VISIONARIO. Viaggio tra sacro e profano. Più che della mostra – sulla quale potete leggere qui: https://www.cittanuova.it/563566-2/ – e che è assolutamente da “visionare” coi propri occhi, attraversandola nelle sue stanze, provo a raccontarvi qualcosa di quello che, in questo caso impropriamente, è definito catalogo.
Dunque, visionario. Una mostra che non è soltanto una mostra ma un’esperienza. Un viaggio tra sacro e profano che non si muove dentro il punto di contatto, o di mescolanza tra le due dimensioni, per dischiuderne concettualmente il segreto, ma entrambe le avvolge con lo sguardo, e le comprende. Sono gli sguardi ad evolversi, e il Tempo a dare consistenza ai luoghi.
E così il catalogo della mostra non è soltanto un catalogo ma una mappa, un breviario, sostrati di esperienze, un’immersione. Andrebbe letto prima, oppure tornarci ancora, dopo. Su quel crinale illusorio – visionario – dove sacro e profano si avvolgono, quasi nascondendosi uno nell’altro, perché il profano siamo noi col nostro sguardo, che ci guardiamo attorno immersi in quel fuggevole senso del sacro, e più che gli abissi ne scorgiamo i declivi, in cui attardarsi, ritrarsi, restare sospesi. Il brivido sottile di perdersi sapendo che il nostro passo resta tranquillo. Non si inventa a tavolino questo equilibrio se non lo si porta addosso, prima di lasciarlo fluire nel segno grafico, nell’invenzione che la mano sa come far scaturire sotto lo sguardo dell’occhio. E così diventiamo noi le visioni che scopriamo, ed è la nostra pelle ad animarsi come un paesaggio. O un volo: «la fantasia fa volare l’angelo, l’angelo la fantasia».
E ci troviamo ancora sull’uscio di questa mostra, non siamo ancora entrati, chissà se siamo davvero pronti ma che importa. Non credevo nemmeno – o me lo ero dimenticato in questo mondo che annaspa alla ricerca del suo ritmo perduto – che una mostra potesse contenere in sé anche un paese, il senso del luogo. La mostra si articola su tre spazi che si succedono – per primo ho incontrato il loggiato, un bagno di sole a quell’ora, luminoso più di una vetrina, in un solo colpo d’occhio “la crociata dei fanciulli” o “le stanze del tempo sospeso”; poi ecco davvero le stanze profonde del museo delle arti monastiche, che mi ricordano sempre gli antri dell’Orecchio di Dioniso quando vi entro, e da qui si emerge alla chiesa di san Michele, ariosa come la scena di mille gesta – e così è il paese a farsi cammino tra le opere esposte. Sempre di più lo dimentichiamo, oramai, ma siamo noi questi paesi che ci portiamo addosso. Dev’esserci una continuità, col cammino dell’artista, che continua a sfuggirci, nonostante sia qui davanti a noi questa continuità tra l’opera e il contesto, dev’essere anche in questo l’incontro tra sacro e profano.
Dovremmo essere noi l’invenzione, lo sguardo che reinventa. L’abbiamo avuto sempre qui ma chissà a che pensavamo? Poi ci immergiamo nel cammino dell’opera e la parola pensare assume altri significati, ci invita all’attenzione, ne scorgiamo l’emozione. Il brivido sottile del perdersi, mantenendo però il passo tranquillo, noi stessi, come ha già fatto e ancora sta facendo l’artista.
Camminiamo con lui. Che ci racconta. Il catalogo non è un catalogo ma una Confessione, come le confessioni dei santi visionari – «le narrazioni che avrebbero dovuto farmi stare con le orecchie aperte» – che si fanno tutt’uno col baccano “dei monelli” nel cortile di un paese; sembrano un gioco quei san Michele e san Giorgio che punzecchiano draghi.
Ed è proprio così, in questo libro che si finge catalogo, che Bartocci ci “guida” – che parola grossa, lui cammina con la solidità del passo attento a dove poggia, e noi curiosi gli siamo appresso – tra le sue opere come attraversando se stesso: «… un arco rudimentale, una pistola o una fionda fatta alla buona con l’inforcatura di un ramo reciso, erano sufficienti a farci fantasticare mirabili gesta…». Fantasticare “evocando visioni” significa vedere ciò che ci appare davanti per ciò che veramente è, senza altri fronzoli: «Una mattina andando a scuola, mentre passavo accanto al vecchio reduce della prima guerra mondiale, che ogni giorno si trascinava sulle stampelle da casa sua all’angolo della piazza, lo sentii esclamare una frase che mi colpì molto: ‘l’inferno è sulla terra, ma solo per i poveri diavoli’».
L’angelo e il diavolo, e ancora altri “racconti” tra i meandri di se stesso e del paese – che non è più soltanto questo della mostra ma è già quello delle origini, ove si è appreso a camminare davvero, come in un flusso. Delicatamente mirabili le righe che Bartocci dedica al latte, qui la profondità della prospettiva recupera sullo stesso piano visuale «le primordiali statuette votive del paleolitico raffiguranti donne opulente dalle grandi mammelle» alle «partorienti e le puerpere che si recavano in pellegrinaggio per auspicare la grazia … si bagnavano due o tre volte le mammelle, bevevano acqua calcarea biancastra, ritenuta miracolosa…», e alla «vicinanza non solo concettuale tra il latte materno e l’acqua, ben altrettanto vitale per l’uomo». È da qui che prendono forma tutte le “madonne del latte” inseguite nel tempo da tanti artisti, e che vediamo di nuovo qui in questa mostra, e nel catalogo, mai uguali a se stesse e mai bloccate.
Il segno grafico ci illude che si sia fermato, ce ne accorgiamo nella sala del tempo sospeso ove è proprio la sospensione ad aprire lo spazio a nuove dimensioni, ad un altro ritmo dello scorrere. Ma quanto è difficile contenerlo davvero! Proprio qui le opere di Bartocci sono tutt’uno col contesto che aleggia attorno, nelle stanze del museo delle arti monastiche. Ed è qui che il tempo sospeso possiamo ritrovarlo tremolante come l’acqua in un secchio, che ci guarda “contenuto” dal fondo di una coppa, o che torna a riprendere il suo cammino scivolando su una ruota, che torna sempre a ripetersi. Il viaggio, “dunque”, è in noi, “immaginario” o “miracoloso”, come il viaggio di quelle case che dalle nostre parti – non siamo lontani da Loreto – siamo abituati a vedere sfrecciare nel cielo, o “nel quadro accanto” una consolatrice “Nostra Signora dei migranti”, per non dimenticare che esistono anche questi altri viaggi, così reali.
Al Rogo. «Occorre naso fino per sentir puzza di bruciato e buone gambe per scappare prima che sia troppo tardi – sentenzia Enimeo», uno dei personaggi visionari che scaturiscono da Bartocci, suo alter ego di un tratto del suo cammino artistico, sempre pronto a riecheggiare come il borbottio del mondo.
Oppure il paragrafo «In cielo con le mani» che già nel titolo promette chissà che, come in un gioco: «Il tradimento dei chierici è cominciato il giorno che uno di essi per primo ha rappresentato un angelo che sale in cielo con le ali. In cielo non si può salire che con le mani…».
E i chierici ovviamente non sono soltanto una categoria da punire con una marachella, anche loro sono una dimensione di noi stessi, ostinati a perderci nell’intrico delle relazioni e situazioni, tra le voci del mondo, che poi sono anche le nostre, il rito desacralizzato che a volte viviamo, e ci costruiamo. Ed ecco allora a scuoterci “gli uccelli di creta”, da un vangelo apocrifo: «ad uno ad uno i suoi uccelli volarono via festosi rallegrando l’aria». Un fruscio di ali, e subito a ricordarci che «l’arte può essere lavoro, gioco e preghiera, ogni giorno diversamente».
O a casa di una zia di allora: «I fiori nel vasetto non provenivano dai fiorai, né tantomeno erano di plastica, come non erano ancora di plastica i crocefissi appesi ovunque. Quelli made in Cina esposti negli uffici, nelle scuole, negli ospedali e ovunque, che non invitano certo alla preghiera. Ci vorrebbe un decreto papale per impedirne la fabbricazione e rilanciare l’artigianato.» Il sacro e il profano che insistono ad aver bisogno uno dell’altro.
Nel paragrafo “Memento” Bartocci ci porta per valli e campagne, lungo quel nostro paesaggio di colline solari che dovremmo conoscere bene, invitandoci però a riscoprire le edicole votive “rimaste “sospese” al margine di strade di campagna, per chi abbia ancora il tempo di fermarsi. Ed ecco tra queste tante edicole che Bartocci ripropone, apparirne una più lunare che solare; vedendola, l’ho immaginata riposta nell’angolo dimenticato di un magazzino, l’edicola non contiene più madonne del latte ma una marachella, i pupi di un calcio balilla, angeli infilzati senza più ali, ma nemmeno braccia e mani per riconquistare il cielo, che m’è sembrato di scorgere sullo sfondo come oltre un oblò, una specie di finestra, o forse è addirittura lo schermo di una televisione abbandonata. Ma esiste poi davvero l’abbandonare?
«Da una mia anziana zia, una zitella stravagante… ricordo una Madonna con bambino… molto annerita dal fumo delle candele, o per essere stata esposta a lungo in cima a un caminetto che non tirava bene… la suggestiva maternità era appesa al centro di una parete bianca… sembrava molto antica… vicino all’interruttore di bachelite, tra la treccia della corrente elettrica e il muro, accanto alla palma benedetta era infilata bene in vista l’ultima bolletta della luce da pagare prima della scadenza o la ricevuta del pagamento. Prima d’essere messa lì, raccontava la zia, era rimasta al buio per inadempienza, o a lume di candela per giorni, fino al riallaccio. Sacro e profano possono convivere in ogni luogo quotidianamente.»
Il libro catalogo si può chiedere all’ingresso alla mostra, al MAM, Museo Arti Monastiche; il testo di Ezio Bartocci è introdotto da Bonita Cleri: “La visita alla mostra delle opere di Ezio Bartocci a Serra de’ Conti rappresenta un’esperienza immersiva in grado di suscitare tante e differenti emozioni, in essa dimostra di sapere trattare il sacro con ironia e allo stesso tempo con rispetto, conferendogli una dimensione alta soprattutto per essere collegato alla complessità del quotidiano.”