Incipit

“Pastorale americana” di Philip Roth (circolo di lettura il 30 maggio)

Il prossimo incontro del circolo di lettura di Jesi è il 30 maggio, alle ore 21,15, sempre presso la Salara (Biblioteca Planettiana). Si chiude con questo il ciclo di 8 incontri dedicati alla letteratura americana del Novecento; coglieremo l’occasione anche per darci appuntamento per dopo l’estate, con il prossimi ciclo di incontri di cui dovremo scegliere insieme il tema.
Ecco intanto l’incipit di Pastorale americana, che leggeremo in questo mese:

81aXBt-qrwLLo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo. Era magico il nome, come l’eccezionalità del viso. 
Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara presenti nel nostro liceo pubblico prevalentemente ebraico, nessuno aveva nulla che somigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inerte maschera vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome di Seymour Irving Levov. 
Lo Svedese brillava come estremo nel football, pivot nel basket e prima base nel baseball. Soltanto la squadra di basket combinò qualcosa di buono (vincendo per due volte il campionato cittadino con lui come marcatore  principale), ma per tutto il tempo in cui eccelse lo Svedese il destino delle nostre squadre sportive non ebbe troppa importanza per una massa studentesca i cui progenitori – in gran parte poco istruiti, ma molto carichi di preoccupazioni -veneravano il primato accademico più di ogni altra cosa. L’aggressione fisica, anche se dissimulata da tenute sportive e norme ufficiali, e priva dell’intento di nuocere agli ebrei, non era tradizionalmente una fonte di soddisfazione nella nostra comunità; i buoni voti sì.
Ciononostante, grazie allo Svedese, il quartiere cominciò a fantasticare su se stesso e sul resto del mondo, così come fantastica il tifoso di ogni paese: quasi come i gentili (come esse immaginavano i gentili), le nostre famiglie poterono dimenticare come andavano realmente le cose e fare di una prestazione atletica il depositario di tutte le loro speranze. In primo luogo, poterono dimenticare la guerra.
L’assunzione di Levov lo Svedese a domestico Apollo degli ebrei di Weequahic si può spiegare meglio, credo, con la guerra contro i tedeschi e i giapponesi e le paure che essa generò. Con lo Svedese che furoreggiava sul campo da gioco, l’insensata superficie della vita forniva una specie di bizzarro, illusorio sostentamento, il felice abbandono a una svedesiana innocenza, per coloro che vivevano nella paura di non rivedere mai più i figli, i fratelli o i mariti.

“Ask the dust”, John Fante (incipit)

ask-the-dust« Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.
Al mattino mi svegliai, decisi che avevo bisogno di un po’ di esercizio fisico e cominciai subito. Feci parecchie flessioni, poi mi lavai i denti. Sentii in bocca il sapore del sangue, vidi che lo spazzolino era colorato di rosa, mi ricordai cosa diceva la pubblicità, e decisi di uscire a prendermi un caffè. »

fante« One night I was sitting on the bed in my hotel room on Bunker Hill, down in the very middle of Los Angeles. It was an important night in my life, because I had to make a decision about the hotel. Either I paid up or I got out: that was what the note said, the note the landlady had put under the door. A great problem, deserving acute attention. I solved it by turning out the lights and going to bed. In the morning I awoke, decided that I should do more physical exercise, and began at once. I did several bending exercises. Then I washed my teeth, tasted blood, saw pink on the toothbrush, remembered the advertisements, and decided to go out and get some coffee. »

mercoledì 3 febbraio alle ore 21.15 alla biblioteca Planettiana quarto incontro del circolo di lettura con “Chiedi alla polvere” di John Fante

 

“Praga d’oro e nera” di Peter Demetz (incipit)

phpThumb_generated_thumbnailjpgTitolo: Praga d’oro e nera
Autore: Peter Demetz
Casa editrice: Sellerio

“Amo e odio la mia città natale, e il conflitto dei sentimenti non è stato alleviato dai miei ritorni a Praga negli anni dopo il cambio della guardia del 1989, talvolta poeticamente chiamato “rivoluzione di velluto”. I ricordi felici di lunghe passeggiate fra i mandorli nel mese di maggio o dei tuffi nella Moldava dalle zattere sotto il Teatro Nazionale erano accompagnati da altre immagini, più disturbanti. Ricordo le liste quotidiane di cittadini cechi giustiziati sommariamente, dopo che il Reichsprotektor Reinhard Heydrich, mentre si recava al castello il 27 maggio 1942, era caduto nell’imboscata di un commando cecoslovacco paracadutato da un aereo britannico, e mi ricordo una donna anziana con gli scarponi e uno zaino pieno sulle spalle (era mia madre) che su una vettura sgangherata del tram n° 7 andava alla sala di raccolta da cui gli ebrei venivano trasportati ai campi, per non tornare mai più; tre anni dopo, quando Praga era stata liberata, donne, bambini e vecchi tedeschi erano prelevati dalle loro case, ammassati in vecchi cinematografi e stadi e infine espulsi dalla città e dalla Cecoslovacchia. Tanti miei colleghi europei che si dilettano a scrivere di cose boeme hanno vita più facile, non gravati da ricordi che fanno dolere il cuore e rivoltano lo stomaco; i molti volumi illustrati che oggi le librerie praghesi offrono ai turisti non fanno gran male, permettendo ai viaggiatori di andare e tornare riportandone intatte le proprie idee preconcette. In una delle sue rare poesie Franz Kafka immagina di passare sul Ponte Carlo e di posare dolcemente le mani sulle vecchie pietre – «die Hände auf alten Steinen». Ho sempre pensato che con quel tenero gesto cercasse d’impedire al sangue versato in tante feroci battaglie di sprizzarne fuori. Continua a leggere

“I Malavoglia” di Giovanni Verga (incipit)

fontana“Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla.

Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ‘Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce – Per menare il remo biso- gna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro. Diceva pure: – Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo. Continua a leggere

“La fortezza” di Meša Selimović (incipit)

Titolo: La fortezzaLa_fortezza_4ec6378b53a00_133x190
Autore: Meša Selimović
Casa editrice: Besa

Non posso narrare quello che accadde a Hoćin nelle lontane terre russe. non perché non ricordi, bensì perché non voglio. Non vale la pena raccontare di terribili massacri, della paura dell’uomo, della bestialità degli uni e degli altri, non bisognerebbe ricordare né compiangere né glorificare. La cosa migliore è dimenticare, affinché muoia il ricordo umano di tutto ciò che è brutto e i bambini non intonino canti di vendetta.

Dirò soltanto che sono tornato. Se non fossi tornato non lo avrei annotato, nessuno avrebbe saputo niente di quel che era accaduto. Ciò che non è scritto non esiste; era ed è svanito. Ho attraversato il Dnestr, gonfio delle piogge, nuotando, e così mi sono salvato. Gli altri sono stati sgozzati. Con me è venuto anche Mula Ibrahim, scrivano militare, con il quale ho stretto amicizia durante questi tre mesi di viaggio verso casa, verso la patria lontana; perché nuotando ho tirato la sua barca sfasciata fuori dal fiume minaccioso e perché, malato, per metà viaggio l’ho portato sulle spalle e per metà l’ho trascinato, gli ho dato coraggio quando crollava sulle ginocchia o si sdraiava per terra e immobile fissava l’oscuro cielo straniero, desiderando di morire.

A nessuno ho raccontato di questo Hoćin quando siamo tornati. Forse perché ero stanco e smarrito, perché tutti di Hoćin mi sembrava incredibile, come se fosse avvenuto in un’altra vita, e io stesso ero un altro, non colui che osservava la propria città con le lacrime agli occhi, riconoscendola a stento. Non avevo rimpianti, non ero ferito, non mi sentivo tradito, mi sentivo soltanto vuoto e confuso. Quando ho lasciato l’impiego di insegnante, e i ragazzi ai quali insegnavo, credevo di andare verso la gloria, verso la luce, e invece mi sono sprofondato nel fango, nelle immense paludi intorno a Hoćin, tra i pidocchi e le malattie, le ferite e la morte, nell’indescrivibile miseria umana.
Di questa mostruosità chiamata guerra ho impressa nella mente una miriade di particolari, ma soltanto due sono gli avvenimenti che intendo narrare, non perché più tragici degli altri, ma perché non riesco a dimenticarli.

(Incipit di “La fortezza” di Meša Selimović, traduzione di Vesna Stanić)

“Il vecchio e il mare”, di Ernest Hemingway (incipit)

3Dnn+9_2B_pic_9788804613121-il-vecchio-e-il-mare_originalTitolo: Il vecchio e il mare
Autore: Ernest Hemingway
Casa editrice: Mondadori

“Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio ormai era decisamente e definitivamente salao, che è la peggiore forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un’altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all’albero. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand’era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne.
Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle, provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale. Le chiazze scendevano lungo i due lati del viso e le mani avevano cicatrici profonde che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti. Ma nessuna di queste cicatrici era fresca. Erano tutte antiche come erosioni di un deserto senza pesci.
Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti.”
Incipit di “Il vecchio e il mare”, di Ernest Hemingway; traduzione di Fernanda Pivano.

“Le notti bianche: biografia di un sognatore”, di Fëdor Dostoevskij (incipit)

cop.aspxTitolo: Le notti bianche: biografia di un sognatore
Autore: Fëdor Dostoevskij
Casa editrice: Mondadori (Oscar classici, edizione del 2015)

“Era una notte incantevole, una di quelle notti che succedono solo se si è giovani, gentile lettore. Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo simile potessero vivere uomini irascibili ed irosi. Gentile lettore, anche questa è una domanda proprio da giovani, molto da giovani, ma che il Signore la ispiri più spesso all’anima!… Parlando di vari signori irascibili ed irosi, non posso non ricordare il mio comportamento durante tutto quel giorno. Fin dal mattino un’improvvisa angoscia cominciò a tormentarmi. Ad un tratto ebbi l’impressione che tutti volessero abbandonarmi e allontanarsi da me. Certamente ognuno si sentirà in diritto di domandarmi chi fossero tutti costoro, perché abito oramai da otto anni a Pietroburgo e non sono riuscito a fare quasi nessuna conoscenza. Ma che senso hanno le conoscenze? Anche senza di esse conosco tutta Pietroburgo; ecco perché ebbi l’impressione di essere abbandonato da tutti quando tutta Pietroburgo spiegò le ali e se ne andò improvvisamente in campagna. Fu una sensazione terribile rimanere da solo e, in preda ad un profondo sconforto, vagai tre giorni interi per la città, senza capire minimamente cosa mi capitasse.”

Incipit di “Le notti bianche: biografia di un sognatore” di Fëdor Dostoevskij (a cura di Giovanna Spendel)