sfoggiarono vestiti resi da sera da eleganti collane indigene. Gli alunni indossarono calzoncini da calciatore e impeccabili bianche cravatte di corda di cotone, a cui gli occidentali debbono essersi ispirati quando crearono il farfallino. Danze e canti, compresi quelli eseguiti da rappresentanti dei popoli mỹky, tapirapé, bororo e rikbaktsa, iniziarono al centro per poi continuare su tutta la piazza. Tenendoci per mano formammo un circolo, sempre più ampio con l’aggiungersi di persone, e quando l’ultima ne entrò a far parte avvertimmo che era stata raggiunta la finalità di sentirci uniti.

Al termine della festa, gli anziani ci suggerirono di non ripartire senza andare a vedere un punto determinato del fiume São Marcos, e misero a disposizione il camion della comunità per raggiungerlo. L’indomani, l’euforia per l’escursione svegliò tutti molto presto. Seduti sul cassone o sulle sponde dell’automezzo, con seni e pensieri al vento, pur cogliendo gli elementi scenografici disseminati lungo il percorso, ognuno di noi sembrava concentrato a scrutare dentro sé stesso. Sobbalzava, il camion, sull’accidentata pista di terra battuta; in direzione opposta poteva correre solo l’ovvio.

Improvvisamente scomparve la vegetazione che fiancheggiava la strada e il corso d’acqua inondò occhi e cuori. Sul palcoscenico naturale era adagiato il fiume ampio cosparso di rocce, pozze, rapide, cascate. Il verde lussureggiante delle montagne si profilava contro l’azzurro mozzafiato del cielo, i due elementi facendo da sfondo alla scena. Nell’aria il calore del sole, l’odore sensuale della natura, la luce dello spirito. Quella geografia intrisa di poesia materializzò il concetto portante del corso, l’etnoscienza. Quell’acqua, che per giorni accoglie gli adolescenti xavante per temprarli fisicamente e psicologicamente, trasformò le insegnanti-specialiste e gli alunni-maestri in uomini e donne. Quelle fresche cascate massaggiarono vigorosamente i corpi, fino a che gli animi si sentirono accarezzati.

Gli unici che non entrarono nella fonte battesimale furono il salesiano di mezza età e il pretonzolo impomatato. Continuarono a passeggiare lungo la sponda. La religione che li aveva vestiti impediva loro di farsi vedere in costume da bagno. Non resero omaggio alla natura. Non entrarono nel circuito per condividere lo stato di grazia degli animi. Commisero il peccato mortale di introdurre in quel paradiso terrestre concetti relativi a pudore, falso pudore, ipocrisia, peccato.

Fertilizzati dal limo delle acque del fiume São Marcos, facemmo ritorno alla missione per realizzare la valutazione finale del corso e dichiararlo concluso. Ondulate dall’emozione, le voci di quegli uomini alti, forti, belli e alteri sussurrarono: “non ho parole per dire ciò che sento”, “non voglio pensare che potrei morire, perché non parteciperei a un altro corso”, “smetto di parlare per non piangere”. Uniti dallo spago del gomitolo che era circolato fra di noi mentre realizzavamo le valutazioni personali, consapevoli di aver vissuto un’esperienza unica, avvertimmo che la finalità del corso era stata raggiunta.

La valigia quasi non mi si richiudeva più. Vi avevo riposto una voluminosa nostalgia. Ogni tanto spunta fuori, speciale, unica. Riesce a colmare ed abbellire vuoti interiori.

Brano estratto dal racconto “Patamona”:

Viveva appena fuori dal centro di Boa Vista, in un rione tuttora popolato quasi esclusivamente da indigeni, che i bianchi spregiativamente chiamano caboclos. L’esuberante vegetazione del luogo sembra voler proteggere gli abitanti, nasconderne la povertà, le costruzioni sbilenche. Su quel verde, i panni stesi spiccano come artistici tocchi di colore.  Nelle minuscole aree che circondano le casupole, all’ombra degli alberi da frutta, rotolandosi nella polvere o nel fango a seconda della stagione, crescono animali domestici e bambini. Galline e maiali convivono con scimmie e tartarughe. Non di rado, stormi di pappagalli sorvolano l’area squarciandola con i loro striduli richiami; mentre da pareti domestiche è possibile che fuoriesca il vociare di ubriachi perpetui, o il tutto volume di radio e giradischi.

Mi piaceva attraversare quel rione andando a trovare la mia amica. Come le altre  case,  anche  la  sua  era  eternamente  in  costruzione.  Man mano che la famiglia cresceva, aumentava il numero delle stanze; che però restavano spoglie e senza intonaco, adorne solo di ganci cui appendere nuove amache.  Nell’ingresso troneggiava un divano sforacchiato e liso, su cui riprendevo fiato dopo la lunga camminata. Composta da padre, madre, varie sorelle, un fratello carnale e uno adottivo, una cognata, un numero imprecisato di nipoti, la famiglia tutta mi riceveva con calore. Il più delle volte la casa ospitava anche parenti e amici giunti dall’interno dello stato, bisognosi di trascorrere un periodo in città per risolvere problemi. Povere come erano, quelle persone avevano sempre qualcosa da farmi portar via: un pezzetto di beiju già secco, due maracujás da trasformare in bibita.

La mia amica lavorava, ma era sempre al verde. Si pagava gli studi universitari e aiutava la  tribù famigliare endemicamente affetta da problemi economici. Quando viaggiavo le lasciavo la casa a disposizione, così che potesse concentrarsi e studiare con profitto. Me ne era grata e io lo ero nei suoi confronti, dato che il mio cantuccio non restava alla mercé dei soliti ladri. Quando penso a quella ragazza, mi tornano in mente parole e gesti semplici e, al tempo stesso, traboccanti di significato. Se mi faceva visita, arrivava con frutta raccolta nel suo cortile, o con fiori messi insieme lungo il tragitto che separava le nostre abitazioni. Qualche volta andavamo a cena fuori; prediligevamo un ristorante vicino al fiume, perché la sua brezza arrivava fino ai tavoli disposti all’aperto sotto un’ampia tettoia. La serata cominciava scambiandoci confidenze e terminava con noi due che, invariabilmente, ci sentivamo più tranquille, perché le parole e gli atteggiamenti dell’una finivano per rasserenare e incoraggiare l’altra.

Dei momenti vissuti insieme, uno fu particolarmente espressivo. Eravamo sedute sulla sponda del fiume e lo guardavamo scorrere e brillare. Mi raccontò di aver trascorso alcuni giorni nella Guyana. Luoghi, persone, situazioni, tutto le era parso affascinante. Durante il soggiorno aveva maturato una decisione: ogni qual volta l’uomo bianco l’avesse apostrofata con il termine cabocla, lei avrebbe asserito “io sono patamona”. A imprimere il giusto valore a quelle tre striminzite parole furono il tono della voce e gli occhi che brillavano più del fiume.