Senza categoria

Come una lama, di Maria Vittoria Pichi

Titolo: Come una lama
Autore: Maria Vittoria Pichi
Con una nota di Massimo Cirri
Casa editrice: Ventura edizioni

Giovedì 22 ottobre ore 21.15 alla Biblioteca Planettiana per il terzo appuntamento con Le Marche in Biblioteca 2020.

Nello Stato di diritto esiste anche il rovescio, ma in questo caso non è una variante dei modi possibili di tessere o rammendare, per creare nuove trame di vita, è piuttosto il tentativo d’annullarle. Kafka il rovescio lo usa per mostrarci la realtà rovesciandola, appunto: non ci conduce nel mondo della fantasia per astrarci o parlarci attraverso metafore, ci immerge invece direttamente nelle profondità del reale, senza metafore, negli interstizi più nascosti ma sempre pronti ad aprirsi. Accade qualcosa e all’improvviso tutto ha un altro corso:  «Qualcuno doveva aver denunciato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua padrona di casa, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Ciò non era mai accaduto. K. aspettò ancora un po’, guardò dal suo cuscino la vecchia signora che abitava di fronte e che lo osservava con una curiosità del tutto insolita in lei, poi però, meravigliato e affamato a un tempo, suonò. Subito qualcuno bussò e entrò un uomo, che egli non aveva mai visto prima in quella casa.» Inizia così Il Processo di Kafka, l’ho riportato subito alla mia memoria la prima volta che ho ascoltato Maria Vittoria Pichi, Mavi, presentare il suo libro.

Conoscevo, per averle lette o sentite raccontare, diverse storie analoghe, e quindi il suo racconto non mi sorprendeva, nel senso dell’incredulità. Mi riportava ad un periodo storico che ricordavo e ricordo abbastanza bene, anche per averlo riletto e ristudiato. Nel caso specifico siamo alla fine del 1981, nei giorni in cui le Brigate Rosse sequestrano il generale americano Dozier, dal 17 dicembre al 28 gennaio, giorno in cui viene liberato da un commando che irrompe a colpo sicuro nell’appartamento prigione della periferia padovana. Ricordo abbastanza bene quel periodo perché emerse subito in quei giorni un bel dibattito sulla tortura (ecco un aspetto del rovescio). Ci furono due inchieste giornalistiche ed entrambi i giornalisti finirono in galera perché non vollero rendere note le loro fonti, come se una banalissima indagine interna, se l’avessero voluta davvero, non fosse stata sufficiente da sola per accertare cosa stava accadendo. Lo ricordo bene perché uno dei due giornalisti, Luca Villoresi del quotidiano La Repubblica, l’avevo conosciuto, eravamo stati amici e ora lo vedevo in tv mentre ammanettato lo spostavano da un motoscafo a una gondola. Siamo a Venezia, più o meno alla fine di febbraio del 1982.

L’altro è un giornalista del settimanale L’espresso, Pier Vittorio Buffa, che pubblica il suo articolo il 28 febbraio e viene arrestato il 9 marzo; qualche anno fa ha scritto ancora su quei lontani episodi (Espresso del 5 aprile 2012), questa volta potendone tracciare, quando a distanza di anni gli stessi poliziotti protagonisti lo raccontano, un quadro più chiaro e completo, a cominciare dalle riunioni in cui già a metà dicembre del 1981 si pianifica l’uso della tortura promettendo l’impunità alle due squadre che dovranno occuparsene, dai nomi “esotici”: “I cinque dell’ave maria” e “i guerrieri della notte”. Ma tutto era già noto anche allora, un po’ ne ho il ricordo e basta andare a cercare negli atti parlamentari di allora per avere la conferma che ci furono già allora almeno due sedute parlamentari, il 15 febbraio e il 22 marzo. ricche di dettagli, nomi e descrizioni delle torture, e poi nel luglio dello stesso anno uscì unche un dossier col titolo La Tortura in Italia a cura di avvocati e parlamentari, nonché inchieste di Amnesty International. Insomma, anche evitando di riaprire qui ora un dibattito complesso e che ci porta su un altro argomento, non si può dire che quegli interstizi del reale, come li chiamavo più sopra, non fossero già evidenti. E questo è solo un pezzetto del contesto, l’intersitizio più immediato e vicino, che riguarda la storia raccontata in questo libro.

Come una lama. Il titolo scelto da Maria Vittoria per raccontare la sua vicenda, è una metafora forte, evoca insieme sia l’immediatezza della cesura che la sua irreversibilità, una pausa che si apre improvvisa e poi resta per sempre.

Nel libro lei racconta questa pausa. L’arresto il 28 dicembre a mezzogiorno, prelevata nella farmacia dove lavora: lei è il secondo anello della catena degli arresti iniziati quel mattino per pura casualità, ma il caso è un po’ come nell’effetto farfalla (metafora che nasce la prima volta in un romanzo di Ray Bradbury) dove tutto si collega, e la stessa farfalla in realtà è proprio la vittima innocente. Arrestati dunque per caso, forse solo per una voglia di protagonismo di chi esegue il primo fermo, ma subito catapultati nel clima e nelle aspettative che si ritengono adatte a loro (“Nessuna domanda sulle mie conoscenze o su legami con altre persone, niente di niente che mi faccia capire cosa sta succedendo e sempre, sui loro visi, quello sguardo scolpito di disprezzo”) e senza che lei, la ragazza interrogata, ne intuisca il perché, il collegamento. La nostra cultura  (si fa per dire) giuridica è permeata di telefilm americani nei quali l’arresto è sempre accompagnato dalla dichiarazione del capo di accusa (nella realtà poi magari accade anche diversamente). Da noi, all’epoca del racconto, non era così, non ti dichiaravano nulla, e se tu eri davvero innocente e non avevi nulla di cui rimproverarti, proprio non ci riuscivi a indovinare da solo il motivo che loro avevano scelto per te, proprio come accade a Josef K.

Quando l’arresto avviene, il 28 dicembre, le squadre della tortura già sono pronte a mettere le mani sui primi sospettati, ma a loro – sono stati fermati in quattro – non li calcolano nemmeno (“Non ci fu riservato il trattamento” scrive Maria Vittoria) tanto dev’essere evidente la loro totale estraneità, il buco nell’acqua compiuto da chi li ha fermati, la brutta figura che può ritorcersi loro contro, incapaci ancora a due settimane dal sequestro di trovare un filo, perché non si tratta di acciuffare un colpevole qualunque, il generale che devono ritrovare è proprio quello, non possono liberarne un altro a caso, devono andare precisi.

Maria Vittoria racconta di quel salto in cui la lanciano nel buio, lo smarrimento, la convinzione profonda in quei momenti assurdi che si tratti di un equivoco, tanto che quando la vanno a prendere per interrogarla, due giorni dopo, il 30, è convinta che la stiano riportando a casa, con tanto di scuse, e invece il magistrato si limita a farsi tradurre in italiano una canzone dialettale di Senigallia trovata su foglio durante la perquisizione a casa sua, e null’altro, non le chiede nulla che possa lasciar indovinare a lei stessa in quale contesto l’hanno fermata, la manda via così, senza spiegazioni, solo con uno sguardo di disprezzo. Appare lui stesso imbarazzato, il magistrato, e lei è incredula, nemmeno l’avvocato ci capisce nulla, perché all’epoca i motivi dell’arresto non venivano spiegati fino a che tutto non fosse pronte per il rinvio a giudizio. Passa capodanno e il 2 gennaio la stampa nazionale riporta, in un articolo più ampio, queste scarne righe (La Stampa del 2/1/1982): “Sembrava che le indagini sul rapimento del generale fossero giunte ad una svolta, con i quattro fermi operati dai carabinieri di Padova. Ora pare che questa operazione non stia conducendo a quei risultati che gli inquirenti si aspettavano: si dice, in sostanza , che quegli accertamenti compiuti escludano connessioni con la drammatica vicenda dell’alto ufficiale delle FTASE . I giovani bloccati nel padovano sono Paolo Zabeo, 27 anni, di Rovereto, Giovanni Tonelli, ventiquattrenne di San Giorgio delle Pertiche (Padova), e le loro compagne, Flavia Bignani, 30 anni bolognese e Maria Vittoria Pichi, ventisettenne, di Ancona. Ieri il sostituto procuratore della Repubblica Lorenzo Zen ha convalidato i fermi, formulando l’ipotesi di associazione sovversiva a fini di terrorismo, non quella di ‘partecipazione  a banda armata denominata Brigate Rosse’ prospettata in un primo momento dagli investigatori.” 

Maria Vittoria verrà a saperlo solo alla sera, quando dalla cella vicina, dove sono in isolamento, un’altra detenuta alza al massimo il volume del televisore per farle sentire il telegiornale. Solo allora realizza l’assurdità in cui l’hanno gettata, e comprende che non le arriveranno scuse per l’equivoco, ma dovrà restare lì per un periodo forse non breve.

Curioso anche il modo in cui nell’articolo vengono descritti i giovani, quasi una promiscuità, non si capisce quali siano le due coppie (Mavi e Paolo) e che l’altra coppia è stata tirata dentro solo perché dividevano lo stesso appartamento; viene descritto invece il primo fermo, al mattino, di Paolo, fermato davvero per caso e poi fatto scendere perché c’erano dei vecchi volantini avanzati di qualche iniziativa sociale appoggiati da un lato – mi sembrano anche loro, ui volantini, come le ali della farfalla – che nell’articolo sulla Stampa si trasformano subito in “documenti al vaglio degli investigatori”: la canzone che chiedono a Mavi di tradurre nell’interrogatorio è questa: “Peppa bella, butta la catinella e gim via sa’l materàs, portate anc’el pitale…”   Insomma, è grottesco.

Perché continuano a tenerli dentro per qualche altro mese, quando tutto è così chiaro?  Hanno fatto un buco nell’acqua  e quindi è meglio stare zitti, far passare in secondo piano; tranne i giornali locali, di Marche e Veneto che un po’ di pettegolezzo vanno sempre a cercarlo, la stampa nazionale non si occupa più di loro, è meglio non ricordarli, dimenticarli, aspettare che tutto sia lontano, che passino queste giornate sotto i riflettori, sotto i quali bisogna recitare bene la propria parte.

Però magari c’è anche qualcosa di più, i cosiddetti investigatori comunque non li dimenticano quei ragazzi, anzi, torneranno a cercarli in un paio di occasioni, la prima nel 1985 («… scopro che siamo ancora utili, utili per far numero: dicono i mass media che si tratta di 40 o 50 perquisizioni e di vari arresti tra Padova, Venezia, Milano e altre città») e anche Paolo finisce di nuovo dentro e ci resta, e  stavolta per richiamare l’attenzione e non essere dimenticato sceglie di affrontare un duro sciopero della fame,  e poi anche qui tutto finisce senza aver dimostrato nulla, ma solo dopo sei anni e non subito.

Intanto la vicenda iniziale si chiude definitivamente dal punto di vista della legge solo nel 1988, ‘esiste un vuoto probatorio assoluto’ è scritto nella sentenza. Ma non è finita perché nel 1989 c’è un altro colpo di coda, che fa capire a Maria Vittoria come determinati meccanismi, quelli che  usano il battito della farfalla come un comodo alibi, continuano ad essere attivi qua e là nei loro interstizi: un normale controllo mentre passeggia per strada e poi la mattina dopo ecco una nuova perquisizione a casa  e la convocazione in Questura.

Il libro racconta questo, dallo sbalordimento del primo ingresso in cella – nella cella della caserma dei Carabinieri, in condizioni di scarsa accoglienza per usare un eufemismo, e dalle cui sbarre lei scopre di affacciarsi su Prato della Valle, su un marciapiedi dove lei stessa era passata tante volte – alla perquisizione a casa sua, gli anfibi dei militari sulle lenzuola, l’interrogatorio, il trasferimento al carcere della Giudecca, l’isolamento, la prima visita dei suoi genitori un mese dopo, i quali avevano creduto vere le cose scritte sui giornali e invece devono ricredersi, poi la vita del carcere insieme alle altre donne, le condizioni di recluse e anche l’affetto e la solidarietà che si scambiano, per sentirsi un po’ meno sole, e la forza interiore che si scopre d’avere dentro e che forse aveva sottovalutato ma ora cerca di usare al meglio, la vitalità che soffre d’essere trattenuta. E poi cento giorni dopo l’uscita, e la vita che riparte ma continua a svolgersi in quella pausa oramai aperta come da una lama.

Il libro di Maria Vittoria mi sembra come un antidoto per tutti noi. Per lei ha avuto effetti importanti, per lei stessa e per il mondo di relazioni, amici, conoscenti che le stava attorno e dapprima la guardava un po’ strano: perfino la zona dove lei abitava veniva chiamata “la collina della brigatista”, e questo andava sicuramente sciolto, e ora quella definizione può essere ricordata davvero come un equivoco.

Mi piace citare dal suo libro un episodio divertente ma al tempo stesso niente affatto  banale,  un po’ come quel vecchio slogan di inizio novecento ‘Sarà una risata che vi seppellirà’, che esprime una grande voglia di libertà: «Cerco anche di divertirmi e con una guardiana trimestrale dallo sguardo poco intelligente mi spaccio per una donna bionica: le racconto in modo serio e convincente che io resto lì solo per curiosità, per vedere com’è un carcere, ma che quando voglio posso uscire, basta che io mi concentri e… flot! mi alzo in volo come fosse uno scherzo. Tanto per provarglielo, salgo sullo scalino più alto del pozzo, stringo i pugni, mi concentro, gonfio le vene del collo e… appena alzo i talloni quella mi si butta addosso a prendermi per i piedi. Che inebriante soddisfazione.»

 

 

 

 

 

 

il caso non nasce mai dal nulla,    “Il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo”

 

Per farlo uscire verso il cielo

Alcune note e riflessioni dalla conversazione con Michele Gianni e la sua storia “Rantologia, viaggio dal paese dei tubi” per il secondo appuntamento con Le Marche in Biblioteca 2020. Con alcune foto ‘mascherinate’ della serata.

Ma esiste già una narrazione dell’era covid? Questa domanda non l’ho formulata in questo modo giovedì sera 15 ottobre, nella conversazione con Michele Gianni che raccontava del suo “Rantologia, voci dalla terra dei tubi” (Qui la scheda sul libro , pubblicato da Ventura edizioni, che ho già scritto la scorsa settimana) ma ha preso nei miei pensieri questa forma più perentoria e di aperto dubbio solo dopo che ci siamo alzati dal tavolo.

La forma della domanda che ho usato durante la serata è stata più diretta e personale, quando ad un certo punto, ascoltando Michele soprattutto nel suo modo di parlare più che nelle parole – che il suo libro l’avevo già letto nella prima bozza in pdf del mese di aprile e poi di nuovo una decina di giorni fa avvicinandomi all’incontro – mi sono trovato a seguirlo nel suo ritmo interno, più testimonianza che racconto, alle prese con una massa di ricordi ancora freschi e molteplici di quelle giornate piene di tanti dettagli, anche contraddittori e in contrasto uno con l’altro, carichi insieme di angosce o istinto di sopravvivenza, a volte grotteschi oppure addirittura comici o ridicoli, basta ruotare lo sguardo o la percezione ed è come un caleidoscopio, un concentrato inedito di vita e di vitalità costrette alla lotta per uscirne fuori, e tornare in sé, per sentirsi bene anche addosso, ma ora con questo nuovo mondo inedito di esperienze da domare.

Lì sul momento nemmeno io stavo domando le mie percezioni, le lasciavio fluire, limitandomi all’istinto, seguendo il ritmo del suo rievocare e descrivere lontano dalla tentazione di spiegare ma intento piuttosto a ‘riportare’, e ad un certo punto l’ho interrotto e gli ho chiesto: “Ma tu, che hai scritto subito il libro appena rientrato a casa, hai già ‘assimilato’ questa esperienza oppure ancora ti vive dentro e la stai ancora assimilando, è un processo ancora in corso?”  Che può essere intesa anche come una domanda retorica, che riguarda l’ovvio, perché è senz’altro così, e quindi per paradosso diventa ancora più complicato rispondere, ma dalle parole di risposta comprendevo che quella domanda avrei dovuta rivolgerla, piuttosto, a tutti noi.

M’è venuta in mente allora in modo più chiaro la differenza tra la mia stessa prima lettura del suo racconto, in aprile, quando eravamo tutti chiusi a casa e nel momento del dramma esploso, che ci aveva colti alla sprovvista, eravamo vogliosi di partecipare in qualche modo a ciò che accadeva agli altri, ai nostri amici, a quel mondo di relazioni ora ‘distanziato’ che là fuori non potevamo raggiungere fisicamente, e curiosi di capirci qualcosa, ma ancora convinti ingenuamente che ne saremmo usciti velocemente, per tornare al prima, si trattava solo d’avere pazienza di questa sospensione inattesa. E in questa attesa forse c’era un po’ anche quell’aria di quando si affronta una battaglia che s’immagina eroica dura e veloce. Mi torna in mente questo video, che stimolato dallo scritto di un amico preparai e pubblicai sette mesi fa, a metà marzo, e s’ìintitolava “Domani, per il pane e le rose”.

Ora invece la seconda lettura del libro avvenuta pochi giorni fa ha avuto un effetto diverso, come l’accorgersi in ritardo che qualcosa è accaduto, l’abbiamo visto bene ma l’attenzione comunque non era adeguata e il mondo già non è più esattamente come prima. Forse, più che l’angoscia suscitata ora dagli allarmi sul ritorno incombente del contagio (c’è chi dice che anche l’ondata di ritorno di uno tsunami sia più angosciante), è proprio questo scarto di significato che si è prodotto e sta continuando a prodursi, a creare questa sensazione di incertezza.

Ma sto parlando esclusivamente delle mie percezioni, torniamo alla serata. La conversazione con Michele è stata accompagnata da tre interventi musicali di Claudio Durpetti della Scuola Musicale Pergolesi di Jesi, che aveva scelto per l’occasione tre brani di musica classica, da lui proposti con la chitarra: Fernando Sor, Andante dall’op. 31; Ferdinando Carulli, Moderato e Niccolo’ Paganini, Sonatina. Mentre ascoltavo mi sembrava che le corde della chitarra potessero essere una metafora delle nostre corde interne, che hanno bisogno di ritrovare la loro armonia e sinfonia, il loro respiro. Al termine di uno dei brani ho chiesto a Michele quali erano i suoni, o i ‘rumori di fondo’ che ascoltava nelle lunghe giornate e notti d’ospedale: «La colonna sonora di questo ricovero era il rantolo, così è venuto fuori ‘Rantologia’… questo rantolo che veniva da tante stanze, si sentiva sempre, più o meno forte, con tante sfumature diverse….».

Abbiamo parlato di molte altre cose. L’intera conversazione è stata registrata interamente, e si può riascoltare con comodo sulla pagina di Jesi Cultura Turismo; ne riporto qui in chiusura soltanto un brano, proprio le parole di Michele prima che io lo interrompessi con la domanda da cui sono partito per queste mie riflessioni:  «purtroppo ho visto diverse persone, più anziane di me, che non ce l’hanno fatta a uscirne. C’è un capitolo del libro con il titolo ‘La morte accanto’, in cui descrivo anche questa cosa abbastanza pesante, anche e soprattutto per il personale sanitario, che non ce la faceva a stare dietro a tutto. Io sono stato accanto al mio vicino di letto morto per una giornata intera, perché non ce la facevano a portarli via subito, ce n’erano troppi altri. Anche in questa situazione, la più drammatica, che forse è proprio ‘apice del libro, nella quale… io che sono un noto agnostico, con questa persona al mio fianco che è morta nella solitudine totale, io mi sono sentito addosso una specie d’istinto… di dargli una specie di benedizione, una specie di cerimonia forse anche un po’ pagana, e poi gli ho aperto la finestra come per farlo uscire verso il cielo… e quando apro la finestra mi resta in mano la maniglia della finestra. E così, anche nei momenti più drammatici, accade insieme sempre qualcosa di grottesco, la maniglia che mi resta in mano. C’è sempre questo doppio aspetto… drammatico ma anche in qualche modo creativo, a volte involontariamente ridicolo, che a volte ti fa trovare anche degli aspetti divertenti… è questo che mi sono trovato a vivere e ho cercato di riportare in questo racconto». 

 

 

L’incontro con Ezio Bartocci

Ecco qui un po’ di foto, le prime che mi sono arrivate, sull’incontro di giovedì scorso 8 ottobre alla Biblioteca Planettiana, in pochi intimi, distanziati come la prudenza oltre che le norme consiglia di fare, per il primo incontro con Le Marche in Biblioteca 2020.

Dopo la presentazione della rassegna e il saluto dell’Assessore alla Cultura Luca Butini, in apertura dell’incontro e in chiusura due letture a più voci con Grazia Tiberi, Elisabetta Benedetti e Tullio Bugari (Arci Voce aps), accompagnate dalla tromba di David Uncini, per proporre e animare il testo di Antonio Emiliani, nella cartella Sulla Breccia curata da Ezio Bartocci.

Nella pausa tra le due letture in musica Ezio Bartocci ci ha raccontato del suo lavoro, come è nata l’idea, da quali altri percorsi di ricerca artistica e storica è scaturita e come poi ha preso corpo, senza escludere gli aneddoti che accompagnano lo sviluppo di qualsiasi lavoro che procede per incontri e scoperte successive, dettagli come chiavi che aprono orizzonti che a loro volta ne stimolano altri, coincidenze ritrovate tra i personaggi e i contesti in cui le loro storie sono avvenute, suggerendoci così ad ogni passo anche possibili ulteriori approfondimenti, per conoscere e seguire anche altre storie, riattualizzazioni di quel passato che è all’inizio dei nostri sguardi, modelli culturali e modi attuali di sentire. Di quel passato che dialoga con noi.

Calarsi in queste atmosfere e riflessioni all’interno della sala maggiore della Biblioteca Planettiana, e all’interno di quel palazzo che è più di un simbolo della nostra città, e soprattutto è un universo intero di documentazione e memorie raccolte, non a caso ma inseguendo nel tempo i propri percorsi, dai quali attingere ancora, costituisce senz’altro un’emozione e uno stimolo in più.

Così, tra gli squilli di tromba che in sottofondo alla lettura leggeri riecheggiavano l’ingresso dei bersaglieri a Roma, mentre Pio IX ricordava ai suoi che il momento della resa era giunto e iniziava per la corte pontificia un altro corso, la cartella “Sulla Breccia” ci ha consentito di riabbracciare con lo sguardo quell’intero mondo, sgombrandolo anche di possibili enfasi retoriche centrate sull’avvenimento in sé.

La lingua usata da Emiliani nel suo racconto, scritto diciotto anni dopo la presa di Porta Pia, ha una leggerezza e un’essenzialità che fanno sembrare attuali anche le parole oramai desuete nel linguaggio quotidiano, ma forse più piene, come se le avesse scelte con cura cercando la sonorità più adeguata alle immagini che rievocano, aiutandoci a sentirci dentro quel racconto.
La stessa essenzialità cogliamo nel ritratto tricolore che in copertina rappresenta il re d’Italia, e scorrendo i fogli della cartella di Bartocci, nella scelta delle immagini, dei colori e dei caratteri.

 

“Quelli che se ne vanno” di Enrico Pugliese

Titolo: Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana
Autore: Enrico Pugliese
Editore: Il Mulino, 2019

Articolo di presentazione di Enrico Pugliese, pubblicato il 10 ottobre 2019 su Rassegna.it

A partire dall’inizio di questo decennio, l’Italia è  interessata da una significativa ripresa dell’emigrazione verso l’estero. Si tratta di una nuova emigrazione, sia perché essa ha luogo dopo alcuni decenni di stasi dei movimenti migratori per l’estero, sia perché presenta caratteristiche diverse da quelle della grande migrazione intra-europea del dopoguerra, che aveva visto protagonisti i lavoratori italiani. Il nuovo flusso si è ormai stabilizzato e il numero di partenze ha raggiunto livelli che non si registravano dagli inizi degli anni settanta.

Tutto ciò autorizza per altro a parlare di un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana: il terzo, come ho messo in evidenza nel mio libro “Quelli che se ne vanno: la nuova emigrazione italiana” (Il Mulino, 2018). Eppure la problematica è assolutamente assente dal discorso pubblico nel nostro Paese, essendo l’interesse polarizzato sulla tematica dell’immigrazione. E questo è uno dei primi paradossi riguardanti la situazione italiana in materia di migrazioni internazionali. Perciò vale la pena di portare avanti un chiarimento sull’entità e la composizione dei due flussi: quello degli stranieri che arrivano in Italia e quello degli italiani che se ne vanno all’estero. Ciò consapevole del fatto che non è la sola consistenza numerica a determinare la rilevanza sociale e politica di un fenomeno.

L’impatto sulla società italiana dei due fenomeni è parimenti rilevante, ancorché in modo diverso. Ed entrambi ormai sono ben visibili nella realtà della vita quotidiana del Paese, mostrando sempre più chiaramente il carattere di crocevia migratorio assunto dall’Italia al centro dei processi di internazionalizzazione e segmentazione del mercato del lavoro. I cittadini stranieri residenti in Italia sono ora pari a 5 milioni e 250 mila, una cifra poco lontana dal numero degli italiani residenti all’estero, che sono 5 milioni e 114 mila. Per quel che riguarda aspetti e tendenze è bene precisare qualche punto interessante. Il flusso di immigrati in ingresso è formato da tre componenti. La prima è quella delle persone che entrano o che si registrano per motivi di lavoro (e questa in effetti da diversi anni è andata riducendosi fino a livelli molto bassi). La seconda, molto numerosa, è quella costituita da persone entrate per ricongiungimento familiare. La terza, infine, è rappresentata dai rifugiati e richiedenti asilo, il cui numero è andato aumentando nel corso dell’ultimo quinquennio man mano che si riduceva il numero di coloro che entravano per motivi di lavoro.

Insomma, in Italia – per quel che riguarda il lavoro – abbiamo un flusso di immigrati per lavoro che, stando ai dati ufficiali, si è ridotto durante la crisi e la successiva stagnazione, mentre è proseguito in maniera sistematica il flusso in uscita: quello della nuova emigrazione italiana. Le partenze annuali ormai da qualche anno superano le 150 mila con un dato molto importante: circa un terzo di quelli che partono sono stranieri. Si potrebbe dire “gente che va e gente che viene”. Ma non è la stessa gente.

Passiamo agli aspetti più caratterizzanti la nuova emigrazione e ai paradossi che essa esprime. Cominciando dalle provenienze e dalle destinazioni, ci sono due aspetti da notare: le partenze si indirizzano in larga misura verso un numero molto ristretto  di destinazioni, tutte – tranne la Svizzera – interne all’Ue. E questo è ben comprensibile, in quanto effetto del processo di integrazione europea: processo ormai da qualche anno a rischio a causa delle tendenze sovraniste in atto (non solo la Brexit).

Ciò che stupisce riguarda invece le aree di provenienza. Le regioni italiane che danno il maggior contributo all’emigrazione non sono le più povere del Sud, bensì – con la parziale eccezione della Sicilia – quelle più ricche e sviluppate del Centro-Nord, a partire dalla Lombardia e dal Veneto. Questo interessante paradosso è solo apparente e si spiega anche con la più complessa composizione del flusso che parte dal Nord. Ma la spiegazione più importante sta nel fatto che il movimento migratorio dal Sud ha una duplice destinazione: verso le regioni del Nord e verso l’estero. Il primo è assolutamente maggioritario e la sua ripresa ha avuto inizio prima del ritorno dell’emigrazione all’estero.

Il terzo e ultimo paradosso riguarda la composizione del flusso dal punto di vista sociale e del capitale umano. C’è nel flusso in uscita un’assoluta prevalenza della componente giovanile e una notevole componente a elevato livello di scolarizzazione. E questo secondo aspetto ha fatto molto parlare di “fuga dei cervelli” o di brain drain. Il fatto è che si ritiene che i giovani altamente scolarizzati rappresentino la componente  maggioritaria, mentre in realtà essi sono poco di un quarto del totale dei nuovi emigranti. Eppure su di loro, “sulla fuga dei cervelli”, si concentra l’attenzione, tralasciando le altre componenti, quelle di origine popolare, destinate alle occupazioni di più basso livello (“le braccia in fuga”). Per queste ultime le condizioni sono più problematiche rispetto all’emigrazione del dopoguerra e le prospettive, relative all’ipotesi di un rientro, ancora più scarse.

Entrando nel merito delle implicazioni di questo flusso migratorio per le aree di partenza, l’aspetto di maggior rilievo è quello demografico. Su questo piano la grande migrazione del dopoguerra ebbe effetti assolutamente positivi, nella misura in cui permise un alleggerimento della pressione demografica, mentre il riequilibrio della struttura demografica veniva garantito dall’elevata natalità. Oggi l’emigrazione aggrava gli squilibri demografici, dando luogo nelle aree interne a veri e propri processi di spopolamento. E che dire del paradosso (l’ennesimo) relativo alle rimesse degli emigranti? All’epoca aumentarono il grado di benessere materiale dei ceti più bassi delle regioni del Sud, oggi questo non si verifica più: al contrario, si registra una direzione in senso inverso delle rimesse: non sono  gli emigranti che inviano il loro contributo alle famiglie, ma le famiglie che inviano aiuti ai congiunti emigrati.

In ultimo la questione del lavoro, che è quella più seria. La composizione occupazionale dei protagonisti della grande emigrazione del dopoguerra era contadina e proletaria,  la destinazione occupazionale era prevalentemente operaia. Ora le occupazioni sono diverse e molteplici, anche di livello alto per i più scolarizzati. Ma una situazione di precarietà riguarda sia le occupazioni della fascia bassa che quelle della fascia occupazionale alta. Nell’area dei mini jobs e dei lavori precari o privi di protezione sindacale la presenza degli immigrati (italiani compresi) è preponderante in tutta Europa. Anche i benefici del sistema di welfare hanno cominciato a ridursi per i lavoratori stranieri.

Tutto questo richiama alla necessità di una politica riguardante l’emigrazione, innanzitutto incentivando le “non-partenze”. E su questo il punto principale riguarda le politiche economiche per l’occupazione (e non le politiche attive del lavoro tese ad adeguare un’offerta sovrabbondante a una domanda di lavoro che non c’è). Ma c’è anche da sviluppare una politica di difesa e protezione degli emigranti all’estero, rafforzando il lavoro degli uffici consolari in questo ambito, rafforzando e finanziando le strutture di rappresentanza degli emigranti e le loro associazioni e  stimolando infine le attività di patronato. Tutto questo passa per la presa di coscienza della rilevanza del fenomeno.

Enrico Pugliese è professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza Università di Roma