Titolo: Come una lama
Autore: Maria Vittoria Pichi
Con una nota di Massimo Cirri
Casa editrice: Ventura edizioni
Giovedì 22 ottobre ore 21.15 alla Biblioteca Planettiana per il terzo appuntamento con Le Marche in Biblioteca 2020.
Nello Stato di diritto esiste anche il rovescio, ma in questo caso non è una variante dei modi possibili di tessere o rammendare, per creare nuove trame di vita, è piuttosto il tentativo d’annullarle. Kafka il rovescio lo usa per mostrarci la realtà rovesciandola, appunto: non ci conduce nel mondo della fantasia per astrarci o parlarci attraverso metafore, ci immerge invece direttamente nelle profondità del reale, senza metafore, negli interstizi più nascosti ma sempre pronti ad aprirsi. Accade qualcosa e all’improvviso tutto ha un altro corso: «Qualcuno doveva aver denunciato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua padrona di casa, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Ciò non era mai accaduto. K. aspettò ancora un po’, guardò dal suo cuscino la vecchia signora che abitava di fronte e che lo osservava con una curiosità del tutto insolita in lei, poi però, meravigliato e affamato a un tempo, suonò. Subito qualcuno bussò e entrò un uomo, che egli non aveva mai visto prima in quella casa.» Inizia così Il Processo di Kafka, l’ho riportato subito alla mia memoria la prima volta che ho ascoltato Maria Vittoria Pichi, Mavi, presentare il suo libro.
Conoscevo, per averle lette o sentite raccontare, diverse storie analoghe, e quindi il suo racconto non mi sorprendeva, nel senso dell’incredulità. Mi riportava ad un periodo storico che ricordavo e ricordo abbastanza bene, anche per averlo riletto e ristudiato. Nel caso specifico siamo alla fine del 1981, nei giorni in cui le Brigate Rosse sequestrano il generale americano Dozier, dal 17 dicembre al 28 gennaio, giorno in cui viene liberato da un commando che irrompe a colpo sicuro nell’appartamento prigione della periferia padovana. Ricordo abbastanza bene quel periodo perché emerse subito in quei giorni un bel dibattito sulla tortura (ecco un aspetto del rovescio). Ci furono due inchieste giornalistiche ed entrambi i giornalisti finirono in galera perché non vollero rendere note le loro fonti, come se una banalissima indagine interna, se l’avessero voluta davvero, non fosse stata sufficiente da sola per accertare cosa stava accadendo. Lo ricordo bene perché uno dei due giornalisti, Luca Villoresi del quotidiano La Repubblica, l’avevo conosciuto, eravamo stati amici e ora lo vedevo in tv mentre ammanettato lo spostavano da un motoscafo a una gondola. Siamo a Venezia, più o meno alla fine di febbraio del 1982.
L’altro è un giornalista del settimanale L’espresso, Pier Vittorio Buffa, che pubblica il suo articolo il 28 febbraio e viene arrestato il 9 marzo; qualche anno fa ha scritto ancora su quei lontani episodi (Espresso del 5 aprile 2012), questa volta potendone tracciare, quando a distanza di anni gli stessi poliziotti protagonisti lo raccontano, un quadro più chiaro e completo, a cominciare dalle riunioni in cui già a metà dicembre del 1981 si pianifica l’uso della tortura promettendo l’impunità alle due squadre che dovranno occuparsene, dai nomi “esotici”: “I cinque dell’ave maria” e “i guerrieri della notte”. Ma tutto era già noto anche allora, un po’ ne ho il ricordo e basta andare a cercare negli atti parlamentari di allora per avere la conferma che ci furono già allora almeno due sedute parlamentari, il 15 febbraio e il 22 marzo. ricche di dettagli, nomi e descrizioni delle torture, e poi nel luglio dello stesso anno uscì unche un dossier col titolo La Tortura in Italia a cura di avvocati e parlamentari, nonché inchieste di Amnesty International. Insomma, anche evitando di riaprire qui ora un dibattito complesso e che ci porta su un altro argomento, non si può dire che quegli interstizi del reale, come li chiamavo più sopra, non fossero già evidenti. E questo è solo un pezzetto del contesto, l’intersitizio più immediato e vicino, che riguarda la storia raccontata in questo libro.
Come una lama. Il titolo scelto da Maria Vittoria per raccontare la sua vicenda, è una metafora forte, evoca insieme sia l’immediatezza della cesura che la sua irreversibilità, una pausa che si apre improvvisa e poi resta per sempre.
Nel libro lei racconta questa pausa. L’arresto il 28 dicembre a mezzogiorno, prelevata nella farmacia dove lavora: lei è il secondo anello della catena degli arresti iniziati quel mattino per pura casualità, ma il caso è un po’ come nell’effetto farfalla (metafora che nasce la prima volta in un romanzo di Ray Bradbury) dove tutto si collega, e la stessa farfalla in realtà è proprio la vittima innocente. Arrestati dunque per caso, forse solo per una voglia di protagonismo di chi esegue il primo fermo, ma subito catapultati nel clima e nelle aspettative che si ritengono adatte a loro (“Nessuna domanda sulle mie conoscenze o su legami con altre persone, niente di niente che mi faccia capire cosa sta succedendo e sempre, sui loro visi, quello sguardo scolpito di disprezzo”) e senza che lei, la ragazza interrogata, ne intuisca il perché, il collegamento. La nostra cultura (si fa per dire) giuridica è permeata di telefilm americani nei quali l’arresto è sempre accompagnato dalla dichiarazione del capo di accusa (nella realtà poi magari accade anche diversamente). Da noi, all’epoca del racconto, non era così, non ti dichiaravano nulla, e se tu eri davvero innocente e non avevi nulla di cui rimproverarti, proprio non ci riuscivi a indovinare da solo il motivo che loro avevano scelto per te, proprio come accade a Josef K.
Quando l’arresto avviene, il 28 dicembre, le squadre della tortura già sono pronte a mettere le mani sui primi sospettati, ma a loro – sono stati fermati in quattro – non li calcolano nemmeno (“Non ci fu riservato il trattamento” scrive Maria Vittoria) tanto dev’essere evidente la loro totale estraneità, il buco nell’acqua compiuto da chi li ha fermati, la brutta figura che può ritorcersi loro contro, incapaci ancora a due settimane dal sequestro di trovare un filo, perché non si tratta di acciuffare un colpevole qualunque, il generale che devono ritrovare è proprio quello, non possono liberarne un altro a caso, devono andare precisi.
Maria Vittoria racconta di quel salto in cui la lanciano nel buio, lo smarrimento, la convinzione profonda in quei momenti assurdi che si tratti di un equivoco, tanto che quando la vanno a prendere per interrogarla, due giorni dopo, il 30, è convinta che la stiano riportando a casa, con tanto di scuse, e invece il magistrato si limita a farsi tradurre in italiano una canzone dialettale di Senigallia trovata su foglio durante la perquisizione a casa sua, e null’altro, non le chiede nulla che possa lasciar indovinare a lei stessa in quale contesto l’hanno fermata, la manda via così, senza spiegazioni, solo con uno sguardo di disprezzo. Appare lui stesso imbarazzato, il magistrato, e lei è incredula, nemmeno l’avvocato ci capisce nulla, perché all’epoca i motivi dell’arresto non venivano spiegati fino a che tutto non fosse pronte per il rinvio a giudizio. Passa capodanno e il 2 gennaio la stampa nazionale riporta, in un articolo più ampio, queste scarne righe (La Stampa del 2/1/1982): “Sembrava che le indagini sul rapimento del generale fossero giunte ad una svolta, con i quattro fermi operati dai carabinieri di Padova. Ora pare che questa operazione non stia conducendo a quei risultati che gli inquirenti si aspettavano: si dice, in sostanza , che quegli accertamenti compiuti escludano connessioni con la drammatica vicenda dell’alto ufficiale delle FTASE . I giovani bloccati nel padovano sono Paolo Zabeo, 27 anni, di Rovereto, Giovanni Tonelli, ventiquattrenne di San Giorgio delle Pertiche (Padova), e le loro compagne, Flavia Bignani, 30 anni bolognese e Maria Vittoria Pichi, ventisettenne, di Ancona. Ieri il sostituto procuratore della Repubblica Lorenzo Zen ha convalidato i fermi, formulando l’ipotesi di associazione sovversiva a fini di terrorismo, non quella di ‘partecipazione a banda armata denominata Brigate Rosse’ prospettata in un primo momento dagli investigatori.”
Maria Vittoria verrà a saperlo solo alla sera, quando dalla cella vicina, dove sono in isolamento, un’altra detenuta alza al massimo il volume del televisore per farle sentire il telegiornale. Solo allora realizza l’assurdità in cui l’hanno gettata, e comprende che non le arriveranno scuse per l’equivoco, ma dovrà restare lì per un periodo forse non breve.
Curioso anche il modo in cui nell’articolo vengono descritti i giovani, quasi una promiscuità, non si capisce quali siano le due coppie (Mavi e Paolo) e che l’altra coppia è stata tirata dentro solo perché dividevano lo stesso appartamento; viene descritto invece il primo fermo, al mattino, di Paolo, fermato davvero per caso e poi fatto scendere perché c’erano dei vecchi volantini avanzati di qualche iniziativa sociale appoggiati da un lato – mi sembrano anche loro, ui volantini, come le ali della farfalla – che nell’articolo sulla Stampa si trasformano subito in “documenti al vaglio degli investigatori”: la canzone che chiedono a Mavi di tradurre nell’interrogatorio è questa: “Peppa bella, butta la catinella e gim via sa’l materàs, portate anc’el pitale…” Insomma, è grottesco.
Perché continuano a tenerli dentro per qualche altro mese, quando tutto è così chiaro? Hanno fatto un buco nell’acqua e quindi è meglio stare zitti, far passare in secondo piano; tranne i giornali locali, di Marche e Veneto che un po’ di pettegolezzo vanno sempre a cercarlo, la stampa nazionale non si occupa più di loro, è meglio non ricordarli, dimenticarli, aspettare che tutto sia lontano, che passino queste giornate sotto i riflettori, sotto i quali bisogna recitare bene la propria parte.
Però magari c’è anche qualcosa di più, i cosiddetti investigatori comunque non li dimenticano quei ragazzi, anzi, torneranno a cercarli in un paio di occasioni, la prima nel 1985 («… scopro che siamo ancora utili, utili per far numero: dicono i mass media che si tratta di 40 o 50 perquisizioni e di vari arresti tra Padova, Venezia, Milano e altre città») e anche Paolo finisce di nuovo dentro e ci resta, e stavolta per richiamare l’attenzione e non essere dimenticato sceglie di affrontare un duro sciopero della fame, e poi anche qui tutto finisce senza aver dimostrato nulla, ma solo dopo sei anni e non subito.
Intanto la vicenda iniziale si chiude definitivamente dal punto di vista della legge solo nel 1988, ‘esiste un vuoto probatorio assoluto’ è scritto nella sentenza. Ma non è finita perché nel 1989 c’è un altro colpo di coda, che fa capire a Maria Vittoria come determinati meccanismi, quelli che usano il battito della farfalla come un comodo alibi, continuano ad essere attivi qua e là nei loro interstizi: un normale controllo mentre passeggia per strada e poi la mattina dopo ecco una nuova perquisizione a casa e la convocazione in Questura.
Il libro racconta questo, dallo sbalordimento del primo ingresso in cella – nella cella della caserma dei Carabinieri, in condizioni di scarsa accoglienza per usare un eufemismo, e dalle cui sbarre lei scopre di affacciarsi su Prato della Valle, su un marciapiedi dove lei stessa era passata tante volte – alla perquisizione a casa sua, gli anfibi dei militari sulle lenzuola, l’interrogatorio, il trasferimento al carcere della Giudecca, l’isolamento, la prima visita dei suoi genitori un mese dopo, i quali avevano creduto vere le cose scritte sui giornali e invece devono ricredersi, poi la vita del carcere insieme alle altre donne, le condizioni di recluse e anche l’affetto e la solidarietà che si scambiano, per sentirsi un po’ meno sole, e la forza interiore che si scopre d’avere dentro e che forse aveva sottovalutato ma ora cerca di usare al meglio, la vitalità che soffre d’essere trattenuta. E poi cento giorni dopo l’uscita, e la vita che riparte ma continua a svolgersi in quella pausa oramai aperta come da una lama.
Il libro di Maria Vittoria mi sembra come un antidoto per tutti noi. Per lei ha avuto effetti importanti, per lei stessa e per il mondo di relazioni, amici, conoscenti che le stava attorno e dapprima la guardava un po’ strano: perfino la zona dove lei abitava veniva chiamata “la collina della brigatista”, e questo andava sicuramente sciolto, e ora quella definizione può essere ricordata davvero come un equivoco.
Mi piace citare dal suo libro un episodio divertente ma al tempo stesso niente affatto banale, un po’ come quel vecchio slogan di inizio novecento ‘Sarà una risata che vi seppellirà’, che esprime una grande voglia di libertà: «Cerco anche di divertirmi e con una guardiana trimestrale dallo sguardo poco intelligente mi spaccio per una donna bionica: le racconto in modo serio e convincente che io resto lì solo per curiosità, per vedere com’è un carcere, ma che quando voglio posso uscire, basta che io mi concentri e… flot! mi alzo in volo come fosse uno scherzo. Tanto per provarglielo, salgo sullo scalino più alto del pozzo, stringo i pugni, mi concentro, gonfio le vene del collo e… appena alzo i talloni quella mi si butta addosso a prendermi per i piedi. Che inebriante soddisfazione.»
il caso non nasce mai dal nulla, “Il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo”