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Cartoline

(articolo di Ezio Bartocci)
Non sono cartodipendente ma negli anni ho raccolto tanti generi di stampati, tra questi un assortimento di cartoline natalizie e di cartoncini affini, qualche letterina ed alcune antiche Natività calcografiche interessanti anche perché segnate dalla ripetuta esposizione annuale. Ho messo insieme questo materiale pensando di ricavarne un giorno un bel catalogo ed un’apprezzabile esposizione.
Le cartoline di auguri vanno dall’inizio del ‘900 agli ultimi decenni del secolo.
Ora che hanno fatto il loro tempo si prestano ad una ricognizione e a varie letture.
La mostra dedicata ai bambini, arricchita da manufatti ed oggetti attinenti, allestita tra dicembre e gennaio potrebbe richiamare le famiglie ed ogni singola persona interessata all’iconografia natalizia, alla religiosità ed alle tradizioni popolari.
La varietà di cartoline e dei cartoncini un tempo comuni, tirati in migliaia di copie, scelti in base ai gusti ed alle disponibilità individuali, sono interessanti anche nel verso caratterizzato dalla calligrafia e dalla firma, dagli auguri e dai saluti, dagli indirizzi del destinatario e del mittente. Stesso dicasi per gli stampati in busta, ritenuti più chic, quindi usati prevalentemente dai professionisti e dalle aziende.
Chi poteva immaginare che sarebbe bastato qualche clik per mettere in crisi un sistema perfezionato sotto vari aspetti che ha dato lavoro a generazioni di grafici, fotografi, stampatori, cartolai e postini.
Un vecchio cartolaio spiritoso, ora in pensione, dice che era inevitabile ed è meglio così.

I francobolli costano e gli stampati pure; la posta virtuale non costa niente e viaggia veloce.

Finalmente possiamo esser sicuri che gli auguri di Natale arrivano appena il bambinello nasce, non quando sta per mettere il primo dente.

Nel catalogo, oltre alle riproduzioni anastatiche dei pezzi più significativi, voglio mettere la foto di un sacco postale durante la levata e quella di un postino in bicicletta: il messaggero che secondo qualcuno suonava sempre due volte.

Prima dell’avvento dalle E-mail o di WhatsApp il postino era molto atteso, anticipava la festa; la sua borsa di cuoio appoggiata sul portapacchi, o portata a spalla, a dicembre era gonfia quasi quanto il sacco della Befana o di Babbo Natale, personaggio vincente quest’ultimo, oggi più capzioso commercialmente, ma un tempo più mimetico e fuori dalla nostra tradizione.
Nelle immagini più antiche, come la cartolina del 1901 qui riprodotta, ha l’aspetto di un antico pacifico montanaro mitteleuropeo.
Assai diverso quello stampato a due colori da una tipografia locale nel ’44.
L’autore anonimo del foglio probabilmente faceva parte del Trentesimo Squadrone Aereo del Sudafrica stanziato all’aeroporto militare di Jesi durante la liberazione dalla dittatura nazifascista. Indubbiamente sapeva il fatto suo: ha saputo incidere il linoleum abbinare la scritta all’immagine e mantenere un equilibrio d’insieme, ma i destinatari del suo Babbo Natale col sacco pieno di bombe sicuramente non gli hanno fatto i complimenti.
E’ passato molto tempo da allora. Oggi fortunatamente nel mondo non ci sono più né dittature né massacri. Non se ne ha notizia. E il modo di far propaganda e di comunicare non è più quello degli stampati tipografici. E’ ultraveloce ed efficiente. Non sfugge niente.
Apprendiamo, ad esempio, che il presidente americano grazia ufficialmente un tacchino.
Una prova in più che il mondo è migliore di quanto spesso immaginiamo.
Possiamo esser certi che presto, dopo una perdurante crisi di commesse, per evitare il fallimento, le fabbriche di armamenti militari saranno riconvertite in industrie alimentari, di giocattoli e libri di favole.

Auguri di Buone Feste a tutti!

All’insegna del Martin pescatore: dal bestiario di Eugenio Montale e di Luigi Bartolini

San Severino Marche, 17 ottobre 2018, ore 21, Sala di udienza. Palazzo dei Governatori

Ezio Bartocci
All’insegna del Martin pescatore: dal bestiario di  Eugenio Montale e di Luigi Bartolini

L’incontro del 17 ottobre, rientra tra le iniziative programmate due anni fa a San Severino Marche per ricordare i cinquant’anni dalla pubblicazione degli Xenia; incontro rinviato a causa del terremoto.
Con la raccolta Xenia, Montale rompe un silenzio decennale. L’amico studioso Giorgio Zampa incaricato della stampa fa rispettare alla lettera dalla tipografia Bellabarba il menabò. L’opuscolo in memoria della moglie, in sole cinquanta copie, per uso strettamente personale, viene consegnato nell’autunno del ’66.  Montale ha conosciuto Drusilla Tanzi a Firenze nel ’27, quando vi si era trasferito per un modesto impiego presso l’editore Bemporad, come si apprende da una lettera del 20 giugno indirizzata allo scrittore triestino Italo Svevo.
Drusilla, soprannominata mosca a causa dei suoi occhiali dalle lenti spesse, diventa l’amica, la compagna inseparabile ed infine la moglie del poeta.
Il periodo fiorentino, nonostante le difficoltà dal ’38 fino alla caduta del fascismo, è ricordato dal poeta con rimpianto per le tante frequentazioni, le amicizie e gli incontri più fortunati.
Ezio Bartocci, artista visivo e  grafico di lungo corso, prende spunto da un’incisione tra le più importanti del ‘900 per mettere in evidenza il ruolo dei circoli culturali, dei luoghi di ritrovo, dei rapporti diretti tra estimatori ed artisti, sottolineando la conoscenza tra Montale e Bartolini per la complicità del Martin pescatore, al centro di una delle più note poesie di Montale “Gloria del disteso Mezzogiorno“, nonché protagonista del capolavoro all’acquaforte di Bartolini, di cui Montale, neo appassionato di grafica, s’innamorò e riuscì ad acquistare.
Varie sono le presenze animali nelle poesie di Montale ed altrettante nell’opera incisa e letteraria di Bartolini. L’accostamento per un bestiario tra poesia e grafica attraverso le opere  di due maestri del ‘900 dai modi espressivi così diversi è stimolante: invita a conoscere ed a riconsiderare presenze dimenticate, anche attraverso opere oggi poco note ma emblematiche.
Nella copertina del volume “Tutte le poesie”, curato da Giorgio Zampa, una foto di Ugo Mulas mostra Montale che sfiora col naso il becco dell’upupa, uno dei due pennuti impagliati ricevuti in dono da Goffredo Parise, tenuti in casa tra le sue cose più care.
Mi fanno compagnia nella mia camera” diceva, “tra i due preferisco il Martin pescatore forse perché è più piccolo e mi sembra così indifeso“.

 

A Firenze, per un mese, un’inedita Galleria di ritratti di scrittori

Ezio Bartocci: Ritratti tra le pagine formato segnalibro.
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, 11 maggio-10 giugno 2017
di Tullio Bugari

(A seguito del successo riportato, la Mostra è prorogata fino a sabato 8 luglio)
invitoImmaginate un’intera galleria di segnalibri, originali, ciascuno con il suo segno, il suo rimando, il suo autore, ciascuno a esprimere la sua singolarità e tutti insieme la stessa molteplicità di una biblioteca, già pronti anche a diventare collezione, o a condurci per mano nel cuore stesso del libro e della lettura, nel mondo della letteratura. È proprio questo l’ultimo lavoro di Ezio Bartocci, circa 60 segnalibri ciascuno con il ritratto di un diverso autore, dall’Ottocento ai nostri giorni, ma è più di una serie di ritratti, è un’idea, un’immersione nella letteratura e anche nelle storie delle nostre singole letture, pescando nell’immaginario che da lettori associamo a ciascuno degli autori, come un’antropologia delle emozioni del lettore, adattando o letteralmente sperimentando ogni volta la tecnica più adatta per esprimere quel particolare discorso.

Molteplici dunque anche le tecniche utilizzate da Bartocci, il pennino, il pennello fine, il collage con materiali diversi, pezzi di carta strappati e utilizzati per tracciare tratti somatici essenziali. Ogni ritratto è una storia sé anche sotto questo profilo. Quello che più mi ha affascinato è un Ray Bradbury evanescente, non si sa se per il calore dell’aria che rende tutto tremolante come in un miraggio, nel quale gli occhi ottenuti bruciando la superficie del disegno con la fiamma di una candela ci rapiscono come un buco nero, e ci restituiscono nello stesso istante tutte le emozioni vissute leggendo Fahrenheit 451. Le tecniche utilizzate potrebbero così essere paragonate alle lettere di un alfabeto, necessarie per raccontare questo viaggio che va oltre.

Per analogia, allora, questo lavoro di Bartocci mi riporta in mente un’altra sua esperienza, che personalmente ho avuto l’opportunità di condividere quasi dieci anni fa, Alfabetica, una serie di incontri con scrittori in lingua italiana ma con diversa lingua madre di origine. Un percorso letterario che Bartocci interpretò graficamente non solo per illustrarci ma entrando in relazione diretta con noi e gli autori, stimolando quel dialogo con i suoi segni grafici, dando corpo e materia alle parole, alle lettere, ai ritratti degli autori realizzati graficamente proprio con le lettere che compongono i loro nomi, creando nuovi e ulteriori sguardi, o rimandi.

In tre anni furono circa quindici gli autori che vennero a trovarci e tra loro in particolare ricordo un intervento di Jarmila Ockayovà: “…c’è l’umiltà nei confronti della lingua, che per 
uno scrittore straniero non è solo uno strumento 
comunicativo o espressivo, ma anche la conquista di una
 nuova dimensione, mentale e psicologica…: mentre lo scrittore che usa la 
madrelingua lo fa da esploratore, slittando sulle onde del
 suo oceano/immaginario – giacché tutto ciò che sta “sotto” a quelle onde lo ha già acquisito, vissuto, da sempre – lo
 scrittore che adotta una lingua nuova deve per forza farsi
palombaro – calarsi nelle profondità antropologiche e 
storiche della lingua, orientarsi tra anfratti tortuosi di 
mille barriere coralline, ossia semantiche.”

Kafka sartreMi sembra proprio questo il gioco realizzato da Ezio Bartocci, tornare a immergersi nelle profondità antropologiche cercando di orientarsi tra mille barriere semantiche, dove le lettere dell’alfabeto sono le tecniche usate per afferrare il senso e la pagina scelta ha il formato di un segnalibro, lo spazio angusto ma intimo, vicino di una vicinanza diretta, dove incontrare i ritratti di tanti illustri autori, per ritornare a quando li abbiamo presi in mano letti e amati. “Ogni libro vissuto è diverso da uno mai letto” scrive Bartocci presentando il suo lavoro, eppure non è nemmeno solo un ritornare “ …ragazzo nelle bancarelle dell’usato, dove li sfogliavo attentamente…” anche se questo è essenziale perché occorre una prospettiva ampia, capace di accogliere il vasto mondo che cerca di rappresentare. Credo di ritrovare questa tensione anche nel metodo che ha accompagnato il suo lavoro. Ho avuto la fortuna di osservarlo qualche volta nel suo studio mentre i ritratti degli autori prendevano vita, dentro quel formato – il segnalibro – che potrebbe anche diventare una gabbia che comprime, e invece rimane sempre una fessura da dove lo sguardo esce e si apre sul fuori, ci tocca.

Per metodo intendo proprio il ritornare sul ritratto già concluso ma forse ancora simile a ciò che potevamo aspettarci, al già noto già presente già emerso in superficie, e allora occorre tornarci per continuare a svelarlo – come lo scrittore o il poeta quando riprende in mano la parola che usa – togliendo ciò che non è essenziale o riproporlo da altre angolazioni, attraverso nuove tecniche, segni e cromatismi che restino meno in superficie ma ci stuzzichino e avvicinino di più.

Grass MoranteEcco allora un Kafka alto sulle sue lettere come su uno strano telaio che non sta fermo, sembra quasi il vecchio gioco del meccano in perenne metamorfosi tra una forma e l’altra, o un Sartre che quasi contempla il Sessantotto degli operai e degli studenti, quel pugno chiuso che siamo noi e le officine stilizzate, o Gunther Grass ritratto con dei lineamenti marcati, timbrici, assolutamente essenziali, come in un manifesto caratterizzato dal suo tamburino di latta, o Elsa Morante che da quella fessura allunga il collo di lato per gettarci uno sguardo di accattivante incoraggiamento. E poi Flaubert, Hugo, Eliot, Ungaretti, Calvino, Montale, Borges, Marguerite Yourcenar, Emily Dickinson e altri ancora.

La mostra, con il titolo “Ritratti tra le pagine, formato segnalibro” è esposta dall’11 maggio al 10 giugno 2017 alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenza, in Piazza Cavalleggeri 1

Altri articoli su Ezio Bartocci:

«Il vino è un bene culturale o di consumo?»

«Il vino è un bene culturale o di consumo?» Il titolo non è mio ma ripreso da un articolo di Jonathan Nossiter(*) uscito su Internazionale un paio di anni fa:

«Ormai ci siamo rassegnati ad accettare il fatto che il valore monetario è l’unico parametro di valutazione che conta, e di conseguenza ogni cosa viene trattata come un bene di consumo.
(…)la verità è che il vino resta un prodotto agricolo. Che sia francese, italiano, americano o brasiliano, il vino è forse l’indicatore più preciso di ciò che una terra è in grado di esprimere in termini di caratteristiche e tradizioni. Per questo dovrebbe essere (e storicamente lo è stato) un’espressione affidabile e duratura di ciò che accade nelle campagne (beviamo vini vecchi di cinquant’anni ma non mangiamo neppure il pane di cinque giorni).
Per migliaia di anni i popoli di Italia, Francia, Germania, Portogallo e Spagna sono stati consapevoli che ogni cento metri la natura può presentare colossali differenze, rispecchiate dalle caratteristiche dell’uva. I secoli hanno insegnato agli agricoltori e agli abitanti delle città che la trasformazione magica del succo d’uva in vino è una trasformazione dell’agricoltura pura in cultura, in tutti i suoi aspetti.
Il vino è infatti l’espressione delle capacità di un artigiano, un uomo che sa plasmare, in parte, la natura a sua immagine. Il viticoltore è il cugino di campagna di tutti gli artisti che scrivono, dipingono, filmano, ballano e scrivono musica, e per questo motivo il vino è una specie di museo vivente, il testamento di uno specifico pezzo di terra. Il tempo e le piante racchiudono la storia, la cultura e le pratiche sociali di ogni regione e sottoregione.
La meraviglia del vino sta nella sua capacità di cavalcare l’agricoltura e l’arte. E, insieme al suo effetto inebriante, ha contribuito per ottomila anni a creare una società più civile. Ma oggi, quando condividiamo una bottiglia di vino, sappiamo ancora da dove viene e perché?»

cop1È un po’ con questo lo spirito che abbiamo voluto invitare a ciascuno degli incontri con gli autori e gli editori della rassegna «LE MARCHE IN BIBLIOTECA, I Giovedì Letterari della Planettiana», un produttore locale che ci presenterà i suoi vini. Saranno presenti alle diverse serate le aziende Col di Corte, Ca’Liptra, La Distesa, La Staffa e Pievalta, che ringraziamo.

Al primo appuntamento, giovedì 6 ottobre alle 21.15, presso la Biblioteca Planettiana, sarà presente Col di Corte.
La serata è dedicata all’antologia S’AGLI OCCHI CREDI. Le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti, a cura di Cristina Babino (Vydia Editore). Saranno presenti alcuni degli autori; l’evento sarà inoltre arricchito dalla partecipazione musicale di Gastone Pietrucci de La Macina, accompagnato dal chitarrista Marco Gigli.

IL PROGRAMMA dei Giovedì Letterari

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(*) Jonathan Nossiter è un regista, autore di sette lungometraggi, tra i quali MONDOVINO (Cannes, 2004), SUNDAY (con il quale ha vinto il Sundance Film Festival nel 1997), RIO SEX COMEDY e RESISTENZE NATURALI; è autore dei libri Le vie del vino (Einaudi) e Insurrezione culturale (DeriveApprodi).

«La ribellione della lentezza e dell’ozio», ricordando Alain Goussot

timthumb L’amico Alain Goussot ci ha lasciati, il 26 marzo scorso. La notizia mi è arrivata con qualche giorno di ritardo e mi ha colpito con forza, del tutto inaspettata. L’avevo conosciuto quindici o venti anni fa, colleghi in un bel gruppo di ricercatori alle prese con le nuove (allora) immigrazioni dai paesi dell’Europa dell’est, in prevalenza verso le regioni adriatiche. Poi l’avevo invitato alcune volte a Jesi, come docente di pedagogia al corso FSE per gli operatori della Casa delle Culture di Jesi, o in seguito ad alcune conferenze interculturali organizzate insieme all’Ambito Sociale Territoriale, gli istituti scolastici e l’azienda sanitaria. Per introdurci all’intercultura aveva iniziato raccontando di sé, figlio di emigranti (la mamma abruzzese e il padre francese) cresciuto in Belgio in una zona dove la lingua francese, appresa in famiglia, era in minoranza; in quel Belgio dove negli anni cinquanta e sessanta chi arrivava in treno dall’Italia per lavorare veniva fatto scendere allo scalo merci. Altre volte ho incrociato Alain qua e là per l’Italia in qualche convegno. Ci si sentiva attraverso le email o su FB; scriveva molto Alain, docente e ricercatore, ed era sempre attivo, sempre pronto a proporre spunti interessanti e utili, che in più di un’occasione ho riutilizzato o ripubblicato. L’ultimo in ordine di tempo, su questo blog, nello scorso mese di luglio, “Pennac, Baricco e la scuola,  nel quale ribadiva proprio la sua preferenza per la figura dell’intellettuale e dello scrittore impegnato anche sul piano etico e politico, anziché restare esclusivamente uno specialista della letteratura: «Come lo sappiamo sono due visioni che storicamente (come l’ha ben descritta Gramsci nei suoi scritti sugli intellettuali) caratterizzano l’atteggiamento degli intellettuali francesi che intervengono nella sfera pubblica rispetto alla gestione della polis e gli intellettuali italiani che curano la propria estetica senza sporcarsi più di tanto le mani.»
Ho letto la notizia della sua scomparsa sulla rivista on line letteraturaenoi, dove gli viene dedicato un ritratto bello e commosso; poi ho trovato in rete e letto molti altri ricordi affettuosi di amici che lo frequentavano molto più di me. Tra i suoi articoli disponibili in rete, per ricordarlo scelgo “La ribellione della lentezza e dell’ozio”,  ripubblicato ora sul blog Comune-info.
Ciao Alain.

LA RIBELLIONE DELLA LENTEZZA E DELL’OZIO, di Alain Goussot

Viviamo nel mondo della velocità, del fare tutto subito, del consumare tutto subito, del dimenticare il passato per vivere solo il presente, del non sedimentare nulla e del non curare le relazioni. L’era capitalistica, quella del capitalismo finanziario e ipertecnologico, ha ulteriormente accelerato il tempo di vita, sembra che non ci sia più tempo per le relazioni umane, la convivialità, la meditazione, il sogno e quello svago che umanizza ognuno. Siamo come fagocitati da questa ansia di produrre, fare, accumulare, indebitarsi, consumare senza riflettere più di tanto, senza fermarsi sul bordo della strada per respirare quello che Célestin Freinet chiama “le fonti chiare della vita”.

Non c’è più il senso della durata e quindi del tempo vissuto, come affermava Henri Bergson, tempo umano dove il corpo e la psiche sono un tutt’uno nell’esprimere quello che gli antichi greci definivano come il soffio dell’anima. Scrive l’educatore Gianfranco Zavalloni, nella sua “Pedagogia della lumaca”:

“Oggi la maniera per essere rivoluzionari è oziare e rallentare, far da sé e produrre localmente, perder tempo”.

Già il grande Jean-Jacques Rousseau nell’Emile e nelle sue “Fantasticherie di un passeggiatore solitario” affermava che la più grande virtù umana di un educatore è quella di sapere perdere tempo, sapere ascoltare se stesso e l’altro, sapere dare il tempo alla natura umana di fare vibrare la propria anima in armonia con il mondo vivente. Per Rousseau camminando in mezzo alla natura si ritrova il senso profondo dell’umanità come espressione dell’armonia del vivente. La lentezza del passo di chi passeggia sta anche nel “pensiero meridiano” di Franco Cassano che richiama i ritmi lenti e ad altezza d’uomo del Mediterraneo, un passo non solitario ma conviviale che coinvolge l’altro e costruisce i tempi dei legami umani e dell’amicizia.

È Paul Lafargue, il genero di Marx, forse per le sue origini in parte caraibiche, che parla del “diritto all’ozio” in un libricino pubblicato nel 1883 (fu un libro simbolo durante la rivolta del 1968, assieme a lettere ad una professoressa di don Lorenzo Milani e il libretto rosso di Mao) spiega che il proletariato si è lasciato fagocitare mentalmente dalla cultura capitalistica facendo del lavoro e della produttività (del lavoro veloce e alienante) un dogma; con ironia paradossale afferma che è un errore lottare per il diritto al lavoro, un lavoro che esaurisce, disumanizza, ma che bisogna lottare per il diritto alla lentezza, all’ozio, a quell’ozio che è cura dello spirito e della propria umanità in una ottica comunitaria, comunistica di equa distribuzione delle ricchezze e dei tempi di lavoro. Nel capitolo 1 del suo libricino intitolato “Un dogma disastroso” Lafargue, tra l’altro, scrive:

“Una strana follia possiede le classi lavoratrici della civiltà capitalistica. Questa follia trascina con sé miserie individuali e sociali che, da più di due secoli, torturano la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la passione mortifera del lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua prole”.

“Nella società capitalistica, il lavoro, è alla base di tutte le degenerazioni intellettuali e di tutte le patologie organiche”.

In fondo, pure nelle loro differenze, cosa propongono Rousseau, Freinet, Zavalloni, Cassano e Lafargue? Tornare ai tempi umani della vita umana che è tempo di pensiero, di emozioni condivise, di meditazione e di ricostruzione di legami umani di solidarietà dove ognuno contribuisce alla vita della comunità a secondo i propri bisogni e le proprie capacità. Una pedagogia della lentezza, dell’ozio e del recupero dei ritmi della nostra umanità, umanità che ci mette in comunione con gli altri e con l’ambiente naturale, un modo di essere che è alla base di una nuova pedagogia comunistica intesa come un mettere insieme le nostre differenze recuperando il ritmo vitale dell’esistenza e la vibrazione comune e solidali delle nostre anime.

“Luigi Bartolini, AMORE DI MARCA”, a cura di Fabio Ciceroni e Ezio Bartocci

copTitolo: Luigi Bartolini, amore di Marca
Autori: Fabio Ciceroni e Ezio Bartocci (a cura di)
Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche

La serata dedicata a Luigi Bartolini lo scorso sabato 5 marzo alla Biblioteca Planettiana di Jesi, mi offre l’occasione di citare il libro “Luigi Bartolini AMORE DI MARCA”, curato da Fabio Ciceroni e Ezio Bartocci, pubblicato nel 2013 dal Consiglio Regionale delle Marche.
Presenti, oltre ai curatori del volume, anche Luciana Bartolini, testimone e custode di un grande patrimonio, e poi Daniele Salvi per il Consiglio regionale e Luca Butini per l’Amministrazione comunale.
Un Bartolini nella piena ampiezza della sua figura e del suo lavoro, quello presentato e ricordato, di cui ci è stata offerta la possibilità di apprezzarne direttamente la poesia e la prosa, attraverso le letture di Dante Ricci, accompagnato in sottofondo da un soffice arpeggio di chitarra. Emozionante, in particolare, la lettura del poemetto “L’eremo dei frati bianchi”, dedicato allo stesso luogo dove tre anni fa, in occasione del cinquantenario della scomparsa di Luigi Bartolini, si tenne un’altra bella serata a lui dedicata, dal titolo “I luoghi, la memoria, le immagini”.

1234Il libro è disponibile anche in rete in formato pdf; qui di seguito riportiamo direttamente, insieme ad alcune foto della serata di sabato scorso, l’introduzione al libro di Fabio Ciceroni: “Luigi Bartolini, un universo da riscoprire”.

Troppo tempo dalla scomparsa – cinquant’anni, 1963 – di Luigi Bartolini? Ci si chiede con una qualche fondatezza. Se per un verso di lui si è detto e si è scritto nel mezzo secolo trascorso, per un altro è facile accorgersi che il nostro debito verso di lui s’è accresciuto. Si ha l’impressione di una sostanza sfuggente ai numerosi tentativi di farla emergere definitivamente.

Anche oggi Bartolini va affrontato a modo suo. Non attende da noi una collaborazione alla comprensione, come vorrebbero gli altri, nella critica e nella storia: ne sarebbe infastidito. Avrebbe invece bisogno di chiederci un’attenzione serena, più continua di quella frammentaria o doverosa che c’è stata: specialmente a noi suoi conterranei, che continuiamo per buona parte ad essere quelli che egli conobbe bene e che ufficialmente apprezzò poco per amore scontroso.

Con l’immaginario marchigiano anche Bartolini ha dovuto fare dispettosamente i conti per la vita, ha dovuto commisurarsi anche con la nostra irriducibile ruralità. Mutate le vesti coi tempi, ma non sempre le menti, siamo rimasti al campanone di casa con la scusa del genius loci; attaccati alle minuterie del quotidiano con la scusa della saggezza; paurosi della libera fantasia e del diverso con la scusa della proverbiale prudenza; terrorizzati dal sospetto del ridicolo con la scusa dell’antica diffidenza contadina.

Ma perché allora è tornato ciclicamente a scontrarsi con la terra madre marchigiana e con i suoi figli anziché dimenticarli, inondarli d’indifferenza? Non so figurarmi un Bartolini indifferente verso alcunché, tanto meno verso la propria terragna matrice. E mi pare che sia rimasto invincibilmente attratto dalla propria cultura d’origine, nonostante croste di disprezzo, proprio per la sua marginalità.

In fondo è proprio questo osservatorio marginale, ma non emarginato, a propiziargli una visione prospettica infinita sul mondo sghembo degli uomini meccanici e metropolitani che hanno perduto il gran respiro della Natura. E non vi è dubbio che quel respiro lo abbia investito fin dagli anni cuprensi quand’era giovanino giovanino. Il resto dell’esistenza è stato per lui un combattimento senza requie contro il tradimento ordito dagli uomini sciocchi, i soliti carciofi, ai danni della Natura primigenia. Russoviano incallito, come si definiva, ha intrapreso la sua utopica battaglia contro ogni odore di falsità, contro il mercimonio di galleristi e contro artisti ruffiani, perfino contro amici legati a correnti che gli parevano mode sradicate dalla nostra tradizione (come l’ermetismo in letteratura). La sua radicale classicità deve intendersi dunque come adesione schietta, ma meditata non istintiva, ad una matrice idillica di valore assoluto, perseguita a qualsiasi prezzo e da inseguire per disparati sentieri: con la morsura delle sue eccezionali incisioni e con l’aggressività cromatica della pittura, con la narratività antinovecentesca della poesia e con la divina cadenza di una prosa fino ad oggi impareggiata. L’arte, nei suoi molteplici linguaggi, gode in lui di una centralità salvifica, rivelatrice unica di quella verità im- manente e vibrante ch’egli ha sempre paganamente delibato dalla romita Natura.

Di qui il rito della contemplazione, ma nutrita di umori sangui- gni, che in prosa si manifesta con un ricorso assiduo all’autobiogra- fia, mai narcisistico però: pochi sono riusciti a svelare mondi fuori di sé parlando di sé. Di qui il mito del ritorno ad ogni passo, al nocciolo fondo delle cose: non vi è in fondo evoluzione progressiva, lo potremmo leggere aprendo a caso una pagina di uno qualsiasi dei suoi oltre sessanta titoli. Ma, mi chiedo, dove rileggerlo ormai? Gran parte del tesoro non è reperibile e rischia di perdersi (meritorio è il riferimento creato a Cupramontana dal Centro di Documentazione a lui intitolato). Anche per questo di Bartolini si parla meno. È stato più volte ripubblicato Ladri di biciclette, ma paradossalmente è l’opera sua più fortunata per riflesso del film di De Sica e Zavattini. Il capolavoro del neorealismo cinematografico resta però lontano e diverso, com’ebbe a polemizzare lo stesso Bartolini, dalla prosa picaresca e dalla ricerca del miracoloso che è del romanzo. Così rischiamo di perderlo anche perché egli sembra,a distanza, aver riguadagnato quella natura solitaria e quell’aria scontrosa che in vita gli avevano procurato tanti allontanamenti che volevano negargli quel suo supremo diritto alla contraddittorietà. Utili dunque e preziose le iniziative – come la presente o come quelle cuprensi, fabrianesi e, speriamo, romane – per saldare tanti debiti accumulati verso questo sovrano, inimitato cultore della bellezza contratta dalla sua terra.

(vedi anche “I luoghi, la memoria, le immagini”)

Ma cosa ti ha spaventato in questo discorso sul riso?

Alcune foto da un viaggio di appena lo scorso anno in uno dei luoghi che ispirò Eco per il suo romanzo “Il nome della rosa”, la Sagra di San Michele, all’inizio della bella Valsusa sempre al centro della cronaca e della nostra immaginazione, e il brano dove s’immagina la riscoperta del libro perduto di Aristotele e si parla di Commedia e del riso, come l’ironia di Eco che da inizio al suo racconto (“Era una bella mattina di fine novembre…”) richiamando l’inizio dei romanzi dello scrittore Snoopy: “Era una notte buia e tempestosa…”

5 4 3 2 16“Voglio vedere il libro che tu hai sottratto laggiù, dopo averlo letto, perché non volevi che altri lo leggesse, e che hai nascosto qui, proteggendolo in modo accorto, e che non hai distrutto perché un uomo come te non distrugge un libro, ma soltanto lo custodisce e provvede a che nessuno lo tocchi. Voglio vedere il secondo libro della Poetica di Aristotele, quello che tutti ritenevano perduto o mai scritto, e di cui tu custodisci forse l’unica copia.”

“Quale magnifico bibliotecario saresti stato, Guglielmo,” disse Jorge, con un tono insieme di ammirazione e rammarico. ”Così sai proprio tutto. Vieni, credo ci sia uno sgabello dalla tua parte del tavolo. Siedi, ecco il tuo premio.”
Guglielmo si sedette e posò il lume, che gli avevo passato, illuminando dal basso il volto di Jorge. Il vecchio prese un volume che aveva davanti e glielo passò. Io riconobbi la rilegatura, era quello che avevo aperto nell’ospedale, credendolo un manoscritto arabo.

“Leggi, allora, sfoglia, Guglielmo,” disse Jorge. ”Hai vinto.”
Guglielmo guardò il volume, ma non lo toccò. Trasse dal saio un paio di guanti, non i suoi con la punta delle dita scoperte, ma quelli che indossava Severino quando lo avevamo trovato morto. Aprì lentamente la rilegatura consunta e fragile. Io mi avvicinai e mi chinai sopra la sua spalla. Jorge col suo udito finissimo udì il rumore che facevo. Disse: “Ci sei anche tu, ragazzo? Lo farò vedere anche a te… dopo.”
(… ) Guglielmo lesse le prime righe, prima in greco, poi traducendo in latino e continuando poi in questa lingua, in modo che anch’io potei apprendere come iniziava il libro fatale.

«Nel primo libro abbiamo trattato della tragedia e di come essa suscitando pietà e paura produca la purificazione di tali sentimenti. Come avevamo promesso, trattiamo ora della commedia (nonché della satira e del mimo) e di come suscitando il piacere del ridicolo essa pervenga alla purificazione di tale passione. Di quanto tale passione sia degna di considerazione abbiamo già detto nel libro sull’anima, in quanto – solo tra tutti gli animali – l’uomo è capace di ridere. Definiremo dunque di quale tipo di azioni sia mimesi la commedia, quindi esamineremo i modi in cui la commedia suscita il riso, e questi modi sono i fatti e l’eloquio. Mostreremo come il ridicolo dei fatti nasca dalla assimilazione del migliore al peggiore e viceversa, dal sorprendere ingannando, dall’impossibile e dalla violazione delle leggi di natura, dall’irrilevante e dall’inconseguente, dall’abbassamento dei personaggi, dall’uso delle pantomime buffonesche e volgari, dalla disarmonia, dalla scelta delle cose meno degne. Mostreremo quindi come il ridicolo dell’eloquio nasca dagli equivoci tra parole simili per cose diverse e diverse per cose simili, dalla garrulità e dalla ripetizione, dai giochi di parole, dai diminutivi, dagli errori di pronuncia e dai barbarismi…»

(…) “Ma ora dimmi,” stava dicendo Guglielmo,”perché? Perché hai voluto proteggere questo libro più di tanti altri? Perché nascondevi, ma non a prezzo del delitto, trattati di negromanzia, pagine in cui si bestemmiava, forse, il nome di Dio, ma per queste pagine hai dannato i tuoi fratelli e hai dannato te stesso? Ci sono tanti altri libri che parlano della commedia, tanti altri ancora che contengono l’elogio del riso. Perché questo ti incuteva tanto spavento?”

“Perché era del Filosofo. Ogni libro di quell’uomo ha distrutto una parte della sapienza che la cristianità aveva accumulato lungo i secoli. I padri avevano detto ciò che occorreva sapere sulla potenza del Verbo, ed è bastato che Boezio commentasse il Filosofo perché il mistero divino del Verbo si trasformasse nella parodia umana delle categorie e del sillogismo. Il libro del Genesi dice quello che bisogna sapere sulla composizione del cosmo, ed è bastato che si riscoprissero i libri fisici del Filosofo, perché l’universo fosse ripensato in termini di materia sorda e viscida, e perché l’arabo Averroè quasi convincesse tutti della eternità del mondo.

(…) Ogni parola del Filosofo, su cui ormai giurano anche i santi e i pontefici, ha capovolto l’immagine del mondo. Ma egli non era giunto a capovolgere l’immagine di Dio. Se questo libro diventasse… fosse diventato materia di aperta interpretazione, avremmo varcato l’ultimo limite.”
“Ma cosa ti ha spaventato in questo discorso sul riso? Non elimini il riso eliminando questo libro.”

Chimamanda Ngozi Adichie: I pericoli di una storia unica

www.ted.com/talks/chimamanda_adichie_the_danger_of_a_single_story

Chimamanda Ngozi Adichie è nata ad Abba, in Nigeria, nel 1977 ed è cresciuta nella città universitaria di Nsukka. Là ha completato il primo ciclo di studi, poi proseguiti negli Stati Uniti. Già vincitrice di importanti premi con L’ibisco viola e Metà di un sole giallo (il Commonwealth Writers’ Prize for Best First Book 2005, il primo, e l’Orange Broadband Prize 2007 e il Premio internazionale Nonino 2009, il secondo), entrambi pubblicati da Einaudi, con Americanah, il suo terzo romanzo, ha conquistato la critica aggiudicandosi il National Book Critics Circle Award 2013 e giungendo tra le finaliste del Baileys Women’s Prize for Fiction 2014. Un brano del discorso Dovremmo essere tutti femministi (pubblicato in Italia da Einaudi) tenuto da Adichie nel 2013 durante una conferenza TEDx, è stato campionato dalla cantante Beyoncé nella canzone Flawless. Time Magazine l’ha inclusa nell’elenco delle 100 persone più influenti al mondo nel 2014. Adichie è stata definita «la Chinua Achebe del XXI secolo».
Il suo sito è chimamanda.com.

“Hotel House”, di Giorgio Cingolani

Interessante incontro con il regista Giorgio Cingolani e il suo “Hotel House“, ieri pomeriggio, domenica 6 dicembre, presso il circolo arci “Casa del Popolo” di Jesi, organizzato dal comitato Arci Jesi-Fabriano e dall’associazione Ciranda, che da qualche tempo collabora con l’arci per le attività di progettazione rivolte ai giovani, al sociale e ai migranti.

Il film – un documentario sulla struttura nota come Hotel House, nei pressi di Porto Recanati, a sud di Ancona, dove in un palazzo di 17 piani che si presenta a chi passa in auto lungo l’autostrada adriatica come un alieno, vivono circa 480 famiglie migranti – non è nuovo, risale a circa dieci anni fa ma non sembra affatto, se lo stesso regista non ce lo spiegasse, raccontandoci anche l’ulteriore degrado subito dalla struttura negli ultimi anni, a causa non della cattiva gestione dei suoi inquilini ma piuttosto dell’abbandono in cui viene relegata da chi dovrebbe amministrarla.

123Una serata interessante, organizzata per avviare un ciclo di incontri e iniziative da avviare in città su questi temi, non solo con curiosità “intellettuale” verso un fenomeno sociale quasi unico in Italia – la concentrazione di fatto di un intero paese in una struttura verticale – e che si trova da anni qui a due passi da casa mostra – anche se qualcuno degli amici invitati ieri sera ne sentiva parlare addirittura per la prima volta – ma anche per partire da queste realtà e ritornare a centrare il nostro interesse su ogni nostra singola città, come si vive nei quartieri che una stampa allarmistica definisce a rischio aizzandoci verso la sola preoccupazione del controllo e della sicurezza, e per allargare lo sguardo anche ai nuovi migranti e rifugiati di oggi e in particolare, in questi ultimi giorni, ai tanti richiedenti asilo abbandonati alle frontiere dell’Europa, in balia del freddo e delle intemperie. Una serata interessante, per discutere quali iniziative mettere in campo, non da soli ma insieme ad altre associazioni della città, ci incontreremo infatti ancora, in una nuova iniziativa, il 18 dicembre.

Ieri sera Giorgio Cingolani ci ha raccontato a lungo, alternandosi alle immagini del suo documentario, della realtà sociale dell’Hotel House, dove accanto al degrado strutturale dell’edificio che aumenta il disagio di viverci, e alla mancanza di qualsiasi servizio pubblico di appoggio a iniziare dai trasporti, o di spazi adatti per i ragazzi – vivono nel palazzo circa 460 minori – si contrappone invece la solidarietà sociale tra i suoi abitanti, il senso di solidarietà e vicinanza, un bene comune di competenze sociali che nessuno purtroppo incoraggia e sostiene per renderle partecipi in prima persona. Non solo la struttura, potremmo dire, è abbandonata “dalla nostra indifferenza”,  ma anche il capitale sociale di chi ci vive all’interno.

Giorgio Cingolani non è solo un cineasta, è anche un antropologo e il suo sguardo, il suo modo di entrare nella struttura e nelle relazioni sociali che la rendono viva ha anche questo retroterra professionale, a cui comunque egli ha aggiunto, e non è poco, lo strumento della telecamera e del film, non solo “un’osservazione partecipata” dell’ambiente scelto da parte del ricercatore, ma piuttosto un racconto partecipato anche dai suoi protagonisti diretti, sempre attenti, mai superficiali, magari anche suscettibili se qualcosa non appare chiaro fin dall’inizio, perché assai spesso ciò che a noi, esterni, sembra scontato o rientrare in un qualche cliché di cose che ci sembra di aver già visto, loro in realtà le vivono ogni giorno addosso a se stessi. Un po’ come rispondeva uno degli intervistati, alla domanda “ti piace questo lavoro?”: “Sì, mi piace: non ce n’è uno meglio e quindi mi piace.”

Giorgio Cingolani sta ultimando un nuovo progetto con i ragazzi che vivono all’Hotel House, un nuovo film con i ragazzi attori di se stessi: il prossimo mercoledì 9 lo presenterà – il titolo delcprogetto è: “Homeward bound: sulla strada di casa”- alla rassegna Corto Dorico 2015, all’interno di una serata dedicata proprio alla proiezione dei migliori cortometraggi sui migranti, in concorso quest’anno per il Premio Amnesty International Italia per i Diritti umani; alla serata interverrà anche Il vicepresidente di Amnesty International Italia Paolo Pignocchi  che  presenterà anche la campagna “SOS Europa”, per la creazione di un corridoio umanitario per chi cerca rifugio nel continente europeo.

 

Come leggere i libri barnabooks (e non solo) in qualsiasi momento con Android e iOs

Uno dei vantaggi dei libri in formato digitale è quello di poterli avere sempre con sé. Per esempio sul proprio telefono cellulare, così da poter inziare a leggere in un qualsiasi momento di pausa anche non previsto. Tra le possibilità che consentono di leggere sul telefono (Android) gli ebook scaricati da barnabooks (o altrove) c’è l’app di Kobo. Tra i suoi vantaggi ha inoltre quello di sincronizzarsi, con segnalibri e tutto, con il proprio ereader Kobo o con l’applicazione installata sul proprio computer (ma solo con i libri acquistati negli store Kobo, Feltrinelli, Mondadori…).

koboUsare l’app di Kobo per Android per leggere gli ebook è molto semplice. Una volta scaricato e aperto il programma, basta aprire il menù in alto a destra e premere su Importa contenuti. Dopo aver atteso una decina di secondi per dare il tempo al programma di cercare nella memoria del telefono tutti i contenuti compatibili, bisognerà selezionare il libro che abbiamo scaricato e premere sul pulsante azzurro Importa selezionato. Il libro è ora presente nella nostra libreria ed è possibile iniziare a leggerlo.

 

IMG_0766Leggere gli ebook sui sistemi iOs come iPhone e iPad è ancora più semplice: su Safari, una volta scaricato il file EPUB dal sito o dal link ricevuto via mail, basta selezionare Apri in “iBooks” e il libro sarà aggiunto alla propria libreria (oppure Apri in… e scegliere un altro programma che legge i file EPUB).