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Casa editrice: Vydia editore

“Nell’Afa” di Pierfrancesco Curzi

 

Giovedì 26 ottobre alle ore 21.15, alla Biblioteca Planettiana di Jesi, per la terza serata della rassegna Le Marche in Biblioteca, incontro con Pierfrancesco Curzi, che ci racconterà del suo “nell’Afa”, Vydia editore. 

Articolo di Marco Benedettelli, dal blog FattoDirittto, tratto da Urlo, mensile di resistenza giovanile).

Titolo:Nell’afa
Autore: Pierfrancesco Curzi
Casa editrice: Vydia editore

È una notte rovente e appiccicosa quando nel quartiere Piano, a Piazzale Loreto, viene rinvenuto in un container il corpo straziato di una quindicenne. Carlo Galassi, cronista de L’Eco della Provincia, è svegliato da uno dei suoi informatori dell’ospedale. Scende dal letto, sale in sella al suo scooter e si tuffa a testa bassa in un caso di cronaca tragico, col quale si misurerà fra colpi di scena, riflessioni solitarie e battaglie di ogni sorta lungo una settimana di luglio dal clima a dir poco afoso. Finché, alla fine del suo instancabile lavoro, a suon di doviziose ricostruzioni, la penna di Galassi in qualche modo sarà artefice anch’essa, assieme al lavoro della Procura, dell’accertamento della verità.

Tutto questo e altro ancora è “Nell’Afa”, (Vydia Editore, dicembre 2016) primo volume di un progetto di trilogia incentrata sulla figura del giornalista anconetano Carlo Galassi, (i prossimi due libri sono in attesa di pubblicazione, ma la trilogia potrebbe trasformarsi anche in serie). L’autore, l’anconetano Pier Francesco Curzi, conosce molto bene le atmosfere che descrive, dato che lavora da sempre nella cronaca cittadina oltre che ad essere reportagista per il Fatto Quotidiano da zone di crisi e già autore di libri di geopolitica. Nell’Afa è così anche un tuffo nei meccanismi perversi della provincia e del suo giornalismo, che ci mostra come funzionano il rapporto con le fonti, le conferenze stampa, le furiose guerre intestine coi propri capi e colleghi di redazione. Curzi sa descrivere molto bene le dinamiche che scattano nei giornali locali all’affacciarsi di un omicidio efferato e tragico. Sa come la notizia viena sezionata, sviluppata, strumentalizzata. Sa quali sono i complessi rapporti fra giornalisti e forze dell’ordine, personale medico e ospedaliero, familiari della vittima, magistrati e avvocati, politici locali ed esaltati da marciapiede. E racconta il tutto con uno stile allenato, puntuale, di chi – come Curzi – ha macinato migliaia di righe, articoli, pagine, e padroneggia più livelli di linguaggi tecnici e specialisti.

Il libro funziona alla grande, si lascia leggere perché appassiona, muovendosi agilmente dentro le dinamiche narrative del genere investigativo con senso del ritmo e del racconto.

La vittima, Emma Calderigi, è una ragazzina un po’ ribelle dell’Ancona bene. Il primo indiziato dell’omicidio è un marocchino diciottenne, Hasan al Koresh, ex fidanzato di Emma, residente al Piano, frettolosamente e irresponsabilmente tacciato dai giornali cittadini come il sicuro esecutore del delitto. Giornali preoccupati solo di soffiare sul fuoco delle pulsioni razziste di certa gente, ormai in preda a un mix di ambizioni da scoop dei capi redattori in crisi di vendite e di deriva populista. E anche Emma, la giovanissima deceduta, alla fine delle indagini si rivelerà essere stata uccisa dalle paure irrazionali e violente di quel mondo attorno a lei all’apparenza così rispettabile (ma non sveliamo altri particolari). Il tutto in una città, Ancona, ammorbata dal caldo di luglio, sudata, fatta di trattorie unte, quartieri popolari, odore di porto e di pesce marcio, scorci di paesaggio che aprono la mente. Un mondo cromatico, bello e brutto assieme, dove Carlo Galassi, uomo che ha inghiottito tonnellate di delusioni, compie il suo dovere di cronista con onestà, passione e “tigna”, battendosi come un cavaliere dei nostri giorni contro le ipocrisie, l’irresponsabilità e l’idiozia di chi gli sta intorno, Senza pretendere ormai nulla in cambio se non il senso di libertà che arriva dalla ricostruzione faticosa, sofferente, di una chimera che alla fine emerge, la verità.

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

Recensione di Massimo Raffaeli a “S’agli occhi credi, le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti”

Pubblichiamo di seguito una recensione, apparsa a marzo 2016 sull’inserto Alias de “il manifesto”, che Massimo Raffaeli ha scritto al libro a cura di Cristina Babino S’agli occhi credi, le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti, edito da Vydia e protagonista del primo appuntamento di “Le Marche in Biblioteca: i Giovedì Letterari della Planettiana” in programma giovedì 6 ottobre.

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“Da Carlo Crivelli a Mattiacci, sedici poeti marchigiani fissano l’arte delle loro terre”

di Massimo Raffaeli

Scrisse una volta Paolo Volponi che le Marche hanno una misura breve e un’aria mite, prodiga di innesti e di silenziose contaminazioni più che, aggiungeva, di «incontri e proclami»: insomma, sia detto in altri termini, le Marche come regione declinata al plurale, silenziosa e attiva sottotraccia eppure colma tanto di tesori artistici quanto (ed è un caso nazionale a lungo richiamato, studiato) di poeti. Ne è ultima e fervida testimonianza il volume collettivo a cura della poetessa Cristina Babino, S’agli occhi credi Le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti (Vydia editore, Montecassiano, pp. 181, € 18) che è suggellato da una limpida nota storica di Daniela Simoni, responsabile del «Centro Studi Osvaldo Licini» di Monte Vidon Corrado. Sono sedici gli autori convocati a selezionare un’opera presente o concepita nel territorio, dentro un arco cronologico che dal quattrocentesco Carlo Crivelli si congiunge ai contemporanei Magdalo Mussio, Nino Ricci ed Eliseo Mattiacci.Ciascun autore sceglie non soltanto un’opera ma una propria modalità espressiva, dalla poesia in versi (è il caso di Gianni D’Elia sullo stesso Mattiacci), alla pagina di diario (è il caso stavolta di Adelelmo Ruggieri sulla Adorazione dei pastori di Rubens a Fermo o di Marco Ferri sulla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca), dalla riflessione metapoetica (Renata Morresi su Crivelli, Maria Lenti su La Muta raffaellesca o Franca Mancinelli sulla anonima tavola urbinate della Città ideale) alla vera e propria canonica forma dell’ekphrasis che adibiscono Alessandro Seri su un celeberrimo Ligabue e Massimo Gezzi sulla malnota e stupenda Piovra di Scipione.

Legati a una diretta produzione d’autore sono peraltro i contributi dei poeti, insieme con D’Elia, di più lungo periodo e di più riconosciuta fisionomia, Francesco Scarabicchi e Umberto Piersanti, l’uno sulla Crocifissione lottesca di Monte San Giusto (e alla figura del Lotto si è ispirato, Scarabicchi, per il poemetto Con ogni mio sapere e diligenza, Liberlibri 2013), l’altro, Piersanti, sul Riposo durante la fuga in Egitto di Federico Barocci, la pala nella chiesa di Piobbico da lui citata nel romanzo Olimpo (Avagliano 2006), unica per la delicatezza degli incarnati e la soavità dei colori, quella in cui si vede il bambinello con le ciliegie in mano: «Sono salito lungo il viale costeggiato dai grandi agrifogli e sono entrato nella chiesa di santo Stefano: ho guardato a lungo quella tela e mi sono come rivisto e riconosciuto in mezzo ai miei colli, dentro le mie terre. La più grande vicenda della storia umana divenuta familiare e vicina, partecipe di uno stesso paesaggio reale e psicologico». Sono parole che nella loro semplicità, nella esattezza, rinviano alla lezione del maggiore poeta espresso dalle marche dopo Leopardi, Franco Scataglini (1930-1994), il quale obliterava i termini della identità e parlava invece di residenza, lo spazio-tempo d’esperienza, di testimonianza, che a ciascuno è dato una volta sola e una volta per sempre.

“Fil rouge. Le lettere segrete di Yvette Mirebau”, di Alessandro Seri

fil_rouge_DEFTitoloFil rouge. Le lettere segrete di Yvette Mirebau
Autore: Alessandro Seri
Casa editrice: Vydia Editore

Una soffitta di Parigi nasconde la vicenda dimenticata di una giovane donna nella Francia degli impressionisti e dell’assenzio, di Baudelaire e della Comune. Nell’arco fragile di un fascio di lettere antiche nasce e si consuma un amore scritto, pensato e vissuto tra convenzioni e moti libertari; il filo rosso che lega i due protagonisti si dipana lungo le anse della Storia e i meandri di un universo intimo destinato a un imprevedibile altrove. La storia riemerge grazie alla scoperta delle lettere che Yvette Mirabeau, giovane figlia di un importante mercante di tessuti di Versailles, scrisse tra il 20 agosto 1866 e il 21 maggio 1871, a Arthur de Saens, definito squattrinato frequentatore di circoli letterari, e poi partecipe dei movimenti politici dell’epoca. Anni di grandi cambiamenti e importanti eventi storici. Le lettere di Arthur a Yvette – l’altra metà della corrispondenza – non ci sono, quindi abbiamo una sola versione della storia, “quella vista con gli occhi e vissuta con l’ardore di una ragazza che si apprestava a crescere immersa nelle convenzioni del suo tempo, ma con la forza di chi può e vuole essere padrona della propria vita.”
Scrive Yvette, dalla costa inglese, il 21 marzo 1871, appena tre giorni dopo che in Francia è stata proclamata La Comune di Parigi: “Durante la traversata ho passeggiato contro il volere dell’equipaggio sul ponte della nave, nonostante il vento freddissimo e la pioggia. Volevo gustare l’istante in cui pensavo di raggiungere la piena libertà (…) Ora mi affaccio alla finestra della locanda che mi ospita e vedo il mare in tempesta (…) mi farebbe molto piacere, quando arriverò a Londra, poter trovare ad aspettarmi anche una tua lettera. Potrebbe voler dire che, dopo tutto, non siamo poi così distanti. Il caso ci ha fatto incontrare, ma non siamo stati coraggiosi abbastanza da modificare il destino.”
L’intero racconto consiste dunque in un epistolario, tutte le lettere di Yvette che lo squattrinato Arthur ha conservato e poi è riuscito ad affidare in tempo a qualcuno che ha continuato a custodirle. Se la scrittura usata dall’autore segue l’unico registro dell’epistolario, le chiavi di lettura sono tuttavia molteplici e convivono insieme ad ogni passo: dalla duplicità degli sguardi femminile e maschile, all’intreccio tra vita privata e intima e il mondo letterario e quello sociale, a sua volta altrettanto duplice, stretto tra le convezioni borghesi della società imperiale e i club dei nuovi movimenti internazionalisti. Nasce forse, in questi frangenti della Storia, l’utopia moderna, che forse ancora oggi dobbiamo decifrare e comprendere fino in fondo ma alcuni indizi, i lati più intimi, magari possiamo riscoprirli proprio tra i risvolti di queste lettere. Yvette e Arthur non ne hanno avuto il tempo, attorno a loro tutto appare in movimento o in procinto di muoversi. La stessa scrittura di Yvette – l’epistolario – evolve, rispecchiando l’evolversi della ragazza e le tensioni che attraversa nell’arco di questi cinque anni in cui tutto è destinato a cambiare.

L’enclave dei sogni (appunti per una recensione), di Tullio Bugari

 

“Femminile plurale. Le donne scrivono le Marche”, a cura di Cristina Babino

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Titolo: Femminile plurale. Le donne scrivono le Marche
Autore: Cristina Babino (a cura di)
Casa editrice: Vydia Editore

Dalla introduzione di Cristina Babino, curatrice dell’antologia:
“Se questo libro ha un obiettivo, è allora proprio quello di riunire le due dimensioni quella marchigiana e quella femminile, attraverso il medium della scrittura, dell’espressione letteraria come tramite di esplorazione, restituzione, confronto e conoscenza, Un apporto, quello della scrittura delle donne delle Marche, di cui si vuole suggerire la rilevanza po-etica, la fecondità, le eredità da cui attinge e dalle quali si discosta, l’apertura a possibilità future, (….) Se non esiste forse una scrittura femminile definibile in quanto tale, poiché lo stile è chiaramente un fatto individuale che prescinde dal genere, può esistere invece una differenziazione di prospettive nella scrittura di uomini e donne, derivante non tanto da un lato biologico, ma dalla stratificazione storico-sociale di idee e consuetudini consolidate. (…) la diversità dello sguardo e della voce delle donne nella scrittura va ben oltre la riduzione a temi tradizionalmente identificati con l’esperienza femminile, e riguarda la loro possibilità di prendere la parola e modellarla, deformarla, scagliarla, trasformarla, averne cura a partire non da qualche “essenza” del femminile, ma dalla loro posizione (storica, quindi modificabile) nella società.”

(“Come appunti di viaggio“, di Tullio Bugari)