Visionario. Viaggio tra sacro e profano, di Ezio Bartocci

VISIONARIO. Viaggio tra sacro e profano. Più che della mostra – sulla quale potete leggere qui: https://www.cittanuova.it/563566-2/ – e che è assolutamente da “visionare” coi propri occhi, attraversandola nelle sue stanze, provo a raccontarvi qualcosa di quello che, in questo caso impropriamente, è definito catalogo.

Dunque, visionario. Una mostra che non è soltanto una mostra ma un’esperienza. Un viaggio tra sacro e profano che non si muove dentro il punto di contatto, o di mescolanza tra le due dimensioni, per dischiuderne concettualmente il segreto, ma entrambe le avvolge con lo sguardo, e le comprende. Sono gli sguardi ad evolversi, e il Tempo a dare consistenza ai luoghi.

E così il catalogo della mostra non è soltanto un catalogo ma una mappa, un breviario, sostrati di esperienze, un’immersione. Andrebbe letto prima, oppure tornarci ancora, dopo. Su quel crinale illusorio – visionario – dove sacro e profano si avvolgono, quasi nascondendosi uno nell’altro, perché il profano siamo noi col nostro sguardo, che ci guardiamo attorno immersi in quel fuggevole senso del sacro, e più che gli abissi ne scorgiamo i declivi, in cui attardarsi, ritrarsi, restare sospesi. Il brivido sottile di perdersi sapendo che il nostro passo resta tranquillo. Non si inventa a tavolino questo equilibrio se non lo si porta addosso, prima di lasciarlo fluire nel segno grafico, nell’invenzione che la mano sa come far scaturire sotto lo sguardo dell’occhio. E così diventiamo noi le visioni che scopriamo, ed è la nostra pelle ad animarsi come un paesaggio. O un volo: «la fantasia fa volare l’angelo, l’angelo la fantasia».

E ci troviamo ancora sull’uscio di questa mostra, non siamo ancora entrati, chissà se siamo davvero pronti ma che importa.  Non credevo nemmeno – o me lo ero dimenticato in questo mondo che annaspa alla ricerca del suo ritmo perduto –   che una mostra potesse contenere in sé anche un paese, il senso del luogo. La mostra si articola su tre spazi che si succedono – per primo ho incontrato il loggiato, un bagno di sole a quell’ora, luminoso più di una vetrina, in un solo colpo d’occhio “la crociata dei fanciulli” o “le stanze del tempo sospeso”; poi ecco davvero le stanze profonde del museo delle arti monastiche, che mi ricordano sempre gli antri dell’Orecchio di Dioniso quando vi entro, e da qui si emerge alla chiesa di san Michele, ariosa come la scena di mille gesta – e così è il paese a farsi cammino tra le opere esposte. Sempre di più lo dimentichiamo, oramai, ma siamo noi questi paesi che ci portiamo addosso. Dev’esserci una continuità, col cammino dell’artista, che continua a sfuggirci, nonostante sia qui davanti a noi questa continuità tra l’opera e il contesto, dev’essere anche in questo l’incontro tra sacro e profano.

Dovremmo essere noi l’invenzione, lo sguardo che reinventa. L’abbiamo avuto sempre qui ma chissà a che pensavamo? Poi ci immergiamo nel cammino dell’opera e la parola pensare assume altri significati, ci invita all’attenzione, ne scorgiamo l’emozione. Il brivido sottile del perdersi, mantenendo però il passo tranquillo, noi stessi, come ha già fatto e ancora sta facendo l’artista.

Camminiamo con lui. Che ci racconta. Il catalogo non è un catalogo ma una Confessione, come le confessioni dei santi visionari – «le narrazioni che avrebbero dovuto farmi stare con le orecchie aperte» – che si fanno tutt’uno col baccano “dei monelli” nel cortile di un paese; sembrano un gioco quei san Michele e san Giorgio che punzecchiano draghi.

Ed è proprio così, in questo libro che si finge catalogo, che Bartocci ci “guida” – che parola grossa, lui cammina con la solidità del passo attento a dove poggia, e noi curiosi gli siamo appresso – tra le sue opere come attraversando se stesso: «… un arco rudimentale, una pistola o una fionda fatta alla buona con l’inforcatura di un ramo reciso, erano sufficienti a farci fantasticare mirabili gesta…». Fantasticare “evocando visioni” significa vedere ciò che ci appare davanti per ciò che veramente è, senza altri fronzoli: «Una mattina andando a scuola, mentre passavo accanto al vecchio reduce della prima guerra mondiale, che ogni giorno si trascinava sulle stampelle da casa sua all’angolo della piazza, lo sentii esclamare una frase che mi colpì molto: ‘l’inferno è sulla terra, ma solo per i poveri diavoli’».

L’angelo e il diavolo, e ancora altri “racconti” tra i meandri di se stesso e del paese – che non è più soltanto questo della mostra ma è già quello delle origini, ove si è appreso a camminare davvero, come in un flusso. Delicatamente mirabili le righe che Bartocci dedica al latte, qui la profondità della prospettiva recupera sullo stesso piano visuale «le primordiali statuette votive del paleolitico raffiguranti donne opulente dalle grandi mammelle» alle «partorienti e le puerpere che si recavano in pellegrinaggio per auspicare la grazia … si bagnavano due o tre volte le mammelle, bevevano acqua calcarea biancastra, ritenuta miracolosa…», e alla «vicinanza non solo concettuale tra il latte materno e l’acqua, ben altrettanto vitale per l’uomo».  È da qui che prendono forma tutte le “madonne del latte” inseguite nel tempo da tanti artisti, e che vediamo di nuovo qui in questa mostra, e nel catalogo, mai uguali a se stesse e mai bloccate.

Coppa del tempo sospeso, 2003; terracotta smaltata, 10 h x 27.

Il segno grafico ci illude che si sia fermato, ce ne accorgiamo nella sala del tempo sospeso ove è proprio la sospensione ad aprire lo spazio a nuove dimensioni, ad un altro ritmo dello scorrere. Ma quanto è difficile contenerlo davvero! Proprio qui le opere di Bartocci sono tutt’uno col contesto che aleggia attorno, nelle stanze del museo delle arti monastiche. Ed è qui che il tempo sospeso possiamo ritrovarlo tremolante come l’acqua in un secchio, che ci guarda “contenuto” dal fondo di una coppa, o che torna a riprendere il suo cammino scivolando su una ruota, che torna sempre a ripetersi. Il viaggio, “dunque”, è in noi, “immaginario” o “miracoloso”, come il viaggio di quelle case che dalle nostre parti – non siamo lontani da Loreto – siamo abituati a vedere sfrecciare nel cielo, o “nel quadro accanto” una consolatrice “Nostra Signora dei migranti”, per non dimenticare che esistono anche questi altri viaggi, così reali.

Memoria di un viaggio, 1995; terracotta patinata e legno di recupero, elemento centrale con le quattro formelle.

Al Rogo. «Occorre naso fino per sentir puzza di bruciato e buone gambe per scappare prima che sia troppo tardi – sentenzia Enimeo», uno dei personaggi visionari che scaturiscono da Bartocci, suo alter ego di un tratto del suo cammino artistico, sempre pronto a riecheggiare come il borbottio del mondo.

Oppure il paragrafo «In cielo con le mani» che già nel titolo promette chissà che, come in un gioco: «Il tradimento dei chierici è cominciato il giorno che uno di essi per primo ha rappresentato un angelo che sale in cielo con le ali. In cielo non si può salire che con le mani…».

E i chierici ovviamente non sono soltanto una categoria da punire con una marachella, anche loro sono una dimensione di noi stessi, ostinati a perderci nell’intrico delle relazioni e situazioni, tra le voci del mondo, che poi sono anche le nostre, il rito desacralizzato che a volte viviamo, e ci costruiamo. Ed ecco allora a scuoterci “gli uccelli di creta”, da un vangelo apocrifo: «ad uno ad uno i suoi uccelli volarono via festosi rallegrando l’aria». Un fruscio di ali, e subito a ricordarci che «l’arte può essere lavoro, gioco e preghiera, ogni giorno diversamente».

O a casa di una zia di allora: «I fiori nel vasetto non provenivano dai fiorai, né tantomeno erano di plastica, come non erano ancora di plastica i crocefissi appesi ovunque. Quelli made in Cina esposti negli uffici, nelle scuole, negli ospedali e ovunque, che non invitano certo alla preghiera. Ci vorrebbe un decreto papale per impedirne la fabbricazione e rilanciare l’artigianato.» Il sacro e il profano che insistono ad aver bisogno uno dell’altro.

Nel paragrafo “Memento” Bartocci ci porta per valli e campagne, lungo quel nostro paesaggio di colline solari che dovremmo conoscere bene, invitandoci però a riscoprire le edicole votive “rimaste “sospese” al margine di strade di campagna, per chi abbia ancora il tempo di fermarsi. Ed ecco tra queste tante edicole che Bartocci ripropone, apparirne una più lunare che solare; vedendola, l’ho immaginata riposta nell’angolo dimenticato di un magazzino, l’edicola non contiene più madonne del latte ma una marachella, i pupi di un calcio balilla, angeli infilzati senza più ali, ma nemmeno braccia e mani per riconquistare il cielo, che m’è sembrato di scorgere sullo sfondo come oltre un oblò, una specie di finestra, o forse è addirittura lo schermo di una televisione abbandonata. Ma esiste poi davvero l’abbandonare?

«Da una mia anziana zia, una zitella stravagante… ricordo una Madonna con bambino… molto annerita dal fumo delle candele, o per essere stata esposta a lungo in cima a un caminetto che non tirava bene… la suggestiva maternità era appesa al centro di una parete bianca… sembrava molto antica… vicino all’interruttore di bachelite, tra la treccia della corrente elettrica e il muro, accanto alla palma benedetta era infilata bene in vista l’ultima bolletta della luce da pagare prima della scadenza o la ricevuta del pagamento. Prima d’essere messa lì, raccontava la zia, era rimasta al buio per inadempienza, o a lume di candela per giorni, fino al riallaccio. Sacro e profano possono convivere in ogni luogo quotidianamente.»

Il libro catalogo si può chiedere all’ingresso alla mostra, al MAM, Museo Arti Monastiche; il testo di Ezio Bartocci è introdotto da Bonita Cleri: “La visita alla mostra delle opere di Ezio Bartocci a Serra de’ Conti rappresenta un’esperienza immersiva in grado di suscitare tante e differenti emozioni, in essa dimostra di sapere trattare il sacro con ironia e allo stesso tempo con rispetto, conferendogli una dimensione alta soprattutto per essere collegato alla complessità del quotidiano.”

Figura emblematica, 2002. Allegoria per Le stanze del tempo sospeso. (matita su carta 30 x 21,5)

Foto in vetrina: PRIMO MAGGIO alla SIMA

La gente che in questi giorni attraversa la Galleria del Torrione, dove insieme al supermercato omonimo ci sono gli altri negozi del Centro commerciale, può vedere  esposte nella vetrina di Binci, il fotografo, alcune gigantografie originali in bianco e nero, degli anni Cinquanta, fissate su pannelli e incorniciate “a giorno” da un profilato di plastica bianca.
Queste  e tante altre  foto simili arredavano le pareti  di uffici e corridoi della moderna palazzina in fondo a via Mazzini disegnata dall’architetto Marco Zanuso insieme agli arredi, anch’essi dispersi o distrutti durante lo smantellamento dell’importante complesso industriale. Sul terreno un tempo occupato dalla SIMA sono sorti i suddetti negozi, gli studi privati, gli appartamenti  e il posteggio. Anche se sono passati solo alcuni decenni dalla chiusura della fabbrica,  anche la maggior parte delle persone che passano qui abitualmente, o che ci abita o ci lavora, ignora che qui per anni è stata attiva la principale e più avanzata industria della zona. Industria che ha dato lustro alla città e lavoro fino ad oltre settecento dipendenti.
Queste  poche foto Rappresentano solo un modesto ma significativo Ricordo della SIMA, l’industria leader nel settore delle macchine olearie e, nel giorno della Festa dei Lavoratori, un pensiero a  tutti coloro che qui si  sono avvicendati giorno dopo giorno al suono della sirena.
Ezio Bartocci, Jesi, 1 Maggio 2023

Dal libro “La Simeide” di Tullio Bugari, (Seri editore, 2019):
… la Sima torna a crescere e nel 1952 rinnova gli stabilimenti e la palazzina degli uffici. Il progetto è di Marco Zanuso. I due capannoni nuovi, non visibili dalla strada perché nascosti da quello più vecchio, hanno spazi più ampi e funzionali, alti, luminosi e arieggiati. Zanuso è giovane e all’inizio di una carriera che gli procurerà riconoscimenti in tutto il mondo. Inizia a collaborare con Adriano Olivetti per il quale realizzerà gli stabilimenti di Scarmagno a Ivrea e altri in Argentina e in Brasile. Per descrivere il suo lavoro viene coniato il termine “umanesimo zanusiano”: le fabbriche di Zanuso hanno una loro ‘urbanistica interna’, fatta di relazioni, spazi aperti e chiusi, flussi di persone e materiali, rapporti fra esterno e interno. Le funzioni accessorie si dislocano con logica intorno alle zone produttive, esercitando anche un ruolo di mediazione e raccordo con il paesaggio circostante e con il contesto che vive intorno alla fabbrica. La composizione in pianta e gli ambienti che vengono creati non sono disgiunti dallo studio approfondito di strutture e impianti, che a loro volta si integrano tra loro, evitando, appunto, la giustapposizione di elementi. Zanuso realizza anche la palazzina uffici, un edificio visibile ancora oggi in via Mazzini. Curò anche gli interni e i dettagli, i mobili e altri oggetti che finirono all’asta all’inizio degli anni Novanta, al tempo della demolizione dei capannoni.  Nella sua carriera Zanuso crea radio, televisori, telefoni e altri ancora oggi riportati nei cataloghi specializzati. Nel 1959 vince un premio anche per una macchina olearia della Sima, un separatore d’olio. Si dedicò anche alla ricerca e applicazione di materiali innovativi, quali il poliuretano, o l’uso della gommapiuma nelle poltrone o sedili per automobili…

MARCO ZANUSO (Milano, 14 maggio 1916 – Milano, 11 luglio 2001)

Ezio Bartocci. Poeti scrittori e altri ritratti a Cesenatico.

Il titolo Segnalibri, in maiuscolo, seguito da poeti, scrittori e altri ritratti nel manifesto della mostra aperta dal 25 giugno al 25 settembre alla Casa Museo Marino Moretti di Cesenatico, data la tipologia del minuscolo oggetto, il periodo e la località, può far pensare a una esposizione senza pretese come tante proposte ai turisti durante l’estate.

Niente di più sbagliato! La mostra è tutt’altro ma per accorgersene bisogna visitarla attentamente; non limitandosi all’excursus veloce tra una stanza e l’altra.

Occorre osservare ciascun ritratto e conoscere almeno un po’ il singolo scrittore e la sua unicità per apprezzare non solo le differenti fisionomie ma l’idea, la soluzione grafica o pittorica che caratterizza ogni soggetto.

Bartocci, quali siano le opere che propone evita le facili soluzioni ripetitive, di maniera e di comodo. Nel caso dei ritratti degli scrittori la scelta del segnalibro, del modulo tipico lungo e stretto, conferma la volontà di mettersi alla prova, per superare in questo caso il limite del formato facendo leva sulle abilità tecniche e in primis sulla fantasia.

Parte dei segnalibri presenti a Casa Moretti sono stati in mostra nell’estate del 2017 alla Biblioteca Nazionale di Firenze, altri sono stati usati dalla Regione Marche nel 2019 per l’edizione d’arte fuori commercio “Tra le pagine” distribuita al Salone del Libro di Torino, con la presentazione di Claudio Piersanti, da cui l’estratto seguente: … Bartocci non dialoga soltanto con i tratti somatici degli scrittori (altrimenti non sarebbero altro che caricature), ma anche e soprattutto con la loro opera. Più che il letterato, in Umberto Eco, vede soprattutto lo studioso, acuto, profondo, un po’ sornione, dubbioso, ostinato. Eppure la figura è ottenuta soltanto con le tre lettere del suo nome, con l’aggiunta di pochissime linee taglienti e molto geometriche, in perfetta relazione tra loro. Sigaretta e baffi sembrano spinti dalla stessa energia del pensiero, che è quasi un vento.

In un altro ritratto la valle di Salinas si trasforma nel viso dell’autore di Furore, Steinbeck, un viso che dice di un’avventura quieta, senza la disperazione di Faulkner: il senso chiaro dei confini, un’idea di convivenza civile. Gli occhi sono grandi e sereni, i baffi dritti come una siepe appena tagliata, le labbra predisposte alla cordialità e al sorriso accogliente.

Altri due ritratti, inevitabilmente accostati dal caso, si prestano al commento: Sartre e Camus, si fronteggiano come nella vita. Avendo optato in giovinezza per l’autore de L’étranger mi trovo a non aver cambiato idea, anzi avendo appena riletto L’homme révolté ammiro più di prima il suo ritratto sui tre quarti, e lo trovo perfetto. Sguardo aperto, curioso, porta il nome scritto nella capigliatura. Fa freddo, è l’inverno parigino, il cappotto ha i baveri rialzati, anche a proteggere la sigaretta dal vento. Camus è un passante come noi, Sartre è l’uomo di marmo, lo sguardo ipnotizzato e perso nella geometrica realtà industriale che lo esalta ma nello stesso tempo lo soffoca. Come se non bastasse il suo nome è scolpito nel marmo, alla base del monumento. Zio di entrambi segnalo anche il ritratto di Gide, con le sue varie facce, e quasi ci si aspetta di veder sbucare anche quella di Claudel, suo antico amico-antagonista.

Bartocci sa benissimo che Gide aveva portato dai suoi viaggi alcune maschere africane, e tra queste una la ebbe Picasso, che come si sa ne fece buon uso. Così trasforma Gide stesso in una maschera e nei suoi multipli.

Non salta subito all’occhio ma ogni ritratto è realizzato con un taglio diverso. Un segno quasi sbiadito e occasionale ritrae perfettamente mezzo viso di Celine, uno dei ritratti più sorprendenti. Ispido com’era sicuramente ma anche candido ( …); Thomas Eliot, dal vasto viso composto solo di parole, inquieto amico di Virginia (Woolf), trova un suo rigore e una sua pace, religiosa e estetica. Eugenio Montale, scolpito in osso di seppia, si presenta come un paesaggio marino, abbandonato al sole nella risacca. Sembra scolpito dall’acqua ma invece è vivo, e l’occhio che ci fissa è profondo, sprofondato nell’aldilà sembra che ci parli con il pensiero.

Descrivo per ultimi i due ritratti forse più sorprendenti: Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Una matita rossa vaga sul foglio, senza un progetto apparente, ma all’improvviso si esclama “è proprio Moravia”. Nella sua essenza: è l’uomo che guarda. Il rosso, che domina anche il ritratto di Pasolini, non li unisce anzi li allontana. Il rosso diventa collera e sangue, martirio della croce (San Pasolini, direbbe Arbasino).

Bartocci è artista poliedrico, ma non ama le contaminazioni. È grande incisore quando lavora alla lastra e si immerge nelle sue amate carte (è nato a Cupramontana, il paese d’origine di Luigi Bartolini), è pittore raffinato quando usa i pennelli, per esempio nei suoi stupendi paesaggi marchigiani, quasi astratti, vere esplosioni di colori, geometrie che anziché perdersi nell’indistinto ti fanno scoprire particolari invisibili al primo sguardo. In fondo è una sorta di eremita ironico, moderno e antico, commercialmente incollocabile. (…)

Attraversate le diverse stanze della Casa Moretti, la mostra continua nello spazio della ex legnaia, passato il vialetto imbrecciato del giardino.

Lo spazio espositivo qui è meno articolato e molto più aperto, si presta a ospitare opere di formato più grande.

Appena entrati ci accolgono alcuni lavori ormai d’antan introdotti da un’antica stampa al bulino per far capire quanto l’esercizio del disegno un tempo fosse fondamentale specie nella ritrattistica. Da qui in avanti la mostra si snoda presentando tutta una serie di ritratti ottenuti dalla combinazione di iniziali e caratteri alfabetici. Nel catalogo della mostra in qualche pagina l’artista riassume questi suoi lavori così dicendo: Affascinato dalle antiche scritture ideografiche quanto dalle famiglie di caratteri tipografici, e ritenendo la fantasia e l’esercizio ludico due elementi affatto trascurabili, ho eseguito in periodi diversi vari ritratti di prestigiosi committenti, quali Re, Papi, Santi insieme ai profili di professionisti più abbordabili: Ing., On., Arch., Prof., Ins., Poeta, Mago, Attore, Genio, Vice.

Ritratti rigorosi, essenziali come le inconfondibili facce da Ebete, da Avaro, da Ladro.

L’dea m’è venuta tantissimi anni fa, mentre facevo anticamera in un ufficio di un professionista plurititolato trastullandomi col suo biglietto da visita. I titoli abbreviati e in corsivo “Cav. Prof. Ing.”, bene in evidenza prima del nome, erano elegantemente cancellati da un sottile tratto di penna, come per dire: non ci tengo affatto ai titoli (…)

La mostra si conclude con le opere esposte nel soppalco ricavato all’interno della stesso ambiente (ex legnaia). Qui non potevano mancare alcuni volti fantastici eseguiti in varie occasioni e per chiamate diverse. La scelta di un artista non vincolato dal mercato che può disporre del suo tempo per rispondere alla libera committenza, offre la possibilità di inventare a seconda delle occasioni. Nel caso specifico lo provano alcuni bozzetti per copertine e manifesti di iniziative letterarie o edizioni d’arte per ricorrenze particolari.

Già tantissimi anni fa Nicola Ciarletta scriveva per la cartella dei Manifesti metapubblicitari (Al Muro! Carucci,1978) … il riferimento all’uomo non manca mai nella grafica di Bartocci, anche nelle sue produzioni più astratte, la cui attrazione è tanto maggiore quanto più esse mostrano il senso motorio della loro genesi, che ha origine dalla linea. La linea è la capillare matrice della grafia di Bartocci, ne è il gesto iniziale, spoglio d’ogni potere simbolico e consegnato alla sua mimica, a quel modo che, nel teatro di Beckett, la “storia senza parole” è priva di favella e si svolge come pantomima. Tuttavia come in Beckett la favella, benché spenta, appare potenziata proprio dalla sua cessazione, così nell’opera di Bartocci la traccia dell’uomo è tenace, non foss’altro che nel retaggio gestuale della pura linea.

Il catalogo che sintetizza e riassume la singolarissima mostra nella casa del poeta col lapis non poteva concludersi meglio che con l’Alternativa al curriculum.

(a cura di Tullio Bugari)

Ezio Bartocci. Segnalibri. Poeti, scrittori e altri ritratti.

Cesenatico, Casa Moretti dal 25 giugno al 25 settembre 2022

Si apre sabato 25 giugno alle 18.00 la mostra di Ezio Bartocci, allestita a Casa Moretti per l’estate 2022.
L’artista marchigiano porterà infatti nelle stanze della casa museo i suoi Segnalibri con i ritratti di poeti e scrittori dell’Otto e Novecento non soltanto italiani. Materiali che troveranno una magica sintonia con quanto conservato nell’istituto di Cesenatico e in particolare con la “libreria casalinga” di Marino Moretti.

«Come in una parata silenziosa ma carica di significati», queste opere di piccolo formato, da collocarsi tra le pagine dei libri, sono capaci «di iconizzarne gli autori, smerigliandone l’anima, talvolta, come un identikit. Ci si potrebbe perdere tra questi ritratti e innescare altre imprevedibili storie sdoppiando vite e racconti, aprendo voragini spesse e giravolte, un pò come aveva fatto Alberto Arbasino nel suo Ritratti e immagini sorta di racconto moltiplicato degli incontri e delle tessiture relazionali avute con intellettuali e scrittori» (Bernucci).

Marino Moretti

I Segnalibri di Bartocci si dispongono infatti, con la discrezione delle loro minute dimensioni, lungo il percorso all’interno delle stanze, affianco ai libri dell’Otto e Novecento posseduti dal padrone di casa, Moretti. I Ritratti e le opere di maggiori dimensioni padroneggiano invece lo spazio più neutro della Legnaia ammiccando oltre quel giardino che tanti di quegli autori del secolo scorso ha ospitato e rappresentano una mini-antologica coprendo un lungo arco di produzione che va dagli anni Ottanta a oggi e offre anche una luce anche sul tratto evolutivo dell’artista.

La chiave dell’ironia, che subito balza all’occhio, è lo strumento usato da Bartocci per farci scivolare, quasi senza che ce ne si accorga, senza enfasi e senza retorica, nella riflessione. La sua riconosciuta attitudine ludica, del resto, come è stato scritto, «è strumentale all’inventiva e non intacca la dignità dei contenuti, talché, per gioco, di volta in volta affiorano nelle sue opere impegno sociale, ironiche annotazioni di costume, riflessioni esistenziali, desiderio di memoria, intimismo, poesia» (Del Gobbo).

Dimostrando capacità di vivere un rapporto sempre nuovo e prolifico con la tradizione culturale che rappresenta, Casa Moretti a Cesenatico ha saputo in questi anni declinare la sua attività, attorno alla letteratura e all’arte, rinnovando ogni volta la sua proposta, attenta alle esperienze espressive che emergevano in questi campi pur sempre sempre fedele alla fisionomia e mission dettate a suo tempo dal “padrone di casa”.

Luogo di ricerca, ma anche museo vivo e attivo, ogni anno Casa Moretti sa rinnovarsi con originali allestimenti temporanei, ospitando artisti del contemporaneo e opere che sappiano coniugare l’immagine con la parola. L’arte di Ezio Bartocci che espone i suoi Segnalibri e Ritratti ha la forza di questa novità e la sapiente discrezione che si armonizza con gli ambienti di una casa museo di scrittore. Artista di un’altra regione, le prossime Marche, egli ha sentito affine gli spazi del vivere e dello scrivere morettiano anche perché capace di essere ospitale, ugualmente con gli amici scrittori di allora come oggi con gli stessi, “ritratti” dal pennello bartocciano sui segnalibri che contrappuntano un suggestivo percorso accanto alla libreria casalinga dell’autore.

CASA MORETTI, via Marino Moretti 1, Cesenatico
Info: casamoretti@comune.cesenatico.fc.it
fb: casamoretticesenatico, instagram. museomarinomoretti 

Orari. tutti i giorni dalle 16.30 alle 22.30. catalogo in sede (ingresso libero)

L’incontro con Alessandro Seri

Lo scorso giovedì 28 ottobre abbiamo concluso la sesta edizione di “Le Marche in Biblioteca” parlando di poesia con Alessandro Seri.  Abbiamo conversato, letto e ascoltato poesie dalla sua recente raccolta Heutontimorumenos XXI, alternando le nostre parole con i brani musicali eseguiti dal maestro di chitarra classica Claudio Durpetti, insegnante della Scuola Musicale Pergolesi di jesi. Alla lettura delle poesie, prima si sono alternati Maria Grazia Tiberi e Tullio Bugari, dell’associazione Arci Voce, e in chiusura anche il poeta Alessandro Seri ci ha fatto ascoltare direttamente alcune sue poesie.

Non poteva mancare nemmeno in questa edizione una serata dedicata alla poesia e ai poeti, uno spazio speciale che abbiamo riservato ogni anno, dalla prima edizione, con Francesco Scarabicchi, all’omaggio dedicato lo scorso anno ad Anna Elisa De Gregorio; entrambi ci hanno purtroppo lasciato. Anna Elisa De Gregorio era già stata con noi due anni prima, insieme ai poeti Alessio Alessandrini e Alessio Ruffoni per presentare l’antologia Poesia di strada, che raccoglie una slezione dei venti anni del festival omonimo. Tra gli altri nostri ospiti di poesia, in questi anni abbiamo poi avuto Umberto Piersanti nel 2017, Maria Lenti e Lorenzo Fava nel 2019.

Insieme a loro ci hanno fatto compagnia oramai circa venti scrittori della nostra regione, e con loro diversi editori indipendenti della nostra regione, nonché le lettrici e i lettori di Arci Voce, i musicisti allievi e insegnanti della scuola Pergolesi di Jesi e altri amici musicisti intervenuti in specifiche occasioni, come Gastone Petrucci e Marco Gigli, e poi Silvano Staffolani, Lorenzo Cantori e Marco Pauri, e lo scorso anno Davide Uncini.  Si possono scorrere i loro nomi tutti insieme sfogliando le locandine curate ogni anno da Ezio Bartocci, che con la sua grafica è stato un attento compagno di strada di questo percorso.

Quest’anno abbiamo concluso con Alessandro Seri, Heautontimorumenos XXI, un titolo in apparenza enigmatico, in realtà assai più semplice, ripreso dal titolo greco di una commedia di Terenzio, del secpondo secolo a.c., una citazione che potrebbe essere anche una chiave ma in realtà è anche di più, rinvia anche ai lati molteplici dello spirito umano e alle sue stratificazioni, a ciò che appare ma potrebbe anche nascondere o svelare altro; cogliere l’intreccio complesso e ma anche saltarlo per svelarne in realtà altro. L’intera conversazione è stata inoltre ripresa  e condivisa in streaming, per cui è possibile anche rivederla e riascoltarla.

   Registrazione della serata

Le Marche in Biblioteca è una rassegna curata dalle associazioni culturali Arci Voce e Licenze Poetiche, con la collaborazione diretta della Biblioteca Planettiana e resa possibile dal Comune di Jesi attraverso il bando annuale per le iniziative culturali.

Letteratura comica e umoristica; al via il nuovo gruppo di lettura 2021/2022

E al settimo anno ci venne da ridere. Siamo infatti alla settima edizione di questo cammino di  condivisione della lettura, con una formula che funziona e ogni anno ci fa ritrovare, piacevolmente, alla Biblioteca Planettiana.  Iniziammo a ottobre del 2015 con la letteratura americana, poi proseguimmo con le letterature dei paesi del medio oriente nel 2016, la letteratura italiana degli anni duemila nel 2017, per proseguire poi nel 2018 con il  tema delle migrazioni e nel 2019 con la famiglia; di questa edizione facemmo in tempo a fare solo i primi incontri programmati, poi interrotti dalla pandemia; però non ci siamo interrotti e nel 2020, anche se la maggior parte degli incontri è avvenuta in streaming, abbiamo incontrato le letterature nordiche.  Più o meno una cinquantina di libri condivisi, e ora siamo di nuovo pronti a ripartire, come ogni anno subito dopo Le Marche in Biblioteca, ovvero gli incontri con autori della nostra regione che ci vede impegnati nei giovedì del mese di ottobre.

Anche nel prossimo anno gli appuntamenti saranno otto, con cadenza mensile, da novembre 2021 a giugno 2022, presso la Salara, al piano terra della Biblioteca Planettiana al Palazzo della Signoria. Il gruppo è aperto e chiunque ami la lettura, e il piacere di condividere le proprie letture, può unirsi e partecipare. Il Gruppo di lettura è condotto dallo scrittore Alessandro Seri. Il tema scelto quest’anno è la letteratura comica e umoristica.

Venerdì 29 ottobre alle 21.30 ci sarà l’incontro di presentazione dei libri scelti; qui di seguito ecco l’elenco dei libri e le date degli incontri; naturalmente, dato il periodo lungo di programmazione, le date potranno subire variazioni.

Presso la Biblioteca Planettiana; per partecipare è richiesto il possesso del green pass.

Heautontimorumenos XXI, di Alessandro Seri

Titolo: Heautontimorumenos XXI
Autore: Alessandro Seri
Introduzione di Sotirios Pastakas
Casa editrice: Arcipelago Itaca

Giovedì 28 ottobre alle 21.15, conversazione con l’autore; quarto incontro della rassegna le Marche in Biblioteca 2021.

“Le colpe, proprie e altrui: su Heautontimorumenos XXI”,  Viola Amarelli su Nazione Indiana del 2 luglio 2021.

Nella produzione poetica contemporanea non è raro imbattersi in materiali e moduli della tragedia classica o, quanto meno in suoi echi. Si pensi,  esemplificativamente, al Tiresia di Giuliano Mesa in area italiana o, al di là dell’Atlantico, all’Autobiografia del Rosso, romanzo in versi di Anne Carson. Ma è sicuramente molto meno frequente il riuso delle formule della commedia antica che caratterizza invece l’ultimo lavoro di Alessandro Seri:  Heautontimorumenos XXI (Arcipelago Itaca, 2021). Sin dal titolo è palese infatti il richiamo all’omonima commedia del latino Terenzio (a sua volta calco di un precedente lavoro di Menandro),  nota soprattutto per una celeberrima battuta diventata un brand delle correnti umanistiche a partire dai tempi del circolo degli Scipioni: Homo sum: /  umani nihil a me / alienum puto, qui posta in esergo alla raccolta. La stessa  struttura di quest’ultima – articolata in cinque sezioni, ognuna delle quali costituisce di fatto quasi un poemetto auto conclusivo – rispetta i canonici cinque atti della commedia antica ed una delle sezioni si presenta come “Parodio”, parola giocata, secondo un’intervista dell’autore che del resto è, tra l’altro, autore teatrale, sulla commistione tra  parodia e io dei poeti, ma che richiama anche il parodos, l’atto che segnava l’ingresso del coro sulla scena.

L’alternanza tragico-comica permea tutta la tessitura del libro, che riunisce testi scritti negli ultimi tre lustri, considerato che l’ultimo libro di poesia di Seri risale al 2006, pur se lontano dalla poesia in questi anni l’autore in realtà mai è stato, sia come organizzatore di festival e premi, sia come direttore editoriale e ora fondatore di una casa editrice in proprio. A voler trovare un filo conduttore delle cinque sezioni si potrebbe forse richiamare la “commedia umana” di Balzac, specie nel suo obiettivo di “studio del cuore umano”, qui focalizzato soprattutto sull’elaborazione di un senso di colpa non solo individuale e privato, ma anche collettivo e pubblico, senso di colpa pienamente coerente col significato di heautontimorumenos: punitore di se stesso.

Così  in “Lo scorrere del traffico”  (titolo che sembra quasi una metafora della vita)  compariamo come  …esseri speciali / belli e lucenti, multioriginali,  in realtà Sempre troppo pronti a cogliere la norma / come un bene per poi abbandonarla / quando si richiede di essere normali, mentre in “Inevitabile” l’inadeguatezza di un sé  paterno si traveste da ironica elegia. Il doppio binario di un senso di fallimento  personale e generazionale trapela in molti dei testi (La colpa è mia compagna e non si placa; un cumulo di giuramenti al vento; Coltivi l’enigma di mia generazione / smantellata di coraggio e di reazione) quasi  a redigere un bilancio in controluce dove anche la poesia si palesa  soccombente (A non emanciparsi è stata la poesia / minuta e chiusa in scatola di morte; siamo plurali più del necessario noi / che ci castriamo nei miti del linguaggio; Gli inadeguati stormi dei poetoni / murati tra l’elegia e il cerchio degli occhiali).

In questo contesto si delineano  e sono indagati una pluralità di temi: dagli affetti familiari all’imbarbarimento delle dinamiche sociali, dalle sconfitte e delusioni  politiche all’inevitabile lato oscuro della fine propria ed altrui, sino a una sacralità che affiora dal balenare, non solo in funzione satirica, di riti ed oggetti religiosi   (candele; prete; panche, messa; processione; calice; madonna;  neocatecumeni). La ricchezza polifonica della raccolta trova un suo riuscito equilbrio nella struttura delle sezioni e nell’attenzione costante a una prosodia che riusa forme della tradizione metrica in una chiave estremamente personale, dove  il ‘canto’ elegiaco e l’espressionismo parodico si bilanciano aderendo con estrema misura  alle  esigenze non solo contenutistiche dell’autore. In tale ottica l’ordine, l’ardore, richiamato da Sotirios Pastakas nella sua incisiva prefazione, dà giustamente risalto alla capacità di Seri di coniugare  passioni  e perizia artigianale del labor limae, quasi seguendo una preziosa indicazione di Mandel’štam:  “In poesia, dove tutto è misura, tutto parte dalla misura, ruota intorno alla misura e grazie alla misura gli strumenti di misurazione hanno facoltà particolari, sono portatori di una speciale funzione attiva”. Non a caso, del resto, una delle sezioni del libro si intitola “Musiche”, e tende a sperimentare la possibilità di riprodurre in poesia  tracce di partiture, in una sorta di mimesi sonora di tempi, danze e componimenti musicali. Più in particolare l’andamento strofico di gran parte dei testi, la presenza di versi ipermetri, l’uso frequente di  settenari, ottonari e novenari, l’emersione, specie nelle poesie satiriche,  di lemmi in lingua ‘locale’ (si veda ad esempio “Sirvio” nella sezione “Parodio”) contribuiscono a rivitalizzare una tradizione che risente dell’influenza delle laudi e dei cantari della poesia medievale (si veda ad esempio la citazione da Jacopone da Todi: Ioanni figlio novello / morto s’è ‘l tuo fratello) innovandola con le odierne tensioni performative.

Il tema della trasmissione, della consegna – che è l’etimo di tradizione – si dispiega  inoltre chiaramente nell’ultima sezione del libro, “L’albero”, una galleria genealogica che parte dalla figura del trisavolo per arrivare sino ai figli, saltando volutamente l’autore, peraltro ritratto di sbieco nelle risonanze di posture e di caratteri che animano tutti questi padri, contadini, emigrati di ritorno, sarti, in gran parte schivi e solitari, in una ricostruzione anche territoriale di un paese che muta da un risorgimento contadino a un …fazzoletto bianco / lavato giù la fonte / dal sapone fatto col maiale, da una carrozza bianca sino alla scocca rossa di un centoventiquattro. Non che manchino le tensioni bene o male presenti in ogni rapporto genitoriale: restano alcune piaghe, storiche ferite / una competizione amara che rifuggo / la tua non linea dritta, il tuo superfluo. Pure, trasmettere, consegnare implica un vaglio valoriale di ciò che si ritiene significativo e ciò che invece andrebbe abbandonato: il coraggio che è cosa rara, l’idolo del dimostrarsi fermi e, soprattutto,  richiede la capacità di  tramandarlo (io non vorrei pesarti ma esserti d’aiuto / di lato affianco parecchio defilato / con gli occhi suggerirti, suggeritore muto) in una relazione che implica sempre una reciprocità di scambio, anche di fronte a una neonata ultimogenita che insegna come gestire la sconfitta, semplicemente riflettendosi nei suoi occhi neri e nel richiamo e sunto dei sorrisi.

 

L’incontro con Claudio Piersanti

Giovedì 21, per la terza serata con le Marche in Biblioteca 2021, abbiamo incontrato  Claudio Piersanti e abbiamo conversato con lui sul suo ultimo romanzo “Quel maledetto Vronskij”, alternando alla conversazione gli interventi musicali di Silvano Staffolani e Lorenzo Cantori (il Duo Acefalo) e le letture di alcuni brani dal libro, eseguite da Maria Grazia Tiberi ed Elisabetta Benedetti di Arci Voce.

La registrazione video della serata.




 

 

 

 

 

Quel maledetto Vronskij

Titolo: Quel maledetto Vronskij
Autore: Claudio Piersanti
Casa editrice: Rizzoli

Giovedì 21 ottobre alle 21.15, conversazione con l’autore; terzo incontro della rassegna le Marche in Biblioteca 2021.

“Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij”, Luigi Grazioli su DOPPIOZERO del 7 aprile 2021.

Giovanni è un tipografo di mezza età che dopo il licenziamento dalla grande azienda in cui lavorava, ha aperto una piccola attività in proprio per poter continuare il lavoro che costituisce la passione della sua vita. È un uomo mansueto, tanto gentile da avvertirlo come una debolezza, sposato con Giulia, una donna intelligente e ancora molto bella, che non ha mai capito come avesse potuto scegliere e amare intensamente proprio lui. La coppia vive in grande armonia e tranquillità in una villetta suburbana, con un piccolo giardino che lei cura amorevolmente, finché un giorno “il male [entra] nella loro casa”. Giulia si ammala gravemente e la malattia, anche se viene apparentemente superata, lascia dei segni nel loro rapporto che però entrambi, delicatamente, cercano di nascondere all’altro. Fino a che un giorno Giulia sparisce senza motivo né spiegazioni, dopo che la notte prima avevano fatto l’amore con grande tenerezza. Allora per quell’uomo in fondo semplice che è Giovanni (ammesso che un essere umano possa essere semplice), comincia un periodo di disorientamento totale, che lui cerca di controllare perseverando nella sua routine. Un giorno, per occupare il tempo e tener vivo il ricordo, decide di scegliere a caso uno dei libri della moglie, grande lettrice al contrario di lui che ha sempre e solo letto le pagine che doveva comporre badando unicamente alla corretta forma linguistica e tipografica, e di copiarlo tutto, per farne un libro unico, bellissimo, curato in ogni dettaglio, per quando lei tornerà. Mentre lo ricopia con sempre maggiore partecipazione, gli sembra di trovare nelle sue pagine una specie di premonizione di ciò che sta vivendo. Il libro è Anna Karenina, che come è noto ha uno degli esordi più famosi di tutta la storia della letteratura (”Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice invece è infelice a modo suo”), che a mio parere è stata una delle molle che hanno indotto Claudio Piersanti a scrivere questa storia, per verificare quanta verità la sentenza contiene. A colpire Giovanni però non è la protagonista, che non assomiglia per nulla alla moglie scomparsa, quanto la figura di Vronskij, il seduttore di Anna, che si insinua nel suo mondo mentale come incarnazione di tutto ciò che lui non è, bello brillante e affascinante, e che può aver allontanato da lui la donna che continua ad amare più che mai.

Pian piano Giovanni quasi senza accorgersene sovrappone ciò che gli capita a ciò che trascrive (come lo scrittore ha presente ciò che ha letto quando scrive, fosse pure nella forma dell’oblio): trova nel libro di Tolstoj, in filigrana, alcune delle situazioni che sta vivendo e gli strumenti per cercare di capire, naturalmente in modo illusorio e arbitrario. Perché ciò che vive è effetto più di ciò che immagina, che di ciò che sa; e lui immagina sul filo non della realtà, ma di ciò che è scritto. Vronskij diventa la chiave per provare a interpretare prima ciò che immagina accada alla moglie, poi quello che accade dentro di lui, e infine cosa a tutto questo è sotteso, come destino. Dallo statuto di personaggio passa a quello di strumento ermeneutico, assurge a simbolo polivalente, a categoria, e quasi a entelechia. È la personificazione della minaccia, dell’inquietudine, dell’elemento senza coscienza morale che incombe, stravolge e porta alla distruzione. Alla fine troverà il suo vero nome, che non rivelo per la ferrea legge antispoiler. (La morte, detto in camera caritatis.)

Quel maledetto Vronskij, che racconta questa vicenda, è un libro struggente, senza contenere un solo passaggio sentimentale. Si tratta del resto di una caratteristica di Piersanti, che non si ritrae davanti ai temi forti, e anzi li va a cercare, e li affronta, sempre, insieme con adesione e distacco. Li prende sul serio, cioè, e proprio per questo se ne discosta per guardarli in faccia, con forza pacata, che però non ha nulla della distanza cinica, che semmai è presente solo nelle parole di alcuni personaggi. La voce narrante è impersonale, onnisciente, anche se prevale in buona parte del libro (dei libri di Piersanti) una specie di focalizzazione interna a uno o due dei protagonisti, di cui vengono seguiti moti d’animo e pensieri con una specie di discorso indiretto semilibero, se mi è concessa l’approssimazione: cioè libero nelle associazioni dei pensieri di personaggi, ma filtrato da una prosa asciutta, cadenzata in un ritmo di grande presa proprio in quanto piano, misurato nel tono, ma non freddo né mai sopra le righe nemmeno nei momenti più aspri, che evita sistematicamente la tentazione di sussulti vistosi e la ricerca di detti memorabili, nel senso letterale di questo termine. Vertici che non mancano, ma che nella lettura passano inavvertiti e arrivano a segno solo dopo, con un sottile quanto incisivo effetto di ritorno. Lo stile, in questo libro più che in altri, pur severo, è soffuso di tenerezza, oggettivo e al contempo partecipe; la sofferenza, i dubbi e le trepidazioni di Giovanni hanno la sua voce, che però giunge a noi smorzata, raccontata dall’esterno in virtù non solo della prospettiva “oggettiva” adottata da Piersanti, ma ancor più dal fatto di non essere disgiunta, come gli altri sentimenti del resto, dalla minuzia discreta della narrazione degli eventi quotidiani e dei gesti e dei luoghi. La scelta della terza persona, apparentemente tradizionale, che incornicia e dà il tono alla parziale focalizzazione interna laconica come la personalità del protagonista, è funzionale a questa resa. Perfetta, senza sbavature, senza una parola superflua, come avviene in quello che secondo me resta il capolavoro di Piersanti, Luisa e il silenzio.

Anche la sintassi contribuisce all’arginamento del sentimentalismo che l’argomento del libro potrebbe favorire, e del lirismo che pure è presente, quasi reticente ma intenso, specie quando lo sguardo si dirige sulla natura. Il ritmo è scandito da frasi brevi, ma non elementari se non nel senso di essenziali; la scarsità di concatenazioni e di subordinate anziché sintomo di piattezza o ricerca forzata di linearità, è l’effetto primario di uno stile ellittico e direi concentrato, dove il tasso di taciuto (di silenzio) si arricchisce di tutte le relazioni possibili. Il risultato è una scrittura piana, ma tutt’altro che semplice. La lettura richiede una certa lentezza: impossibile pattinare da una frase all’altra, correre a ciò che succede, perché ciò che succede non è tanto, e in mezzo c’è tutto. Invece di un flusso il lettore si trova di fronte a un susseguirsi di monadi, ciascuna conclusa e perfetta, che spetta a lui mettere in relazione, ma in modo autonomo, richiesto, e quasi imposto, dal ritmo stesso della narrazione, pacato e implacabile, che nella elementarità della sintassi semplice e perlopiù paratattica trova l’impulso, anziché l’ostacolo. Come se la punteggiatura avesse una sua temporalità continua, diversa da quella pausata o anche sincopata che a volte la brevità produce, un suo armonico respiro privo di sbalzi e cadute.

L’assenza di commenti, e di ogni dimensione meta- tipica di tanta narrativa modernista e contemporanea, non esclude, per esempio, la possibilità di una lettura in tal senso almeno per alcuni aspetti della figura del protagonista. Infatti è difficile non leggere nella professione di tipografo del protagonista, così ossessionato dalla correttezza dei testi e dalla perfezione dell’impaginazione un’immagine dello scrittore, non per forza autobiografica. E nel suo licenziamento a causa delle innovazioni tecnologiche, così come nel suo declassamento fino all’abbandono della piccola bottega tipografica artigianale un‘allusione alla perdita di ruolo e di significato dello scrittore.

E ancora nel quasi religioso, monacale, lavoro di copiatura di uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale l’allusione più che quella esplicita alla devozione per la bellezza che ogni attività artistica comporta, a quella alla memoria e al confronto con le opere del passato per cui l’agire artistico passa pur senza farne diretto oggetto di riflessione all’interno dell’opera. Giovanni si limita a copiare, Piersanti si confronta. E scrive la storia di un matrimonio per quanto possibile felice. Cosa dichiarata noiosa da Tolstoj, con la sua sentenza diventata cliché universale, come peraltro meritano il suo sensazionalismo e la sete di applausi implicita. (Certo che colpire colpisce, però!)

Piersanti invece con questo libro sembra voler smentire Tolstoj. Quella che racconta è la storia di una coppia felice, una coppia piccolo borghese, presa nella sua medietà e mediocrità (nell’eccezionalità che in ogni medietà si cela e che a nessuno viene in mente di cercare), senza nessuna inflessione di ironia, da cui del resto Piersanti si guarda bene in tutte le sue opere, per quanto crudeli possano essere le storie che racconta: gli ideali di fusione che la coppia di sposi persegue e nel complesso raggiunge, la creazione di un piccolo mondo chiuso, a sé (amore, casa, famiglia, lavoro, svaghi, ambizioni, con poche amicizie fedeli e di lunga data), autosufficiente (persino la lontananza della figlia che ormai vive all’estero è vissuta senza patemi: così è, così stanno le cose…), non hanno nulla di meschino, sono ciò che hanno deciso insieme di perseguire e che fanno di tutto per raggiungere, in modo quieto, nonostante amarezze anche intense, come il licenziamento di Giovanni da un lavoro in cui aveva riposto tutte le sue ambizioni e la malattia di Giulia. Giovanni e Giulia sono la coppia scissa di Aristofane che ha avuto la fortuna di incontrarsi e non ha nessuna intenzione di lasciarsi più dividere, che trova modo di vivere questa fusione pur mantenendo ciascuno la propria personalità, fino all’arrivo di quello che Giovanni chiamerà Vronskij, e più ancora dopo, superata la separazione: le prove che ne scaturiscono, e la sua minaccia sempre incipiente e che prima o poi tornerà (ma non è detto che dovrà essere una catastrofe a cui passivamente soccombere), quando le sue metamorfosi a partire da quella iniziale della gelosia riveleranno il suo vero volto di morte con la paura che essa comporta, alla fine verranno riconosciute e affrontate, non insieme, perché infine ognuno deve affrontarle da solo, ma uno accanto all’altra, ciascuno sapendo e accettando la presenza dell’altro.

C’è sempre un Vronskij che mina la felicità. A cominciare dal Vronskij insito nell’idea stessa di felicità. Non esiste la famiglia felice, soltanto un osservatore superficiale ne vede qualcuna, e la vede perché vuole vederla, per invidia, per sarcasmo, o per darsi un’illusione, e un obiettivo. Ogni famiglia è infelice, in diverso grado. Per fortuna esiste l’oblio. La cancellazione, la tolleranza, la pazienza. E pure l’amore: la nebulosa di cose che questa parola contiene, e che quindi è opportuno evitare. (Evitare di nominare, beninteso…)

Soltanto i romanzieri dell’800, e i loro eredi odierni, fanno ancora queste distinzioni. Non si occupano di quelle che a loro sembrano famiglie felici perché appunto le trovano monotone, cioè senza niente di particolarmente attraente da raccontare, e pertanto, più o meno apertamente, le disprezzano. Non c’è luogo, in esse, per le emozioni forti, che bramerebbero i lettori, o loro stessi che non sanno scrivere altro. Ma ogni giorno è un susseguirsi di colpi di scena. Ogni giorno c’è il dolore; e la morte all’orizzonte. Ogni giorno qualcosa manca, affanna, preoccupa, si incrina e minaccia di spezzarsi e difatti si spezza, anche nelle relazioni cosiddette felici. Anche senza fare troppe scenate o clamore. Senza altro rumore che non sia quello avvertito da colui o coloro per i quali quella cosa, minima o grande, si spezza, da colui e coloro che sono incrinati e spezzati.

C’è la sofferenza, che spesso resta inespressa e a volte si nasconde per volerla risparmiare all’altro, che invece soffre di non poterla condividere e si sente escluso proprio laddove vorrebbe poter far sentire la propria presenza, intervenire, alleviare se non curare. Non tutto può essere detto, eppure è proprio questo silenzio a essere più doloroso. A escludere la comunanza, l’intimità da cui pure era nato. E chi così esclude, al pari di chi è escluso, come Giulia e Giovanni, soffre di questa esclusione e non sa come venirne a capo, e in tal modo approfondisce tanto l’esclusione che il dolore. Allora cerca nel silenzio qualche possibile spiegazione, ma nessuna è all’altezza né di chi tace e se ne è andato, né di chi non fa che pensarci e vuole un senso per l’abbandono. Tanto più che, come Piersanti scriveva già nel precedente, potente, La forza di gravità, “non ti abbandona mai uno soltanto, a un certo punto ti abbandonano tutti”. Ma poi “[d]opo l’abbandono viene la forza”.  A volte, quanto meno. Perché anche qui risiede la possibilità, se non di una salvezza, almeno di una diversa, nuova, e forse più matura, condivisione, senza parole, dopo che le poche indispensabili saranno state dette, ancora inquieta, ma per l’altro, non per sé, quasi serena, accettata. Piersanti racconta questa storia. Il suo libro è bellissimo.

 

L’incontro con Sergio Sparapani

Si è svolto ieri giovedì 14 ottobre il secondo degli incontri in programma con Le Marche in Biblioteca 2021. L’ospite della serata è stato Sergio Sparapani, autore del libro  Le dieci battaglie della storia di Ancona ; ha conversato con lui Tullio Bugari dell’associazione Arci Voce; hanno accompagnato la serata gli interventi musicali di Katia Luzi, insegnante di fluato della Scuola Musicale Pergolesi di Jesi,  e le letture di alcuni brani dal libro eseguite da Rosella Canari e Elisabetta Benedetti, dell’associazione Arci Voce.
Ecco di seguito alcune foto della serata e il VIDEO registrato dell’intero incontro, e una parte di uno dei brani letti, dal capitolo nove “La campagna dei bombardamenti”, una parte del libro dove non si racconta una battaglia in senso stretto, militare, con assedi assalti e combattimenti, di comune c’è soltanto la distruzione, questa volta a causa dei bombardamenti aerei, e, sotto, una tragedia che per tanti aspetti non è stata ancora del tutto assimilata.

«Ancona, 2 novembre 2013, dopo settanta anni e un giorno, riapre il “tunnel della morte” di Santa Palazia. Al mesto pellegrinaggio partecipa una moltitudine di persone. I cittadini anconetani paiono volersi riappropriare della propria storia e del sito che più ha rappresentato una cesura nella memoria cittadina. Sfilano i reduci della tragedia avvenuta quando alcune bombe sfondarono la volta marnosa che copriva il rifugio e uccisero, in gran parte per soffocamento, più di settecento persone, inclusi tantissimi ragazzi, ragazze, bambine e bambini del quartiere più antico della città. Informati dal tam tam comunicativo, si presentarono, accanto a non pochi giovani, persone anziane con lo sguardo assorto e fiumi di lacrime pronte a sgorgare dagli occhi. C’era l’unica orfanella che si salvò perché, quel primo novembre 1943, si trovava in punizione e dovette rimanere in istituto, c’era l’uomo che nel tunnel aveva perso i tre quarti della sua famiglia mentre lui, per uno scherzo del destino, decise di nascondersi al Duomo e non nel rifugio “dei carcerati” dove correva ogni volta che squillava la sirena, e c’era il bambino di allora che fu ritrovato miracolosamente vivo tra le braccia della zia defunta. Altri arrivarono nelle settimane e nei mesi successivi da fuori, anche da lontano, perché avevano percepito che nella sonnacchiosa città dorica si era aperta una finestra temporale sulla loro gioventù o su quella dei padri e dei nonni.
Per Ancona c’è un PRIMA e un DOPO nella sua storia poiché quelle bombe soffocarono anche un pezzo della sua anima più popolare e remota, lasciando spazio a un’afasia mnemonica che dura tuttora. I primi corpi furono recuperati all’interno del tunnel già quel primo novembre 1943 ma, per motivi sanitari, il luogo fu sigillato nei giorni,  nei mesi e negli anni successivi. Si decise quindi di “seppellire” la maggior parte dei cadaveri al suo interno fino alla seconda metà degli anni cinquanta. La volontà di celare, con quei poveri resti, anche la memoria della guerra persa, e sbagliata, non basta a spiegare il motivo, forse frutto di una sorta di antropologica indolenza civica, che ha consegnato per settanta anni quel sito a deposito della Sopraintendenza. Nella circostanza della riapertura, è vero, riemerse, accanto alla morbosa curiosità di vedere com’è fatto il teatro di una tragedia, anche il legame tra una città e la sua memoria collettiva ma, in fin dei conti, e con il senno di poi, fu un fuoco di paglia. (…)»

LA REGISTRAZIONE VIDEO DELLA SERATA