Libri

I libri di Altrovïaggio

Heautontimorumenos XXI, di Alessandro Seri

Titolo: Heautontimorumenos XXI
Autore: Alessandro Seri
Introduzione di Sotirios Pastakas
Casa editrice: Arcipelago Itaca

Giovedì 28 ottobre alle 21.15, conversazione con l’autore; quarto incontro della rassegna le Marche in Biblioteca 2021.

“Le colpe, proprie e altrui: su Heautontimorumenos XXI”,  Viola Amarelli su Nazione Indiana del 2 luglio 2021.

Nella produzione poetica contemporanea non è raro imbattersi in materiali e moduli della tragedia classica o, quanto meno in suoi echi. Si pensi,  esemplificativamente, al Tiresia di Giuliano Mesa in area italiana o, al di là dell’Atlantico, all’Autobiografia del Rosso, romanzo in versi di Anne Carson. Ma è sicuramente molto meno frequente il riuso delle formule della commedia antica che caratterizza invece l’ultimo lavoro di Alessandro Seri:  Heautontimorumenos XXI (Arcipelago Itaca, 2021). Sin dal titolo è palese infatti il richiamo all’omonima commedia del latino Terenzio (a sua volta calco di un precedente lavoro di Menandro),  nota soprattutto per una celeberrima battuta diventata un brand delle correnti umanistiche a partire dai tempi del circolo degli Scipioni: Homo sum: /  umani nihil a me / alienum puto, qui posta in esergo alla raccolta. La stessa  struttura di quest’ultima – articolata in cinque sezioni, ognuna delle quali costituisce di fatto quasi un poemetto auto conclusivo – rispetta i canonici cinque atti della commedia antica ed una delle sezioni si presenta come “Parodio”, parola giocata, secondo un’intervista dell’autore che del resto è, tra l’altro, autore teatrale, sulla commistione tra  parodia e io dei poeti, ma che richiama anche il parodos, l’atto che segnava l’ingresso del coro sulla scena.

L’alternanza tragico-comica permea tutta la tessitura del libro, che riunisce testi scritti negli ultimi tre lustri, considerato che l’ultimo libro di poesia di Seri risale al 2006, pur se lontano dalla poesia in questi anni l’autore in realtà mai è stato, sia come organizzatore di festival e premi, sia come direttore editoriale e ora fondatore di una casa editrice in proprio. A voler trovare un filo conduttore delle cinque sezioni si potrebbe forse richiamare la “commedia umana” di Balzac, specie nel suo obiettivo di “studio del cuore umano”, qui focalizzato soprattutto sull’elaborazione di un senso di colpa non solo individuale e privato, ma anche collettivo e pubblico, senso di colpa pienamente coerente col significato di heautontimorumenos: punitore di se stesso.

Così  in “Lo scorrere del traffico”  (titolo che sembra quasi una metafora della vita)  compariamo come  …esseri speciali / belli e lucenti, multioriginali,  in realtà Sempre troppo pronti a cogliere la norma / come un bene per poi abbandonarla / quando si richiede di essere normali, mentre in “Inevitabile” l’inadeguatezza di un sé  paterno si traveste da ironica elegia. Il doppio binario di un senso di fallimento  personale e generazionale trapela in molti dei testi (La colpa è mia compagna e non si placa; un cumulo di giuramenti al vento; Coltivi l’enigma di mia generazione / smantellata di coraggio e di reazione) quasi  a redigere un bilancio in controluce dove anche la poesia si palesa  soccombente (A non emanciparsi è stata la poesia / minuta e chiusa in scatola di morte; siamo plurali più del necessario noi / che ci castriamo nei miti del linguaggio; Gli inadeguati stormi dei poetoni / murati tra l’elegia e il cerchio degli occhiali).

In questo contesto si delineano  e sono indagati una pluralità di temi: dagli affetti familiari all’imbarbarimento delle dinamiche sociali, dalle sconfitte e delusioni  politiche all’inevitabile lato oscuro della fine propria ed altrui, sino a una sacralità che affiora dal balenare, non solo in funzione satirica, di riti ed oggetti religiosi   (candele; prete; panche, messa; processione; calice; madonna;  neocatecumeni). La ricchezza polifonica della raccolta trova un suo riuscito equilbrio nella struttura delle sezioni e nell’attenzione costante a una prosodia che riusa forme della tradizione metrica in una chiave estremamente personale, dove  il ‘canto’ elegiaco e l’espressionismo parodico si bilanciano aderendo con estrema misura  alle  esigenze non solo contenutistiche dell’autore. In tale ottica l’ordine, l’ardore, richiamato da Sotirios Pastakas nella sua incisiva prefazione, dà giustamente risalto alla capacità di Seri di coniugare  passioni  e perizia artigianale del labor limae, quasi seguendo una preziosa indicazione di Mandel’štam:  “In poesia, dove tutto è misura, tutto parte dalla misura, ruota intorno alla misura e grazie alla misura gli strumenti di misurazione hanno facoltà particolari, sono portatori di una speciale funzione attiva”. Non a caso, del resto, una delle sezioni del libro si intitola “Musiche”, e tende a sperimentare la possibilità di riprodurre in poesia  tracce di partiture, in una sorta di mimesi sonora di tempi, danze e componimenti musicali. Più in particolare l’andamento strofico di gran parte dei testi, la presenza di versi ipermetri, l’uso frequente di  settenari, ottonari e novenari, l’emersione, specie nelle poesie satiriche,  di lemmi in lingua ‘locale’ (si veda ad esempio “Sirvio” nella sezione “Parodio”) contribuiscono a rivitalizzare una tradizione che risente dell’influenza delle laudi e dei cantari della poesia medievale (si veda ad esempio la citazione da Jacopone da Todi: Ioanni figlio novello / morto s’è ‘l tuo fratello) innovandola con le odierne tensioni performative.

Il tema della trasmissione, della consegna – che è l’etimo di tradizione – si dispiega  inoltre chiaramente nell’ultima sezione del libro, “L’albero”, una galleria genealogica che parte dalla figura del trisavolo per arrivare sino ai figli, saltando volutamente l’autore, peraltro ritratto di sbieco nelle risonanze di posture e di caratteri che animano tutti questi padri, contadini, emigrati di ritorno, sarti, in gran parte schivi e solitari, in una ricostruzione anche territoriale di un paese che muta da un risorgimento contadino a un …fazzoletto bianco / lavato giù la fonte / dal sapone fatto col maiale, da una carrozza bianca sino alla scocca rossa di un centoventiquattro. Non che manchino le tensioni bene o male presenti in ogni rapporto genitoriale: restano alcune piaghe, storiche ferite / una competizione amara che rifuggo / la tua non linea dritta, il tuo superfluo. Pure, trasmettere, consegnare implica un vaglio valoriale di ciò che si ritiene significativo e ciò che invece andrebbe abbandonato: il coraggio che è cosa rara, l’idolo del dimostrarsi fermi e, soprattutto,  richiede la capacità di  tramandarlo (io non vorrei pesarti ma esserti d’aiuto / di lato affianco parecchio defilato / con gli occhi suggerirti, suggeritore muto) in una relazione che implica sempre una reciprocità di scambio, anche di fronte a una neonata ultimogenita che insegna come gestire la sconfitta, semplicemente riflettendosi nei suoi occhi neri e nel richiamo e sunto dei sorrisi.

 

Quel maledetto Vronskij

Titolo: Quel maledetto Vronskij
Autore: Claudio Piersanti
Casa editrice: Rizzoli

Giovedì 21 ottobre alle 21.15, conversazione con l’autore; terzo incontro della rassegna le Marche in Biblioteca 2021.

“Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij”, Luigi Grazioli su DOPPIOZERO del 7 aprile 2021.

Giovanni è un tipografo di mezza età che dopo il licenziamento dalla grande azienda in cui lavorava, ha aperto una piccola attività in proprio per poter continuare il lavoro che costituisce la passione della sua vita. È un uomo mansueto, tanto gentile da avvertirlo come una debolezza, sposato con Giulia, una donna intelligente e ancora molto bella, che non ha mai capito come avesse potuto scegliere e amare intensamente proprio lui. La coppia vive in grande armonia e tranquillità in una villetta suburbana, con un piccolo giardino che lei cura amorevolmente, finché un giorno “il male [entra] nella loro casa”. Giulia si ammala gravemente e la malattia, anche se viene apparentemente superata, lascia dei segni nel loro rapporto che però entrambi, delicatamente, cercano di nascondere all’altro. Fino a che un giorno Giulia sparisce senza motivo né spiegazioni, dopo che la notte prima avevano fatto l’amore con grande tenerezza. Allora per quell’uomo in fondo semplice che è Giovanni (ammesso che un essere umano possa essere semplice), comincia un periodo di disorientamento totale, che lui cerca di controllare perseverando nella sua routine. Un giorno, per occupare il tempo e tener vivo il ricordo, decide di scegliere a caso uno dei libri della moglie, grande lettrice al contrario di lui che ha sempre e solo letto le pagine che doveva comporre badando unicamente alla corretta forma linguistica e tipografica, e di copiarlo tutto, per farne un libro unico, bellissimo, curato in ogni dettaglio, per quando lei tornerà. Mentre lo ricopia con sempre maggiore partecipazione, gli sembra di trovare nelle sue pagine una specie di premonizione di ciò che sta vivendo. Il libro è Anna Karenina, che come è noto ha uno degli esordi più famosi di tutta la storia della letteratura (”Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice invece è infelice a modo suo”), che a mio parere è stata una delle molle che hanno indotto Claudio Piersanti a scrivere questa storia, per verificare quanta verità la sentenza contiene. A colpire Giovanni però non è la protagonista, che non assomiglia per nulla alla moglie scomparsa, quanto la figura di Vronskij, il seduttore di Anna, che si insinua nel suo mondo mentale come incarnazione di tutto ciò che lui non è, bello brillante e affascinante, e che può aver allontanato da lui la donna che continua ad amare più che mai.

Pian piano Giovanni quasi senza accorgersene sovrappone ciò che gli capita a ciò che trascrive (come lo scrittore ha presente ciò che ha letto quando scrive, fosse pure nella forma dell’oblio): trova nel libro di Tolstoj, in filigrana, alcune delle situazioni che sta vivendo e gli strumenti per cercare di capire, naturalmente in modo illusorio e arbitrario. Perché ciò che vive è effetto più di ciò che immagina, che di ciò che sa; e lui immagina sul filo non della realtà, ma di ciò che è scritto. Vronskij diventa la chiave per provare a interpretare prima ciò che immagina accada alla moglie, poi quello che accade dentro di lui, e infine cosa a tutto questo è sotteso, come destino. Dallo statuto di personaggio passa a quello di strumento ermeneutico, assurge a simbolo polivalente, a categoria, e quasi a entelechia. È la personificazione della minaccia, dell’inquietudine, dell’elemento senza coscienza morale che incombe, stravolge e porta alla distruzione. Alla fine troverà il suo vero nome, che non rivelo per la ferrea legge antispoiler. (La morte, detto in camera caritatis.)

Quel maledetto Vronskij, che racconta questa vicenda, è un libro struggente, senza contenere un solo passaggio sentimentale. Si tratta del resto di una caratteristica di Piersanti, che non si ritrae davanti ai temi forti, e anzi li va a cercare, e li affronta, sempre, insieme con adesione e distacco. Li prende sul serio, cioè, e proprio per questo se ne discosta per guardarli in faccia, con forza pacata, che però non ha nulla della distanza cinica, che semmai è presente solo nelle parole di alcuni personaggi. La voce narrante è impersonale, onnisciente, anche se prevale in buona parte del libro (dei libri di Piersanti) una specie di focalizzazione interna a uno o due dei protagonisti, di cui vengono seguiti moti d’animo e pensieri con una specie di discorso indiretto semilibero, se mi è concessa l’approssimazione: cioè libero nelle associazioni dei pensieri di personaggi, ma filtrato da una prosa asciutta, cadenzata in un ritmo di grande presa proprio in quanto piano, misurato nel tono, ma non freddo né mai sopra le righe nemmeno nei momenti più aspri, che evita sistematicamente la tentazione di sussulti vistosi e la ricerca di detti memorabili, nel senso letterale di questo termine. Vertici che non mancano, ma che nella lettura passano inavvertiti e arrivano a segno solo dopo, con un sottile quanto incisivo effetto di ritorno. Lo stile, in questo libro più che in altri, pur severo, è soffuso di tenerezza, oggettivo e al contempo partecipe; la sofferenza, i dubbi e le trepidazioni di Giovanni hanno la sua voce, che però giunge a noi smorzata, raccontata dall’esterno in virtù non solo della prospettiva “oggettiva” adottata da Piersanti, ma ancor più dal fatto di non essere disgiunta, come gli altri sentimenti del resto, dalla minuzia discreta della narrazione degli eventi quotidiani e dei gesti e dei luoghi. La scelta della terza persona, apparentemente tradizionale, che incornicia e dà il tono alla parziale focalizzazione interna laconica come la personalità del protagonista, è funzionale a questa resa. Perfetta, senza sbavature, senza una parola superflua, come avviene in quello che secondo me resta il capolavoro di Piersanti, Luisa e il silenzio.

Anche la sintassi contribuisce all’arginamento del sentimentalismo che l’argomento del libro potrebbe favorire, e del lirismo che pure è presente, quasi reticente ma intenso, specie quando lo sguardo si dirige sulla natura. Il ritmo è scandito da frasi brevi, ma non elementari se non nel senso di essenziali; la scarsità di concatenazioni e di subordinate anziché sintomo di piattezza o ricerca forzata di linearità, è l’effetto primario di uno stile ellittico e direi concentrato, dove il tasso di taciuto (di silenzio) si arricchisce di tutte le relazioni possibili. Il risultato è una scrittura piana, ma tutt’altro che semplice. La lettura richiede una certa lentezza: impossibile pattinare da una frase all’altra, correre a ciò che succede, perché ciò che succede non è tanto, e in mezzo c’è tutto. Invece di un flusso il lettore si trova di fronte a un susseguirsi di monadi, ciascuna conclusa e perfetta, che spetta a lui mettere in relazione, ma in modo autonomo, richiesto, e quasi imposto, dal ritmo stesso della narrazione, pacato e implacabile, che nella elementarità della sintassi semplice e perlopiù paratattica trova l’impulso, anziché l’ostacolo. Come se la punteggiatura avesse una sua temporalità continua, diversa da quella pausata o anche sincopata che a volte la brevità produce, un suo armonico respiro privo di sbalzi e cadute.

L’assenza di commenti, e di ogni dimensione meta- tipica di tanta narrativa modernista e contemporanea, non esclude, per esempio, la possibilità di una lettura in tal senso almeno per alcuni aspetti della figura del protagonista. Infatti è difficile non leggere nella professione di tipografo del protagonista, così ossessionato dalla correttezza dei testi e dalla perfezione dell’impaginazione un’immagine dello scrittore, non per forza autobiografica. E nel suo licenziamento a causa delle innovazioni tecnologiche, così come nel suo declassamento fino all’abbandono della piccola bottega tipografica artigianale un‘allusione alla perdita di ruolo e di significato dello scrittore.

E ancora nel quasi religioso, monacale, lavoro di copiatura di uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale l’allusione più che quella esplicita alla devozione per la bellezza che ogni attività artistica comporta, a quella alla memoria e al confronto con le opere del passato per cui l’agire artistico passa pur senza farne diretto oggetto di riflessione all’interno dell’opera. Giovanni si limita a copiare, Piersanti si confronta. E scrive la storia di un matrimonio per quanto possibile felice. Cosa dichiarata noiosa da Tolstoj, con la sua sentenza diventata cliché universale, come peraltro meritano il suo sensazionalismo e la sete di applausi implicita. (Certo che colpire colpisce, però!)

Piersanti invece con questo libro sembra voler smentire Tolstoj. Quella che racconta è la storia di una coppia felice, una coppia piccolo borghese, presa nella sua medietà e mediocrità (nell’eccezionalità che in ogni medietà si cela e che a nessuno viene in mente di cercare), senza nessuna inflessione di ironia, da cui del resto Piersanti si guarda bene in tutte le sue opere, per quanto crudeli possano essere le storie che racconta: gli ideali di fusione che la coppia di sposi persegue e nel complesso raggiunge, la creazione di un piccolo mondo chiuso, a sé (amore, casa, famiglia, lavoro, svaghi, ambizioni, con poche amicizie fedeli e di lunga data), autosufficiente (persino la lontananza della figlia che ormai vive all’estero è vissuta senza patemi: così è, così stanno le cose…), non hanno nulla di meschino, sono ciò che hanno deciso insieme di perseguire e che fanno di tutto per raggiungere, in modo quieto, nonostante amarezze anche intense, come il licenziamento di Giovanni da un lavoro in cui aveva riposto tutte le sue ambizioni e la malattia di Giulia. Giovanni e Giulia sono la coppia scissa di Aristofane che ha avuto la fortuna di incontrarsi e non ha nessuna intenzione di lasciarsi più dividere, che trova modo di vivere questa fusione pur mantenendo ciascuno la propria personalità, fino all’arrivo di quello che Giovanni chiamerà Vronskij, e più ancora dopo, superata la separazione: le prove che ne scaturiscono, e la sua minaccia sempre incipiente e che prima o poi tornerà (ma non è detto che dovrà essere una catastrofe a cui passivamente soccombere), quando le sue metamorfosi a partire da quella iniziale della gelosia riveleranno il suo vero volto di morte con la paura che essa comporta, alla fine verranno riconosciute e affrontate, non insieme, perché infine ognuno deve affrontarle da solo, ma uno accanto all’altra, ciascuno sapendo e accettando la presenza dell’altro.

C’è sempre un Vronskij che mina la felicità. A cominciare dal Vronskij insito nell’idea stessa di felicità. Non esiste la famiglia felice, soltanto un osservatore superficiale ne vede qualcuna, e la vede perché vuole vederla, per invidia, per sarcasmo, o per darsi un’illusione, e un obiettivo. Ogni famiglia è infelice, in diverso grado. Per fortuna esiste l’oblio. La cancellazione, la tolleranza, la pazienza. E pure l’amore: la nebulosa di cose che questa parola contiene, e che quindi è opportuno evitare. (Evitare di nominare, beninteso…)

Soltanto i romanzieri dell’800, e i loro eredi odierni, fanno ancora queste distinzioni. Non si occupano di quelle che a loro sembrano famiglie felici perché appunto le trovano monotone, cioè senza niente di particolarmente attraente da raccontare, e pertanto, più o meno apertamente, le disprezzano. Non c’è luogo, in esse, per le emozioni forti, che bramerebbero i lettori, o loro stessi che non sanno scrivere altro. Ma ogni giorno è un susseguirsi di colpi di scena. Ogni giorno c’è il dolore; e la morte all’orizzonte. Ogni giorno qualcosa manca, affanna, preoccupa, si incrina e minaccia di spezzarsi e difatti si spezza, anche nelle relazioni cosiddette felici. Anche senza fare troppe scenate o clamore. Senza altro rumore che non sia quello avvertito da colui o coloro per i quali quella cosa, minima o grande, si spezza, da colui e coloro che sono incrinati e spezzati.

C’è la sofferenza, che spesso resta inespressa e a volte si nasconde per volerla risparmiare all’altro, che invece soffre di non poterla condividere e si sente escluso proprio laddove vorrebbe poter far sentire la propria presenza, intervenire, alleviare se non curare. Non tutto può essere detto, eppure è proprio questo silenzio a essere più doloroso. A escludere la comunanza, l’intimità da cui pure era nato. E chi così esclude, al pari di chi è escluso, come Giulia e Giovanni, soffre di questa esclusione e non sa come venirne a capo, e in tal modo approfondisce tanto l’esclusione che il dolore. Allora cerca nel silenzio qualche possibile spiegazione, ma nessuna è all’altezza né di chi tace e se ne è andato, né di chi non fa che pensarci e vuole un senso per l’abbandono. Tanto più che, come Piersanti scriveva già nel precedente, potente, La forza di gravità, “non ti abbandona mai uno soltanto, a un certo punto ti abbandonano tutti”. Ma poi “[d]opo l’abbandono viene la forza”.  A volte, quanto meno. Perché anche qui risiede la possibilità, se non di una salvezza, almeno di una diversa, nuova, e forse più matura, condivisione, senza parole, dopo che le poche indispensabili saranno state dette, ancora inquieta, ma per l’altro, non per sé, quasi serena, accettata. Piersanti racconta questa storia. Il suo libro è bellissimo.

 

Le dieci battaglie della storia di Ancona

Titolo: Le dieci battaglie della storia di Ancona
Autore: Sergio Sparapani
Casa editrice: affinità elettive

Giovedì 14 ottobre alle 21.15, conversazione con l’autore; secondo incontro della rassegna le Marche in Biblioteca 2021.

Alcuni appunti sul libro, a cura di Tullio Bugari

«… qual è il ruolo della nostra sonnacchiosa città sita a margine del mare Adriatico? Uno sguardo a volo d’uccello non dovrebbe lasciare dubbi: Ancona è da almeno 2.400 anni un sito strategico. “La posizione militare è ottima sotto tutti i punti di vista” scrisse nel 1799 un ufficiale del genio austriaco. Più di sessant’anni più tardi, nel 1865, un rapporto riservato che un altro militare austriaco, tal maggiore Franzl, invia al suo comando, esprime la preoccupazione per il potenziamento del porto (…) la conformazione urbanistica cittadina è sempre stata, infatti, condizionata dalle finalità belliche;  i progettisti hanno disegnato la città moderma tenendo conto delle prospettive offensive e difensive offerte dalla sua invidiabile posizione geografica ma anche dalla presenza di sorgenti, pozzi e cisterne in grado di sopperire al fabbisogno di acqua potabile nel corso di un assedio (…) una città difficile da catturare se gli assediati, pur inferiori di numero, trovano la forza e la volontà di resistere come accadde nel 1799 e nel 1849 (…); a fronte di offensive restauratrici che vedono cadere una a una le piazzeforti ribelli lungo la penisola, tra le tante città Ancona è quasi sempre l’ultima  a cadere, (eppure) nella storia il ruolo e il valore di Ancona, e più in generale delle Marche, è sempre stato sottostimato (…) si fa fatica a trovare accenni ad Ancona nelle migliaia di pagine di un’opera in ben otto volumi curata da Lucio Villari nel 2007 e intitolata “Il Risorgimento”…»

Sintetizzo così alcuni passaggi estratti dall’introduzione scritta dallo stesso autore. Ho letto il libro nelle ultime settimane, ma la parola “leggere” è più consona ad un romanzo, un diario o magari un reportage, non mi sembra invece la più adatta in questo caso, trattandosi piuttosto di un libro da “consultare”, estrarre dalla propria liberia di tanto in tanto per tornare ad approfondire episodi, aspetti, personaggi, ce ne sono tanti in azione, o anche angoli della città aggiungerei in questo caso. E la consultazione può essere anche “doppia”, in lettura e in visione, perché il testo è arricchito da moltissime immagini, riproduzioni di carte topografiche, di quadri, ritratti, documenti, foto di ieri e di oggi; è una vera galleria quella che accompagna i testi e ti invita a percorrerla anche autonomamente dalla lettura, come se il libro stesso, con i vari testi e poi con le tante immagini, ci offra volutamente tanti elementi diversi, che possiamo fare nostri un poco alla volta, per poi ricomporli gradualmente insieme nella nostra immagine della città.

Insomma, siamo quasi invitati a fare dentro di noi un po’ come è stato per la storia stessa della città, che riscopriamo come il risultato di più stratificazioni, interventi urbanistici  dagli scopi strategici, distruzioni per le battaglie e ricostruzioni nelle quali si inseriscono anche nuove esigenze sociali, o di espressione culturale. Stratificazioni di vicende che non sono solo guerresche, cioè di tipo tecnico militare e pertanto asettico, ma sempre dense di umanità e di persone che vi sono immerse, con il loro sentire e le loro passioni. Anche nell’evolvere della forma delle passioni nel corso del tempo, dagli ideali delle nuove libertà al tempo della repubblica romana o a quelli risorgimentali, passando anche per quel qualcosa di refrattario che anima la settimana rossa o anche la rivolta dei bersaglieri; le anime stesse della città si mostrano come stratificazioni diverse, che s’intrecciano, emergono e poi tornano a restituire al “terreno” della città il loro diverso carico di sensazioni. Compresi i tanti momenti tragici, alcuni non così lontani dal sentimento che ne avvertiamo ancora oggi, come i bombardamentio dell’ultima guerra, con quelle vittime che non si potè nemmeno estrarre da quel “terreno” per molti anni, e delle quali forse non si sa con certezza nemmeno oggi il numero esatto.

Nel libro c’è davvero molto, perché, pur con le emozioni che ci stimolano, è comunque il risultato di un complesso e lungo lavoro di ricerca, che ci restituisce nomi, date, luoghi, citazioni di documenti e lettere, di numerosi episodi anche minimi o marginali che però caratterizzano e completano la narrazione, e poi approfondimenti tecnici, spiegazioni, e insieme anche curiosità e aneddoti.

Il libro si compone di dieci capitoli, uno per ciascuna delle battaglie scelte per costruire questa narrazione – e scegliendo di limitarsi, per forza di cose, all’arco di tempo della storia contemporanea -, dall’assedio del 1799 al tempo della repubblica romana, all’insurrezione del 1831, inserita di nuovo nelle vicende nazionali, e quindi all’assedio del 1849, per una nuova epopea repubblicana. Tre battaglie in modi diversi tutte contro “il papa re”, che poi trovano un parziale epilogo nella battaglia di Ancona del 1860, al tempo della battaglia di Castelfidardo  e dell’arrivo del re Vittorio Emanuele. Non si tratta solo della storia della città, sottolinea l’autore, ma di tutto il territorio delle Marche o almeno di questa parte della regione, perché sempre le battaglie che hanno riguardato la città sono state preparate, dai vari eserciti o governi di volta in volta interessati, conquistando le vie d’accesso o le zone limitrofe. La battaglia di Castelfidardo non è un episodio locale del paese che ne porta il nome ma dev’essere inserita in un quadro territoriale unitario e più ampio. E in un quadro ancora più ampio ecco la battaglia di Lissa, raccontata nel quinto capitolo. Poi non può mancare l’anima sovversiva e anarchica, irriducibilmente refrattaria – se si fa attenzione forse se ne può cogliere ancora oggi il respiro, se non nelle intenzioni coscienti magari nei linguaggi stessi o nei gesti – e quindi ecco la settimana rossa del 1914 e poi la rivolta dei bersaglieri del 1920. Nel mezzo però l’autore dedica un capitolo anche al bitz del 24 maggio del 1915, perché – guarda un po’ – Ancona fu “la città dive fu sparato il primo colpo” della grande guerra. Gli utlimi due capitoli sono dedicati alla Seconda guerra mondiale: sia alla campagna dei bombardamenti del 1943 e 1944, a cui ho già accennato; sia la battaglia per la liberazione di Ancona con le truppe polacche guidate dal generale Anders. E qui di nuovo dobbiamo allargare lo sguardo all’intera battaglia, includendovi la precedente battaglia di Filottrano, neanche questo un episodio locale casuale, ma proprio perché necessario a preparare il passo successivo.

Mi si conceda  qui un innocente incursione personale: qualche tempo fa, spinto come sempre dalle mie caotiche  curiosità, sono salito sul monte della Crescia, un’altura presso Offagna dove pare che anche i Longonbardi attorno all’anno mille avessero piazzato una loro rocca – e vi sono collegate anche leggende popolari che un po’ resistono perfino oggi. Su quell’altura, da dove si apre una vista a trecento sessanta gradi, ho scoperto che il generale Anders spostò per alcune ore il suo comando mentre, provenendo da Filottrano, dirigeva la battaglia di Ancona, e infatti da lì si percepisce in modo immediato la “geografia” della battaglia.

Monte della Crescia a parte – che comunque, ovviamente, ho trovato citato da Sparapani – il libro offre anche uno stimolo diretto a girare e camminare per l’Ancona odierna. Ciascuno dei dieci capitoli si conclude con un paragrafo, “I luoghi della memoria”, che ci offre indicazioni sulla città oggi, e così scopriamo – o forse è meglio dire rammentiamo, perché magari ce ne siamo soltanto un po’ dimenticati – che pur nelle tante distruzioni, anche più vicine e non solo i bombardamenti dell’ultima guerra, ma poi ancora  il terremoto del 1972 o la frana di Posatoria dei primi anni Ottanta, esistono tanti luoghi “quasi” intatti, all’interno della città eppure quasi ai suoi margini, o nascosti, lasciati più o meno in disparte o utilizzati solo per eventi particolari, sulle sue alture, dalla Cittadella, al Forte Altavilla, al Cardeto e al vecchio faro e così via, potrei elencarne molti altri ma perdonatemi, io non sono nemmeno di Ancona, ma credo che se si ha la pazienza, e il sentimento, di visitarli nei momenti più sonnacchiosi dell’anno, possiedano ancora quel pizzico di magia capace di portarti ancora dentro altre dimensioni temporali.

 

 

 

La linea delle cure

Titolo: La linea delle cure
Autore: Mauro Proietti Pannunzi
Casa editrice: Seri editore

Giovedì 7 ottobre alle 21.15, incontro con l’autore, in apertura della rassegna le Marche in Biblioteca 2021.

La recensione di Adriano Raparo

Tanti sentimenti, tante emozioni in meno di cento pagine. Quelle di La linea delle cure (Seri Editore, 10 €), commovente diario su un anno di covid, scritto da Mauro Proietti Pannunzi, medico anestesista a Villa dei Pini di Civitanova Marche.

Oltre al diario dell’autore – dal 17 febbraio al 9 maggio 2020 – che occupa le prime 43 pagine, il libro comprende gli interventi di quelli che nel sottotitolo vengono definiti una banda di fratelli. La banda che, in fondo al volume, verrà dettagliata con metafora marinara: a partire dall’Armatore (l’amministratore delegato), Enrico Brizioli, passando per la Capitana, la direttrice sanitaria Nicoletta Damiani, per gli Ufficiali di guardia e gli Ufficiali di sala macchine, il Commissario di bordo e via navigando fino agli infermieri, i Marinai di prima classe.

Il dottor Proietti fa rivivere al lettore le sensazioni provate nel corso della battaglia in prima linea contro il morbo.

Ricorda la trepidazione iniziale: “Ormai si sa. Il coronavirus ha invaso l’Italia. E noi? Cosa potremo fare? Le notizie si rincorrono. Faremo quello che in ospedale non possono più fare? Vorranno che allestiamo una rianimazione? Accoglieremo pazienti sani?”.

Rammenta l’emozione nell’apprendere dell’arrivo della prima paziente: “Sono sul corridoio dell’amministrazione, deserta, alle quattro del pomeriggio. Nicoletta, la nostra direttrice sa-nitaria “capitano”, mi guarda e mi dice, con il timore di comunicarmelo: «Mauro, tra poco arriva la nostra prima paziente.» Sapevo che quel momento sarebbe arrivato. Ma è lo stesso un pugno allo stomaco”.

Rievoca la paura per la prima visita: “Cerco di mostrarmi disinvolto e sicuro. Devo dare il buon esempio. Ma mentre mi infilo la tuta il cuore sembra impazzire. Mi ripeto: stai calmo, segui le regole, andrà tutto bene. Entro nella stanza cercando di non pensare che quella an-ziana donna che sto andando a visitare è diversa da tutte quelle che in tanti anni ho visto e che mi appare come una minaccia incombente. Mi faccio portare l’ecografo, mi concentro sulla sonda e sulle scansioni da fare. Vorrei restare il meno possibile lì dentro. Ma c’è da fare la cartella, l’anamnesi, un minimo di esame obiettivo. Torno in infermeria. Scrivo tutto con cura. Poi la svestizione con un senso di sollievo e il timore di sbagliare qualcosa”. Così il diario quasi quotidiano va avanti, come si è detto, fino al 9 maggio 2020, giorno in cui viene dimesso l’ultimo paziente.

Altrettanto emozionanti sono i racconti degli altri componenti della ciurma, anche se compressi nel breve spazio di una o di due pagine. Numerosi interventi andrebbero citati, ma ci si deve limitare a qualcuno.

Potente è quello dell’anestesista Mauro Perugini che ricorda due errori di procedura che nel corso della carriera lo hanno impaurito grandemente. Una volta ebbe la paura folle di aver contratto l’Hiv dopo essersi punto con la siringa usata per fare un prelievo a un tossicomane; questa volta… Ma lasciamo a lui la parola: “A questo punto l’errore: staccando la maschera fissata con il cerotto, l’ho fatta battere sul viso. Poi istintivamente mi sono anche toccato il viso. Con i guanti sporchi. Ancora una volta brutti sogni e veglie notturne mi attendevano nella mia camera in quarantena. Poi il tampone. Anche ora negativo”.

Lieve e ironica, invece, è la chiusa del contributo dell’infermiere Roberto Leoni che nel post scriptum dice che si era già accorto di un precoce invecchiamento dalla caduta dei capelli e dal loro imbiancarsi, ma che pur non potendo andare in bagno per ore e ore il pannolone no, a 45 anni non era ancora giunto il momento di indossarlo.

Molti degli interventi sono accomunati dalla tristezza di dover vivere isolati dai propri familiari, specialmente dai bambini, per timore di infettarli.

Ma tutti i racconti ci mostrano quanto sia grande il debito di riconoscenza che abbiamo nei confronti di coloro che ogni giorno lavorano per noi rischiando la propria salute. Riconoscenza che nel caso in questione va a chi si prodiga in una clinica privata, così che il lettore chiudendo il libro non può che convenire col dottor Proietti che nella sanità privata non si fanno solo nasi e tette.

Di seguito, l’intervista all’autore del tgr Marche:

Giulio fa cose

Titolo: Giulio fa cose
Autore: Paola Deffendi e Claudio Regeni, con Alessandra Ballerini
Casa editrice: Feltrinelli

Dal sito Questione di Giustizia: l’articolo di Rita Sanlorenzo del 14 marzo 2020.

Da più di quattro anni ormai la tragedia di Giulio Regeni, rapito torturato ed assassinato a Il Cairo, dove stava svolgendo una ricerca sui sindacati autonomi degli ambulanti su incarico dell’Università di Cambridge, non trova un finale. Da più di quattro anni i suoi genitori, Paola Deffendi e Claudio Regeni, senza cedere alla fatica ed allo sconforto, insistono con coraggio e determinazione nel chiedere quello che a loro è dovuto: verità, e possibilmente, giustizia. Uscito nel quarto anniversario della morte del loro figliolo, il libro “Giulio fa cose” è sì il reportage angosciante di una battaglia contro il muro opposto dalle autorità egiziane alla giusta pretesa di individuare gli assassini di Giulio; è anche la cronaca dell’atteggiamento ondivago, anzi ambiguo dello Stato italiano che sembra avere sacrificato ogni serio intento di affiancare questa famiglia nella ricerca di una risposta ai loro interrogativi alla “ragion di Stato” (che poi null’altro è che la sudditanza alle leggi di mercato e dello scambio economico); ma a ben vedere, è soprattutto la rivendicazione orgogliosa di un padre e di una madre di avere dato al loro amato figlio gli strumenti, e la curiosità, per sentirsi cittadino di questa modernità senza confini, che va a cercare la conoscenza lontano dal proprio ambiente di origine.

Non sta certo in questa ansia di conoscenza, da cui fin da piccolo Giulio era stato spinto a guardare lontano da casa, la causa, nemmeno remota, della sua fine: anzi, il loro Giulio era come tanti giovani che oggi scelgono di mettere in gioco le loro vite senza il comodo paracadute della sicurezza familiare per farsi, come scrivono loro, “costruttori di pace”. I signori Regeni hanno potuto verificare in questi anni, grazie ai tanti incontri con un largo pubblico che ogni volta esprime solidarietà, empatia, sostegno, che ormai Giulio è diventato un simbolo per tanti: perché in tanti hanno capito che quello che è successo a Giulio sarebbe potuto succedere “a qualsiasi persona che si mette a voler sinceramente e con impegno approfondire i temi delle politiche sociali, sviluppo economico e diritti umani, in paesi dove la tutela dei diritti è carente e necessiterebbe di sostegno da parte delle organizzazioni e delle politiche europee e mondiali” (pag. 75).

Queste frasi suonano oggi così lucidamente premonitrici, mentre si protrae in Egitto la prigionia senza prove di un altro ricercatore, Patrick Zaky, la cui detenzione nelle carceri egiziane prosegue di quindici giorni in quindici giorni senza alcuna formalizzazione di accuse precise nei suoi confronti. Uno sfregio ulteriore da parte di un regime autoritario che si fa beffe di ogni rispetto dei diritti umani non solo dei suoi cittadini ma anche di quelli di coloro che lo visitano per ragioni di studio. L’evidenza è tragica, e riguarda l’assenza di una comunità internazionale che possa far sentire la sua voce di fronte alle violazioni più plateali del rispetto della vita umana e della garanzia della libertà del singolo. Riguarda, anche in questo caso, l’assenza della politica, incapace di compiere delle scelte che non siano quelle più meschinamente dettate dalla convenienza spicciola e dall’immediato profitto di agenti economici impersonali e a cui, come tali, non si può nemmeno addebitare l’assenza di ogni senso etico.

Eppure del delitto di Giulio se ancora non si conoscono gli autori materiali, si sono accertati alcuni elementi a corredo, molto significativi: uno fra tutti, il feroce tentativo di depistaggio posto in essere dalla polizia egiziana, costato la vita a cinque innocenti indicati nell’immediatezza come i suoi assassini, inscenato come soluzione del mistero di quella fine, con tanto di ritrovamento dei documenti di Giulio. Una orrenda montatura, svelata grazie anche alla paziente opera dei magistrati italiani che hanno proseguito le indagini pur in assenza di ogni collaborazione da parte della procura egiziana, nonostante le dichiarazioni ufficiali di massima disponibilità. Una paziente opera che ha portato nel 2018 all’iscrizione nel registro degli indagati di cinque tra poliziotti e membri della National Security che avrebbero avuto un ruolo tanto nel sequestro quanto nel depistaggio messo in atto dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio: atto che però non ha ottenuto alcun riscontro da parte della autorità giudiziarie egiziane, che non sembrano più occuparsi del processo.

Si aspettano entro il 30 aprile 2020 gli esiti del lavoro della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio istituita presso la Camera dei deputati, che dovranno fornire alcune risposte alle giuste richieste che l’opinione pubblica rivolge allo Stato italiano.

La tenace battaglia dei genitori di Giulio, affiancati dall’avvocata Alessandra Ballerini, che negli anni non hanno mai smesso di sollecitare, interpellare, lottare contro il silenzio da cui forse ci si aspettava che questa vicenda sarebbe stata coperta prima o poi, non sembra destinata a finire presto. Ma ormai entrambi sono ben consapevoli di non agire solo per sottrarsi ad un destino personale crudele ed insensato, ma in nome di una collettività più vasta che si identifica in un senso di umanità e di ribellione all’assolutismo di un potere dittatoriale che pretende l’impunità per i suoi crimini, anche i più assurdi ed ingiustificabili.

Giulio continua a fare cose, perché aggrega attorno a sé una comunità proiettata verso il futuro, che non verrà fermata dalla violenza e dalla brutalità dittatoriale e che anzi continuerà ad agire e ad operare per la costruzione di un mondo che riconosce valore alla persona umana, tanto più in quanto impegnata nella ricerca e nella diffusione del sapere. E tanto più in questa epoca di contagio pandemico, in cui al senso di responsabilità di ognuno è affidato anche il bene della salute, e della vita, degli altri, dovrebbe risultare ben chiaro a tutti che il destino dell’ “altro da noi” comunque ci riguarda, segna le nostre vite e contribuisce a costruire il futuro del mondo in cui siamo destinati a vivere noi e i nostri figli. E questo Paola e Claudio ce l’hanno ben presente: sottraendosi alla gabbia del ruolo di vittime, dopo avere conosciuto sul volto del loro ragazzo torturato ed ucciso “tutto il male del mondo”, continuano a battersi non solo per Giulio, ma per l’affermazione di un’esigenza universale di verità e giustizia. E per questo tutti dobbiamo loro una profonda gratitudine.

“Un complicato atto d’amore” di Miriam Toews, Marcos y Marcos editore

Titolo: Un complicato atto d’amore
Autore: Miriam Toews
Casa editrice: Marcos Y Marcos 2005

Mercoledì 6 novembre ore 21.15, presso la Salara (Biblioteca Planettiana di Jesi, il primo incontro del circolo di lettura edizione 2019/2020).

(tratto dall’articolo di Ombretta Romei, “Intervista con Miriam Toews: una donna che parla (e scrive)”, dal sito Pulp libri)
«Già. New York. Lontana anni luce da Steinbach, la cittadina canadese dove una comunità mennonita mette radici agli inizi del Novecento, sfuggendo alle persecuzioni bolsceviche, ai massacri, all’estinzione. E dove Miriam Toews è nata e ha vissuto la sua adolescenza. Libri interdetti, balli proibiti, parole impronunciabili: un oscurantismo di stampo maschilista e patriarcale che non ammette deviazioni. Il verbo di Menno Simons (1496-1561), storico fondatore della setta anabattista, è più che legge. È una visione (distopica) del mondo. Campi di granoturco a perdita d’occhio delimitano i confini della piccola città, isolandola da tutto, così come pensieri impuri, atteggiamenti trasgressivi, tentazioni mondane isolano i sognatori in odor di eresia e di scomunica. Le chiavi del paradiso e le vite degli abitanti di Steinbach sono nelle mani di pochi fanatici capi religiosi, teorici e praticanti di un fondamentalismo anacronistico.
1980. East Village «è come un set del cinema, non può succedere niente di vero. È un paese fantasma, l’isola che non c’è» afferma la sedicenne Nomi, protagonista di Un complicato atto d’amore (2004), alla cui voce monologante Miriam Toews affida il racconto di sé e della propria «complicata» adolescenza. Il nome fittizio della sua città natale è un omaggio a New York, a un quartiere – dove Nomi vagheggia di passeggiare nientemeno che in compagnia di Lou Reed! – a una cultura, a uno stile di vita. Agognati, paradossalmente, quanto un elenco telefonico: niente di meglio se può servire a scrollarsi di dosso anni di letture (e immaginario) fantasy, villaggi hobbit e colline dei conigli. Con una Main Street ai cui estremi svettano una statua di Gesù che assomiglia a George Harrison e un tabellone gigante con scritto SATANA È TRA NOI. Scegli: o lui o me, East Village evoca una small town bradburyana: luogo di passaggio di uomini illustrati e freaks circensi, presenze perturbanti contro le quali nulla possono gli incantesimi di elfi e streghe bianche.
La fuga è, allora, un sogno. Un’intenzione. Una necessità. Dopo la scomunica di Tash e Trudie – la sorella maggiore e la madre di Nomi – il loro forzato abbandono della comunità mennonita lascia un vuoto incolmabile nella casa dove una figlia convive con i malinconici silenzi di un padre inconsolato. Solo un atto d’amore, salvifico e imprevisto, condannerà finalmente Nomi allo status scandaloso di outsider.»

“La Simeide. Una lotta vincente”

Titolo: La Simeide. Una lotta vincente
Autore: Tullio Bugari
Casa editrice:  SeriEditore

GIOVEDÌ 31 ottobre ore 21.15, per l’ultimo appuntamento con Le Marche in Biblioteca edizione 2019, presentazione del libro sulla storia  della Sima di Jesi nel Novecento, con la ricostruzione della lunga vertenza tra gli anni Settanta e Novanta, la mobilitazione operaia, il supporto della città, le soluzioni.  Per l’occasione l’autore presenterà il libro con un reading, accompagnato dalle letture dell’Associazione Arci Voce e dalle canzoni della Vi Cunto e Canto band.

Dall’introduzione dell’autore:
«La Simeide» è la storia dal punto di vista degli operai nel senso che letteralmente l’ho ricostruita attraverso il loro sguardo, utilizzando i documenti prodotti e raccolti da loro giorno per giorno, da due operai in prima fila nel Consiglio di fabbrica: volantini, comunicati stampa, verbali di riunioni, articoli di giornali, documenti ricevuti dalla Direzione o dal Commissario straordinario, comunicazioni giudiziarie e avvisi di comparizione, telegrammi, e poi le loro analisi.
Le due raccolte sono in larga parte simili. Per comodità ho consultato principalmente il fondo di Cesare Tittarelli, custodito dal Centro Studi Libertari Luigi Fabbri di Jesi, un gruppo politico di tradizione culturale anarchica di cui Cesare era un’attivista. Un militante. Nel libro cito questi documenti con la sigla AT: Archivio Tittarelli. L’altro fondo è di Paolo Mancini, custodito dall’Istituto di Storia del Novecento di Ancona, che cito con la sigla AM: Archivio Mancini. Cesare Tittarelli e Paolo Mancini erano amici e lavoravano insieme al Collaudo, e imitandosi uno con l’altro hanno fatto un lavoro pregevole di raccolta delle memorie, ai fini della loro ricostruzione e trasmissione. Ho consultato inoltre l’archivio di Aroldo Cascia, custodito da lui stesso, che fu Sindaco di Jesi dal 1975 al 1983, quando fu eletto Senatore, continuando a seguire la vicenda nei suoi risvolti parlamentari.

Anziché ricostruire i lineamenti generali della vicenda, da cui emergono di più i passaggi istituzionali di accordi siglati, impegni politici o decreti deliberati, ho preferito “il ritmo della cronaca”, cercando di ricostruire lo sguardo “in diretta” degli operai, perché erano immersi nella cronaca e vi agivano con le scelte da prendere giorno per giorno, basandosi sulle informazioni che riuscivano a raccogliere, e poi socializzavano con i loro comunicati diffusi a un ritmo quasi quotidiano (…)  seguendo il susseguirsi giorno per giorno delle assemblee, dentro la fabbrica o aperte in città, delle riunioni in Consiglio Comunale o in Regione o al Ministero, dei blocchi delle merci, degli scioperi, i blocchi stradali o ferroviari, le denunce ricevute, gli incontri con i partiti, le trattative con la proprietà, i documenti da valutare o scrivere, la costituzione della Cooperativa degli operai con il suo piano industriale, e più tardi il Comitato dei disoccupati, le trasmissioni in televisione e la miriade di iniziative – “non sapevamo più che cosa inventarci” mi diceva Giordano Mancinelli – si rende evidente il farsi carico degli operai, direttamente, della sorte propria e di quella dell’azienda. Non da soli, certamente, ma con loro al centro.

“La Simeide” è, dunque, la narrazione di una soggettività che altrimenti non emergerebbe, che si è formata nella pratica della democrazia e della partecipazione come modo di essere della propria identità. In questo modo quella storia si trasforma da “semplice” seppure importante vicenda locale, in un esempio di “lotta di classe dal punto di vista della periferia”. Una lotta vincente. Mi è sembrata un’epopea, e l’ho intitolata “La Simeide”.

Nella prima parte introduco il contesto generale. La prendo alla larga, da fine dell’Ottocento, dal giorno in cui nasce Vittorio Valletta, non per offrire una sintetica ricostruzione storica, che non servirebbe, bensì con la pretesa, ancora più ardua, di rappresentare le memorie storiche secondo uno “sguardo operaio”, perché è questo tipo di sguardo che mi occorre per inquadrare meglio le vicende della vertenza.

Nella seconda parte racconto queste vicende, procedendo in senso strettamente cronologico, anno per anno, dal punto di vista degli operai e insieme a loro della città, della politica e delle istituzioni locali, seguendo il formarsi degli eventi e il loro svolgersi. Inizio dal 1977, il primo anno in cui la crisi finanziaria diventa evidente e arrivo al 1988, l’anno in cui si mette fine ai tentativi di smantellare la Sima, e attraverso l’accordo con un nuovo proprietario si offre una nuova opportunità. La lotta ha vinto.

La terza parte riguarda l’applicazione di questo accordo. Alle lotte degli anni precedenti subentra la smobilitazione, il Consiglio di fabbrica si scioglie e la storia sembra diventare un’altra, le persone sono le stesse ma da un’altra angolazione. È ciò che accade dopo la vittoria. Il racconto va anche oltre il passaggio della nuova Sima Industrie alla multinazionale Caterpillar, e si conclude solo quando anche l’ultimo operaio della vecchia Sima viene ricollocato nel mondo del lavoro. La vittoria resta – come resta lo stabilimento che la Caterpillar, grazie anche al lavoro dei suoi operai di oggi, mantiene aperto ancora in via Roncaglia – ma ora è una vittoria con un altro retrogusto, che ha assorbito anche le singole vicende umane degli ultimi operai rimasti senza fabbrica e mai riassunti, ma che non si sono mai arresi e alla fine ce l’hanno fatta. E proprio per questo, quella vittoria mi sembra ancora più piena.

Nell’occasione di giovedì 31 il libro sarà presentato con un reading di letture e canzoni; accompagneranno l’autore l’associazione Arci Voce e i musicisti della Vi Cunto e Canto band; tra le canzoni anche  “Quei treni alla stazione” dedicata agli operai quando nei momenti più duri della vertenza bloccavano la ferrovia e poi chiedevano scusa alla città scrivendo “scusateci per quste forme lotta”.

Il libro “La Simeide” è stato realizzato con un contributo di Fiom Ancona e Spi Cgil Ancona, Istituto Gramsci sezione di Jesi e Arci Marche.

“L’inatteso” di Cinzia Perrone

Titolo: L’inatteso
Autore: Cinzia Perrone
Casa editrice: Marco del Bucchia editore

GIOVEDÌ 24 ore 21.15, alla Biblioteca Planettiana incontro con Cinzia Perrone e il suo romanzo “L’inatteso“, per il quarto appuntamento con Le Marche in Biblioteca.
Un lungo racconto che attraversa più generazioni, dagli anni dell’Unità d’Italia, appena accennati ma che hanno quasi la forza di un imprinting per come quel passaggio storico avvenne – “Quelle famiglie erano l’esempio di come  riuscire a non far cambiare niente, pur se in quel momento storico stava cambiando tutto; poche persone prive di scrupoli riuscirono in questo intento, mentre ad altri meno accondiscendenti toccò una sorte peggiore…” – fino agli anni Sessanta del Novecento, dove approda questa storia o insieme di storie di più generazioni e tanti diversi protagonisti, di famiglie che crescono, di uomini e donne, bambini e adulti, bambini che diventano adulti talvolta in fretta e adulti meno resilienti di altri che faticano a esserlo. Di persone che si perdono ma anche si ritrovano. Destini che s’intrecciano un po’ come nei canovacci teatrali, dove lo schema più o meno si conosce, perché lo schema nella vita lo sappiamo già che si ripete sempre, ma mai nello stesso identico modo e così tocca improvvisare di volta in volta, tentando di reagire per il meglio che si può a ciò che accade, e non prevediamo, e che talvolta è perfino il risultato di nostre scelte non attente o consapevoli delle possibili conseguenze.

Siamo in una provincia del Sud, dove già la stessa Unità del paese può essere un evento inatteso, perché dell’inatteso ha il carattere della rottura con un equilibrio precedente – ma equilibrio di che cosa, e basato su chi? – e siamo anche in una società divisa, molto più chiaramente di oggi, in classi, quelle agiate e proprietarie che, soprattutto se prive di scrupoli, hanno solo da perpetuare la propria agiatezza e proprietà, e alterigia, anche attraverso i giusti matrimoni – “Soldi e potere, il connubio era perfetto…” – e la discendenza, ma qui l’inatteso può presentarsi in forme più private, meno evidenti, e che però proprio per questo è anche facile aggirare o addomesticare: “… ma il problema che avrebbe afflitto la coppia, portandola a varcare la soglia dell’orfanatrofio, non tardò a manifestarsi…”.    All’inizio l’inatteso sarà questo trovatello ignaro e innocente, come accadeva e o forse ancora accade, e così insieme a lui entrano sulla scena della storia anche altre classi sociali, più umili e ignare, di persone abituate a non tirarsi indietro e ad affrontare ciò che gli viene offerto cercando, comunque, di esserci. Qualcuno ci riesce un po’ meglio mentre qualche altro non è così resiliente. Oppure gli tocca il carico maggiore, nella forma dell’inatteso.

Il lungo racconto di Cinzia Perrone ci offre le storie di queste persone, che non mi sono mai sembrate del tutto sole e in balia di quell’ inatteso che travolge la precarietà delle condizioni di vita faticosamente raggiunte. L’inatteso certe volte si presenta nella veste di grandi eventi storici, come la Grande guerra, o la seconda guerra mondiale e il mercato nero. Altre volte le difficoltà nascono in modi più immediati, e anche dalla interferenza delle scelte, o dei capricci o dei tornaconti che provengono da quelle famiglie agiate e proprietarie, che hanno o pretendono di avere il potere di disporre degli altri. Di fatto è così. Il racconto di Cinzia Perrone non ha però l’enfasi della grande epopea di riscatto sociale propria dei grandi  processi o avvenimenti storici, che restano sullo sfondo di queste vite, e ai quali vengono dedicati solo pochi e veloci accenni, quel tanto che basta per rammentarcene.

L’attenzione mi sembra più direttamente rivolta ai singoli, persone semplici seguite nelle loro reazioni intime, nelle psicologie che si formano, nelle speranze, nei piccoli sogni di riscatto personale. Come se uscire dalla precarietà – che è sempre economica – significhi comunque costruire spazi di dignità. Di un’identità più piena, non soffocata. Sono diversi i personaggi che nel corso delle generazioni si passano questa staffetta, e ogni volta ho avuto l’impressione che quello che io stesso ho chiamato schema che si ripete, in realtà non si ripete mai daccapo. Ogni personaggio sembra avere ogni volta un bagaglio in più, maturato attraverso chi l’ha preceduto, e ogni volta che riceve la staffetta ci sembra più completo, anche più problematico nelle riflessioni Intime e nel suo modo di sentire, o di voler uscire fuori per esserci. Nei protagonisti più recenti avvertiamo l’eco di quelli precedenti, come se le storie dei singoli, dentro quel canovaccio di più generazioni, costituissero un potenziale da cui poter ancora attingere o proseguire. Lo stesso esito del romanzo sembra essere così sia un punto di arrivo che un punto di partenza, e sapendo oramai che l’inatteso non si fugge ma si affronta, senza escludere nemmeno che possa dipendere anche da noi, incubato da scelte che trascuravano un qualcosa, e che occorre capire, affrontare e liberare.

Cinzia Perrone, è nata a Napoli, ma residente ormai da dieci anni a Jesi, dove da qualche anno è attiva nella scrittura. Laureata in Giurisprudenza, attualmente ha trovato la sua dimensione nella scrittura, antica passione mai sopita.  Il primo romanzo “Mai via da te”, pubblicato dalla Montedit, è un racconto autobiografico di una esperienza della sua vita. Nel 2017 pubblica “L’inatteso” con Del Bucchia Editore. Ha da poco pubblicato una raccolta di racconti e poesie, “Annotazione a margine”, con la Lfa Publisher di Napoli.

“Quelli che se ne vanno” di Enrico Pugliese

Titolo: Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana
Autore: Enrico Pugliese
Editore: Il Mulino, 2019

Articolo di presentazione di Enrico Pugliese, pubblicato il 10 ottobre 2019 su Rassegna.it

A partire dall’inizio di questo decennio, l’Italia è  interessata da una significativa ripresa dell’emigrazione verso l’estero. Si tratta di una nuova emigrazione, sia perché essa ha luogo dopo alcuni decenni di stasi dei movimenti migratori per l’estero, sia perché presenta caratteristiche diverse da quelle della grande migrazione intra-europea del dopoguerra, che aveva visto protagonisti i lavoratori italiani. Il nuovo flusso si è ormai stabilizzato e il numero di partenze ha raggiunto livelli che non si registravano dagli inizi degli anni settanta.

Tutto ciò autorizza per altro a parlare di un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana: il terzo, come ho messo in evidenza nel mio libro “Quelli che se ne vanno: la nuova emigrazione italiana” (Il Mulino, 2018). Eppure la problematica è assolutamente assente dal discorso pubblico nel nostro Paese, essendo l’interesse polarizzato sulla tematica dell’immigrazione. E questo è uno dei primi paradossi riguardanti la situazione italiana in materia di migrazioni internazionali. Perciò vale la pena di portare avanti un chiarimento sull’entità e la composizione dei due flussi: quello degli stranieri che arrivano in Italia e quello degli italiani che se ne vanno all’estero. Ciò consapevole del fatto che non è la sola consistenza numerica a determinare la rilevanza sociale e politica di un fenomeno.

L’impatto sulla società italiana dei due fenomeni è parimenti rilevante, ancorché in modo diverso. Ed entrambi ormai sono ben visibili nella realtà della vita quotidiana del Paese, mostrando sempre più chiaramente il carattere di crocevia migratorio assunto dall’Italia al centro dei processi di internazionalizzazione e segmentazione del mercato del lavoro. I cittadini stranieri residenti in Italia sono ora pari a 5 milioni e 250 mila, una cifra poco lontana dal numero degli italiani residenti all’estero, che sono 5 milioni e 114 mila. Per quel che riguarda aspetti e tendenze è bene precisare qualche punto interessante. Il flusso di immigrati in ingresso è formato da tre componenti. La prima è quella delle persone che entrano o che si registrano per motivi di lavoro (e questa in effetti da diversi anni è andata riducendosi fino a livelli molto bassi). La seconda, molto numerosa, è quella costituita da persone entrate per ricongiungimento familiare. La terza, infine, è rappresentata dai rifugiati e richiedenti asilo, il cui numero è andato aumentando nel corso dell’ultimo quinquennio man mano che si riduceva il numero di coloro che entravano per motivi di lavoro.

Insomma, in Italia – per quel che riguarda il lavoro – abbiamo un flusso di immigrati per lavoro che, stando ai dati ufficiali, si è ridotto durante la crisi e la successiva stagnazione, mentre è proseguito in maniera sistematica il flusso in uscita: quello della nuova emigrazione italiana. Le partenze annuali ormai da qualche anno superano le 150 mila con un dato molto importante: circa un terzo di quelli che partono sono stranieri. Si potrebbe dire “gente che va e gente che viene”. Ma non è la stessa gente.

Passiamo agli aspetti più caratterizzanti la nuova emigrazione e ai paradossi che essa esprime. Cominciando dalle provenienze e dalle destinazioni, ci sono due aspetti da notare: le partenze si indirizzano in larga misura verso un numero molto ristretto  di destinazioni, tutte – tranne la Svizzera – interne all’Ue. E questo è ben comprensibile, in quanto effetto del processo di integrazione europea: processo ormai da qualche anno a rischio a causa delle tendenze sovraniste in atto (non solo la Brexit).

Ciò che stupisce riguarda invece le aree di provenienza. Le regioni italiane che danno il maggior contributo all’emigrazione non sono le più povere del Sud, bensì – con la parziale eccezione della Sicilia – quelle più ricche e sviluppate del Centro-Nord, a partire dalla Lombardia e dal Veneto. Questo interessante paradosso è solo apparente e si spiega anche con la più complessa composizione del flusso che parte dal Nord. Ma la spiegazione più importante sta nel fatto che il movimento migratorio dal Sud ha una duplice destinazione: verso le regioni del Nord e verso l’estero. Il primo è assolutamente maggioritario e la sua ripresa ha avuto inizio prima del ritorno dell’emigrazione all’estero.

Il terzo e ultimo paradosso riguarda la composizione del flusso dal punto di vista sociale e del capitale umano. C’è nel flusso in uscita un’assoluta prevalenza della componente giovanile e una notevole componente a elevato livello di scolarizzazione. E questo secondo aspetto ha fatto molto parlare di “fuga dei cervelli” o di brain drain. Il fatto è che si ritiene che i giovani altamente scolarizzati rappresentino la componente  maggioritaria, mentre in realtà essi sono poco di un quarto del totale dei nuovi emigranti. Eppure su di loro, “sulla fuga dei cervelli”, si concentra l’attenzione, tralasciando le altre componenti, quelle di origine popolare, destinate alle occupazioni di più basso livello (“le braccia in fuga”). Per queste ultime le condizioni sono più problematiche rispetto all’emigrazione del dopoguerra e le prospettive, relative all’ipotesi di un rientro, ancora più scarse.

Entrando nel merito delle implicazioni di questo flusso migratorio per le aree di partenza, l’aspetto di maggior rilievo è quello demografico. Su questo piano la grande migrazione del dopoguerra ebbe effetti assolutamente positivi, nella misura in cui permise un alleggerimento della pressione demografica, mentre il riequilibrio della struttura demografica veniva garantito dall’elevata natalità. Oggi l’emigrazione aggrava gli squilibri demografici, dando luogo nelle aree interne a veri e propri processi di spopolamento. E che dire del paradosso (l’ennesimo) relativo alle rimesse degli emigranti? All’epoca aumentarono il grado di benessere materiale dei ceti più bassi delle regioni del Sud, oggi questo non si verifica più: al contrario, si registra una direzione in senso inverso delle rimesse: non sono  gli emigranti che inviano il loro contributo alle famiglie, ma le famiglie che inviano aiuti ai congiunti emigrati.

In ultimo la questione del lavoro, che è quella più seria. La composizione occupazionale dei protagonisti della grande emigrazione del dopoguerra era contadina e proletaria,  la destinazione occupazionale era prevalentemente operaia. Ora le occupazioni sono diverse e molteplici, anche di livello alto per i più scolarizzati. Ma una situazione di precarietà riguarda sia le occupazioni della fascia bassa che quelle della fascia occupazionale alta. Nell’area dei mini jobs e dei lavori precari o privi di protezione sindacale la presenza degli immigrati (italiani compresi) è preponderante in tutta Europa. Anche i benefici del sistema di welfare hanno cominciato a ridursi per i lavoratori stranieri.

Tutto questo richiama alla necessità di una politica riguardante l’emigrazione, innanzitutto incentivando le “non-partenze”. E su questo il punto principale riguarda le politiche economiche per l’occupazione (e non le politiche attive del lavoro tese ad adeguare un’offerta sovrabbondante a una domanda di lavoro che non c’è). Ma c’è anche da sviluppare una politica di difesa e protezione degli emigranti all’estero, rafforzando il lavoro degli uffici consolari in questo ambito, rafforzando e finanziando le strutture di rappresentanza degli emigranti e le loro associazioni e  stimolando infine le attività di patronato. Tutto questo passa per la presa di coscienza della rilevanza del fenomeno.

Enrico Pugliese è professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza Università di Roma

“Cratere” di Stefano Ambrosini

Titolo: Cratere
Autore: Stefano Ambrosini
Casa editrice: Claudio Ciabochi editore

Giovedì 17 ottobre alle ore 21.15, incontro con l’autore al terzo incontro con Le Marche in Biblioteca alla Planettiana di Jesi.

Nei commenti al libro ho letto più volte l’etichetta Noir. Certamente non è fuori luogo ma da usare magari con cautela. A scanso di equivoci consulto il dizionario Treccani:  Noir, detto di opera letteraria o cinematografica basata sulla narrazione di vicende cruente e misteriose. Il misterioso c’è, questo è vero, ma qualsiasi storia può essere misteriosa per noi curiosi prima che l’autore ce la sveli un poco alla volta nel modo che lui ha deciso – o forse è il protagonista che lo ha deciso il modo? –  e riguardo al cruento… magari c’è anche quello, sì, ma forse è ancora più complicato, e non ho voglia di riprendere subito il dizionario.

Inizio a leggere le prime righe del libro:  «Nelle notti interminabili trascorse senza sonno, o in un sonno disturbato, mi capita di fare sogni atroci, che non è necessario riferire. Uno di questi però merita di essere raccontato. Devo disputare  un incontro di boxe…» e così via, un sogno di per sé misterioso, e che certo non nasce dal nulla ma il cui rapporto con la realtà, come ben sappiamo non solo da Freud ma da sempre, è  piuttosto complesso ma di sicuro esiste, e forse non basta solo un’intepretazione del sogno, occorre invece conoscere davvero quella realtà sottostante, guardarla bene prima se vogliamo averne chiari gli effetti dopo. E così mi sono immerso in questa storia, che mi è apparsa subito come una distopia, ma non rivolta al futuro (qui ritorno al Treccani:  Distopia, previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali eccetera). Mi è sembrata, piuttosto, una distopia del tempo presente, della nostra realtà immediata, ora e qui, nella quale ciò che normalmente accade  avviene comunque con certi ritmi più o meno lenti, o in spazi piuttosto ampi e non vicini a noi, oppure abbiamo anche qualcosa sopra agli occhi a coprirci. Immaginate invece che il ritmo del loro accadere e lo spazio in cui tutto accade si concentrino, accelerando, come nella caduta a spirale dentro un imbuto, e quindi le percezioni si esasperino. Anzi, non le percezioni, ma è la realtà stessa a esasperarsi, e le percezioni – o forse gli stessi sogni? – tendono a divenire sempre più reali e l’apparenza prende corpo.

Arrivo alla seconda pagina del libro, dove è sempre il protagonista che parla, lo fa dalla prima all’ultima riga, è il suo racconto quello che seguiamo: «La città in cui vivo si sviluppa tutta all’interno di una vallata a forma di cratere.»  Qui faccio una pausa. L’autore è di Fabriano e potremmo quindi riconoscervi subito questa città, anche per la sua realtà attuale fatta di dismissioni industriali e declino, o in generale anche per l’immagine più o meno stereotipata che ne abbiamo sviluppato negli anni, ma a sostegno dell’autore interviene il protagonista il quale subito precisa, anche se in un modo un po’ sornione e finto mascherato sembra che non voglia discostarsi troppo da quell’immagine: «È una piccola città come tante, abitata da persone operose che hanno vissuto  e che vivono del culto  del lavoro…. Anche la mia vita era come quella di tanti altri, fino a un paio di anni fa. Le cose  sono cambiate rapidamente e nel giro di poco tempo ho perduto tutti quelli che consideravo i punti fermi della mia esistenza, tutte le solide certezze di un uomo comune, sarebbe meglio definire ordinario…»

Da qui in poi il nostro protagonista diventa via via sempre meno ordinario e sempre più straordinario. Oppure, è ciò che gli sta attorno che ci appare via via più straordinario, nella sua ordinarietà? O magari anche perché noi stessi iniziamo a guardarlo questo mondo, scrutarlo con altri occhi, iniziamo a entrare dentro lo sguardo del protagonista? Che è diverso dal nostro, o soltanto più attento, qualcosa lo ha reso più acuto, e così ci offre profondità diverse, come in quelle vecchie sale con i film 3d, quando ci mettevamo sugli occhi quegli occhiali con le lenti colorate, e con la dimensione in più qualcosa accade anche dentro le nostre percezioni, ma lentamente, attraverso tutti i passaggi e i dettagli che ci vogliono: «Da un po’ di tempo la mia giornata  inizia verso le cinque di mattina, l’ora in cui di solito mi alzo…. esco a passeggiare, è una vecchia abitudine di quando avevo il cane. Percorro tutta la strada ad anello che circonda il centro storico… anche oggi sono uscito alla solita ora e non ho potuto non notare sul portone di casa mia la scritta “L’HAI AMMAZZATO TU” fatta con vernice spray rossa, ancora fresca.»  Insomma, tra i suoi concittadini c’è chi si diverte a tormentarlo e per farlo non rinuncia ad alzarsi dal letto anche prima di lui; che cosa sognino però non lo sappiamo, noi vediamo la storia solo dall’angolo visuale del protagonista, siamo con lui, che inizia a raccontarci: «Non sarebbe possibile comprendere la sequenza degli eventi che mi hanno portato a vivere nelle mie attuali condizioni se non cominciando dall’inizio, da fatti successi molti anni fa. È uno sforzo  che devo compiere ogni mattina, se voglio trovare la motivazione e l’energia per affrontare la realtà che ho intorno. Per ricordare a me stesso i motivi di questo vivere alluccinato. Ma, come dicevo, l’inizio della vicenda si colloca in un passato così remoto che la memoria necessita di un aiuto… »

Non so se in genere un Noir inizia così, o se debba esistere un genere. Questi che ho riportato sono solo alcuni degli ingredienti, nemmeno tutti, che troviamo nelle prime pagine, non ne anticipo altri di tutti quelli che si incontrano nel corso della storia, e sono molti, perfino tracce di utopia e di una tenerezza che richiede tenacia per essere afferrata, affiorano qua e là in questa incipiente distopia, mentre del Noir a mio avviso avvertiamo il respiro di qualcosa di sospeso, e forse poco altro, però fino all’ultima pagina, mentre osserviamo invece prendere corpo le tante facce della realtà, dove l’ordinario e lo straordinario del tempo presente si intrecciano, e perfino s’invertono,  e per raccapezzarsi occorre restare lucidi, resilienti – e il proganista ha una resilienza tutta sua, alimentata da una sostanza che si svela molto lentamente – ed è la resilienza ciò che comunque ci collega alla realtà, anche quando questa ci procura insofferenza. Dipende da noi? Dalla realtà? Da che cosa? E che cosa è accaduto al protagonista, che cosa deve ancora raccontarci? Di cosa lo perseguitano? Più che l’impazienza per la svelamento che il Noir in coerenza alla sua etichetta promette di svelarti nelle ultime pagine, mi sono lasciato identificare in questo protagonista resiliente, legato a ricordi potenti come assenze incolmabili e al tempo stesso con una capacità solida di non perdersi mai di fronte ad una traccia, coglierne il senso, anzi la bellezza per usare la stessa precisa parola, e preoccuparsi di difenderla, preservarla, dal ciò che è mediocre, banale, ignorante, o cattivo. Il tutto restituito con un tono narrativo nel quale il protagonista non rinuncia mai, nonostante tutto, ad una malinconica ironia. In alcuni passaggi, certe descrizioni di situazioni sociali, o culturali  mi sono apparse addirittura divertenti, per la loro irriverenza e per gli sprazzi di libertà che il protaganista si prende, e in alcuni episodi mi pare di avere riconosciuto addirittura situazioni ed eventi di cui m’è capitato d’essere spettatore, ma nella mia città.  Insomma, all’ombra del Noir, probabilmente avremo tante cose di cui parlare nell’incontro con Stefano Ambrosini, l’autore di “Cratere”.

Stefano Ambrosini è nato a Fabriano il 21/11/1970, insegnante di letteratura nella scuola superiore. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni nell’ambito della fotografia d’autore, le più importanti sono: “Intorno al Centro” (2002), “Scene di vita quotidiana” (2004) e “Amarica” (2008). Questo romanzo è la sua prova d’esordio.

Giovedì 17 ottobre alle ore 21.15 alla Biblioteca Planettiana di Jesi.