Recensione del libro di Maria Grazia Maiorino “Angeli a Sarajevo”

maiorino-angeli-a-sarajevo-coverGiovedì 13 ottobre, ore 21.15, secondo incontro di LE MARCHE IN BIBLIOTECA, I Giovedì Letterari della Planettiana. Il libro della serata è “Angeli a Sarajevo”, di Maria Grazia Maiorino, Gwynplaine editore.

Una recensione di Tullio Bugari.

C’è come una trama tessuta da più fili in questi racconti, ove le parole si fanno leggere e il linguaggio delicato e pieno, sempre mobile, che s’immerge e riaffora, si guarda e vede nessi, rimandi a nuove trame, segue il senso di quei fili in luoghi toccati ora dai ricordi, o da nostalgie, talvolta rimpianti. Una o più trame che giocano a svelarsi o nascondersi, sopra o sotto la superficie, o a svelare proprio ciò che è già in superficie, implicito, tra le parole stesse, o nelle relazioni, nelle cose, e richiede soltanto una tacita attenzione. “Che cos’è quella corda tesa fatta di sguardi e di parole che le tiene ancora lì?” si chiede Elena mentre ci guida nel racconto “Cambiamenti”. Chi c’è e cosa ai capi di quella corda tesa come un legame, un filo attraverso cui i mondi interiori accendono un contatto? I cambiamenti come delicate metamorfosi di ciò che il corpo e i luoghi già contengono, anche quando sembrava non ci fossero più.

Leggerezza è la prima parola che mi è venuta la prima volta che ho letto i racconti di Maria Grazia Maiorino, e si trattava proprio di uno dei racconti qui presenti, “La casa delle iris”, e usai questa parola in pubblico nell’introdurre la conversazione con lei, e ancora mentre la pronunciavo questa parola ne avvertii anche il significato negativo che di solito le viene attribuito, e quindi sentii il bisogno di correggermi, ma così, messo alla sprovvista da me stesso, mi percepii un po’ goffo, come un infantile tentativo di correzione. Mi resi conto solo dopo che per un momento ero davvero entrato in sintonia con quel linguaggio.

La leggereza in questi racconti è sinonimo di pienezza, e la pienezza non è un terreno compatto ma un susseguirsi di spazi, fuori e dentro di noi, in uno scambio continuo, di luoghi interiori e di relazioni, di continui rimandi perché complessa è la trama della vita e ci vuole la leggerezza per percorrerla senza lasciarsi attorcigliare. “Ho letto il tuo libro, è la prima cosa che Stefano le dice, mi è piaciuto molto. Lo ha letto anche Lella, te la ricordi? Lei se ne intende, dice che scrivi bene. Lella è un’amica del periodo dell’università, diventata prima insegnante di latino e greco, poi preside. Alida la ricorda perfettamente anche se non l’ha più rivista. È incredula. Questa non se l’aspettava proprio, questa sì che è una sorpresa. Ci vorrà tempo per gustarla. Per capire come mai le dà un brivido di felicità.È Alida il nome della donna del racconto “La casa delle iris”.

Le sensazioni non sono mai da sole ma sempre intessute in questa trama che richiede il suo tempo, e non è un tempo di attesa, fermo. Anche il tempo è un susseguirsi di spazi, intessuto di ritmi mi verrebbe da dire.

C’è molta musica nei racconti, e non solo quella citata, che permea l’atmosfera di una festa o di un ritrovo tra amiche o con vecchi amici. Ad esempio, Suzanne di Leonard Cohen. E come per le sensazioni interiori, nemmeno la musica è un qualcosa di isolato, tanto per esserci, ma è intessuta di quella stessa continuità che siamo noi: “Chiuse gli occhi. Respirò profondamente l’aria quasi primaverile, un po’ irreale. Dentro, fuori. La notte, la stanza. Stelle in cielo e in terra. Candele e lampade discrete, macchie luminose nella penombra diffusa, con la macchia più vivida del fuoco, crepitante nel camino. E gli strumenti acquattati, ancora per poco, buoni buoni, scintillanti. Dall’interno arrivò la voce misteriosa di Kim Carnes: era uno dei dischi di successo dell’anno che stava per finire, riconobbe il ritmo trascinante di Bette Davis eyes, la sua canzone preferita. Her hands are never cold. She’s got Bette Davis eyes.” Questa volta è Laura il nome della donna che attraversa il racconto “Cenerentola alla rovescia”, mentre in quella festa si avvicina la mezzanotte.

All’inizio del racconto Laura ci appare nella continuità dei suoi gesti, dei pensieri e dei luoghi: “Finì di asciugarsi i capelli con il phon davanti al grande specchio del bagno. Non aveva avuto tempo di mettere i bigodini e ora la massa dei riccioli castani appariva più compatta, come quando d’estate li lasciava asciugare al sole. Guardandosi mentre si passava le dita tra le ciocche dietro la nuca, dove erano ancora un po’ umide, si sentì diversa. Sbarazzina?”

Oppure la musica accede direttamente all’interiorità, come nel racconto “Le cose che finiscono”: “Vincenzo era seduto sull’erba vicino a lei, davanti allo spettacolo delle lucciole, la sola vicinanza la emozionava, Vincenzo canticchiava il ritornello di una canzone in inglese, e lei traduceva quella lingua sconosciuta, che le sembrava una musica, in parole soltanto sue.”

I luoghi in cui anche il lettore si muove sono quelli del paesaggio e del passaggio di sé, continuamente presenti, osservati con attenzione, i salotti, le ville o le città, gli angoli di Marche oppure di Ancona nei suoi momenti particolari, soprattutto ilporto e il mare, o la campagna che col mare si tocca, come nel racconto “Il nido incompiuto”: “Alla fine della salita c’era un incrocio, sulla destra un mucchio di case, lesse “Varano” sul cartello. Lui girò dall’altra parte e prese per una strada privata che si internava sulla sinistra. Vide spuntare il mare in fondo, una striscia più azzurra oltre le colline, interrotta dal monte Conero, simile a un bestione: immaginò di vederlo di schiena e che il muso se ne stesse appoggiato sulla sabbia o sui sassi lucidati dall’acqua. Ora gli alberi formavano una galleria ombrosa, fino alla curva, dove la strada proseguiva in discesa, scoperta, tra campi di girasoli.

Estrarre frammenti da un tessuto continuo, come sto facendo ora, potrebbe farci scivolare fuori, perdere il contatto, escluderci dal cambiamento o renderci astratti, ma che significa “astratti”? Non più legati ai nostri tempi? È un’oscillazione che trovo però anche disseminata dentro queste stesse trame: “L’unica vera intimità era quella dell’amore, ma quel privato non diventò mai politico, almeno per me. Anch’io ero astratta. Nessuno scambio reale. Nessuna utopia impossibile. Nessuna emozione vera, distinta, ma una continua ansia di cambiare. Sembrava che bastasse stare insieme per scoprire chi si era e dove si voleva andare. Soltanto al ricordo dei cortei provo una fitta di nostalgia, mi rivedo partecipe anche fisicamente, contenta di essere parte di una coralità che mi riempiva.”

Gli angeli di Sarajevo, che danno il titolo al libro e a uno dei racconti, seppure quel racconto non parla della Bosnia della guerra ma ne fa solo una citazione, mi sono apparsi alla fine come uno dei fili che tessono con maggiore forza l’ordito su cui si riflettono queste trame di vita e questo desiderio di metamorfosi e cambiamento: “Sono angeli poveri, in bianco e nero, angeli smagriti… È stato un artista francese, Louis Jammes, a disseminare la tribù di angeli. Ha fotografato sarajeviti adulti e bambini, gli ha dipinto a carboncino grandi ali da serafini e ha incollato i poster su mura diroccate dalle bombe.”

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