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Foto in vetrina: PRIMO MAGGIO alla SIMA

La gente che in questi giorni attraversa la Galleria del Torrione, dove insieme al supermercato omonimo ci sono gli altri negozi del Centro commerciale, può vedere  esposte nella vetrina di Binci, il fotografo, alcune gigantografie originali in bianco e nero, degli anni Cinquanta, fissate su pannelli e incorniciate “a giorno” da un profilato di plastica bianca.
Queste  e tante altre  foto simili arredavano le pareti  di uffici e corridoi della moderna palazzina in fondo a via Mazzini disegnata dall’architetto Marco Zanuso insieme agli arredi, anch’essi dispersi o distrutti durante lo smantellamento dell’importante complesso industriale. Sul terreno un tempo occupato dalla SIMA sono sorti i suddetti negozi, gli studi privati, gli appartamenti  e il posteggio. Anche se sono passati solo alcuni decenni dalla chiusura della fabbrica,  anche la maggior parte delle persone che passano qui abitualmente, o che ci abita o ci lavora, ignora che qui per anni è stata attiva la principale e più avanzata industria della zona. Industria che ha dato lustro alla città e lavoro fino ad oltre settecento dipendenti.
Queste  poche foto Rappresentano solo un modesto ma significativo Ricordo della SIMA, l’industria leader nel settore delle macchine olearie e, nel giorno della Festa dei Lavoratori, un pensiero a  tutti coloro che qui si  sono avvicendati giorno dopo giorno al suono della sirena.
Ezio Bartocci, Jesi, 1 Maggio 2023

Dal libro “La Simeide” di Tullio Bugari, (Seri editore, 2019):
… la Sima torna a crescere e nel 1952 rinnova gli stabilimenti e la palazzina degli uffici. Il progetto è di Marco Zanuso. I due capannoni nuovi, non visibili dalla strada perché nascosti da quello più vecchio, hanno spazi più ampi e funzionali, alti, luminosi e arieggiati. Zanuso è giovane e all’inizio di una carriera che gli procurerà riconoscimenti in tutto il mondo. Inizia a collaborare con Adriano Olivetti per il quale realizzerà gli stabilimenti di Scarmagno a Ivrea e altri in Argentina e in Brasile. Per descrivere il suo lavoro viene coniato il termine “umanesimo zanusiano”: le fabbriche di Zanuso hanno una loro ‘urbanistica interna’, fatta di relazioni, spazi aperti e chiusi, flussi di persone e materiali, rapporti fra esterno e interno. Le funzioni accessorie si dislocano con logica intorno alle zone produttive, esercitando anche un ruolo di mediazione e raccordo con il paesaggio circostante e con il contesto che vive intorno alla fabbrica. La composizione in pianta e gli ambienti che vengono creati non sono disgiunti dallo studio approfondito di strutture e impianti, che a loro volta si integrano tra loro, evitando, appunto, la giustapposizione di elementi. Zanuso realizza anche la palazzina uffici, un edificio visibile ancora oggi in via Mazzini. Curò anche gli interni e i dettagli, i mobili e altri oggetti che finirono all’asta all’inizio degli anni Novanta, al tempo della demolizione dei capannoni.  Nella sua carriera Zanuso crea radio, televisori, telefoni e altri ancora oggi riportati nei cataloghi specializzati. Nel 1959 vince un premio anche per una macchina olearia della Sima, un separatore d’olio. Si dedicò anche alla ricerca e applicazione di materiali innovativi, quali il poliuretano, o l’uso della gommapiuma nelle poltrone o sedili per automobili…

MARCO ZANUSO (Milano, 14 maggio 1916 – Milano, 11 luglio 2001)

Buon Primo Maggio

 Un testo di Ezio Bartocci e una poesia di Maria Lenti  dedicati al significato che questa giornata ha sempre avuto per i lavoratori: “Salutiamo con giubilo questo giorno solenne…”

Buon Primo Maggio
di Ezio Bartocci

Il manifesto del Primo Maggio 1906, semplicissimo nella composizione, è un foglio interessante per il contenuto sociale. E’ una prova di stampa tipografica su carta rossa, sottile; un documento locale ormai unico.
Le tipografie delle piccole città, tranne rare eccezioni, non hanno avuto impianti litografici né richieste tali da giustificarli. Per stampare manifesti economici, come quello qui riprodotto, fino a verso la metà del 900 si sono adoperati generalmente massicci torchi in ghisa piantati su supporti a zampa di leone, o attrezzi simili rimasti quasi invariati da secoli.
Il tipografo rullava l’inchiostro nero di volta in volta sui caratteri mobili composti a mano, tirando foglio dopo foglio fino ad arrivare a due o tre decine di copie, stante la disponibilità degli spazi esterni autorizzati per le affissioni, e dei tabelloni dei circoli.
Non conosco la data d’istituzione del circolo jesino né so dire chi redasse il foglio; so però che la Federazione Giovanile Socialista Italiana era nata a Firenze nel 1903.
L’associazione politica locale composta da studenti e lavoratori antimilitaristi, anticapitalisti, anticlericali probabilmente è successiva di un anno o due.
Il manifesto invita i lavoratori italiani delle officine e dei campi a festeggiare il Primo Maggio e a protestare, in questo giorno più d’ogni altro, contro la borghesia affamatrice ricordando la giornata della solidarietà proletaria internazionale proclamata durante il Congresso Socialista Internazionale di Parigi del 1889.
Chiamando tutti a unirsi nella lotta di classe per liberare il paese dalla spada, dal tridente* e dal capitale, il manifesto, in attesa di tempi più maturi, mediante il linguaggio tipico d’allora invitava a imitare i compagni francesi impegnati nella lotta per le otto ore lavorative.
Quando sono andato a ritirare il manifesto e il file dal fotografo, ripercorrendo a memoria un po’ di storia sindacale e operaia ho commentato insieme a lui qualche frase pensando alla trasformazione della comunicazione, dei suoi strumenti, del lavoro stesso. Mio padre trascorreva nella sua officina tantissime ore – mi ha detto- lavorava all’occorrenza anche il sabato. La sera quando rincasava odorava di ferro. Molti lavoratori e lavoratrici di lavori pregnanti sapevano del loro mestiere restando diversamente segnati, non solo per gli infortuni.

Più recentemente, nel 1988, fui chiamato a collaborare a una iniziativa per festeggiare il Primo Maggio in maniera diversa dal solito.
L’amministrazione comunale d’allora volle rendere omaggio alla principale attività manifatturiera delle donne jesine e alle ultime superstiti impegnate per decenni nelle filande.
La mostra intitolata La Seta fu accompagnata da un catalogo per il quale scelsi insieme alle immagini il formato dell’album. Da qui il sottotitolo Album del Lavoro e l’intenzione di ripetere annualmente la formula, dedicando rassegna e Album a un settore lavorativo diverso, per far conoscere le caratteristiche, la storia, le problematiche d’ognuno.
Molto significative le testimonianze delle vecchie lavoratrici, da anni in pensione, raccolte dalla loro voce: le condizioni non erano certo le migliori, seppure le filande erano ampie, solide, a mattoni, con alte ciminiere… Le filandaie, ossia le sedarole, com’erano chiamate qui, umiliandosi per necessità, pagando pegno ma non arrendendosi allo sfruttamento, hanno contribuito a migliorare progressivamente la coscienza sindacale, le condizioni generali di lavoro, il rispetto individuale e quello più generale di tanti sconosciuti dipendenti.
Purtroppo, nonostante le buone intenzioni dichiarate, a quella prima iniziativa non ne sono seguite altre. Il primo Album del lavoro è rimasto unico, ma non perché sia stato superato il problema dello sfruttamento del lavoro, qui e in ogni parte del mondo.

* Nota. Il Tricorno era il tradizionale cappello a tre punte usato dagli ecclesiastici.

Copertina del primo album del lavoro La Seta

Colomba

L’ho vista dietro ai vetri
– aperto a tutto campo
il campo delle ali –

alitava la colomba
un vento di qualche bel tempo.

Maria Lenti
(dalla raccolta Ai piedi del faro, 2016)

 

 

 

Un Primo Maggio anomalo: il lavoro che cambia.

di Ezio Bartocci
La ricorrenza del primo maggio, come le festività pasquali e del 25 aprile, quest’anno vedrà milioni di lavoratori costretti a casa ad interrogarsi sul come, quando e se potranno riprendere regolarmente il lavoro.
E’ bastato un virus micidiale per modificare radicalmente i rapporti della gente e bloccare il sistema produttivo delle maggiori potenze industriali della terra.
Osservo una dozzina di francobolli che ho avuto qualche anno fa da Alberto, il vecchio caro falegname, mentre apprezzavo a casa sua la serie completa denominata Italia al lavoro o Regioni d’Italia.
“Valgono poco!” – mi disse – “Prendi!, questi li ho doppi”.

Riguardandoli oggi, come allora, mi riportano ad un periodo dell’infanzia, quando quasi tutti i fanciulli d’Italia nati nel dopoguerra, me compreso, provavano a mettere insieme un personale illusorio tesoretto costituito da valori postali viaggiati e monete fuori corso.
I disegni mi fanno pensare innanzitutto al primo articolo della nostra Costituzione che recita: l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Non sul lavoro nero sottopagato e disonesto che fa arricchire chi non lavora; non c’è scritto ma dovrebbe essere sottinteso.
La serie utilizzata dal 1950 al 1958 si compone di 19 abbinamenti, quante le regioni d’Italia,
essendo Abruzzo e Molise ancora insieme.
Ogni singolo pezzo alterna un tipico lavoro agricolo o di artigianato tradizionale, ambientando sullo sfondo un monumento per far conoscere anche all’estero alcune attrattive italiane.
Nell’insieme si ha l’idea di una terra laboriosa, prevalentemente agricola e manifatturiera;
non certo una moderna nazione industriale.
L’Italia evolverà in fretta, dalla fine degli anni cinquanta in avanti, modificando la sua immagine e le sue abitudini col boom economico del ’60.
Il decantato benessere dato dal nuovo modello di sviluppo, per contro, acuiva la crisi di tantissimi artigiani costretti a chiuder bottega per ripiegare nel lavoro a catena delle fabbriche del nord, o all’estero.
I diversi soggetti della mia infima raccolta filatelica infantile, neanche la metà della serie, li avevo messi insieme svaporando pigramente qualche busta affrancata o facendomi comprare occasionalmente da mia madre certi cubetti gelatinosi di marmellata, molto pubblicizzata e accattivante per via dei francobolli abbinati alla confezione.
La composizione realistica, minuziosa, ma non forzata di ciascun esemplare è apprezzabile anche per le variazioni monocromatiche. Quale fosse il valore facciale di ciascun francobollo me lo faceva ritenere di maggior pregio rispetto a quasi tutti agli altri, specie quelli dozzinalissimi col volto dei sovrani, o del duce di profilo coll’elmetto e la mascella taurina.
La scelta del formato grande ha contribuito a valorizzare le composizioni scenografiche di Corrado Mezzana, rigoroso disegnatore e apprezzato scenografo romano.
L’Italia uscita a pezzi dalle vicende della guerra, ma finalmente libera dal giogo della dittatura aveva voglia di rifiorire presto. Per farlo doveva credere nel lavoro come valore fondante, nelle diverse risorse individuali, artistiche e materiali, tipiche degli italiani, oltre che nelle sue peculiarità geografiche e paesaggistiche.
Per prendere le distanze dall’immagine del passato regime fascista, dalla ridondanza di aquile svettanti, di soldati armati, motti retorici e bellicosi le Poste Italiane non potevano fare una scelta promozionale migliore.
La serie incornicia regione per regione entro uno stesso modulo, fornendo in sintesi
la visione di una nazione compatta, operosa e orgogliosa della sua tradizione abbinando eccellenti lavoratori e lavoratrici a opere esemplari di ogni epoca in ogni località.
In settant’anni le trasformazioni produttive ed esistenziali hanno determinato sostanziali cambiamenti della penisola e dei suoi abitanti.
Il consumismo, interpretato in genere come panacea, ha contribuito all’egoismo individuale facendo perdere la tradizionale ricerca dei rapporti di equilibrio per stare civilmente al mondo, rispettare il contesto generale e guardare tutti insieme al futuro.
Basti pensare all’incidenza progressiva dell’immondizia ( ‘a monnezza) ed ai conseguenti problemi igienici delle città (all’inquinamento, allo smaltimento delle montagne di rifiuti ed alle losche speculazioni di gente di malaffare).
La pandemia che ha colpito ovunque nei primi mesi dell’anno, e l’Italia più di altre nazioni, poteva essere evitata o essere meno disastrosa? Ci insegnerà qualcosa? E’ corretto paragonarla ad una guerra, come molti informatori ripetono; guerra disastrosa che non si sa quando finirà, quante saranno le vittime, quali le conseguenze dei blocchi, delle trasformazioni delle attività produttive e dei cambiamenti dei rapporti?
Durante la guerra, per sfuggire ai bombardamenti, banchiere e mendicante potevano trovarsi di fronte nei rifugi con lo stesso problema e per un po’ sentirsi alla pari. E se il mendicante aveva con sé una borraccia d’acqua, avendo più dell’altro poteva essere il più generoso, invertendo le parti ed accorciando eccezionalmente le distanze.
Ora no, i privilegiati possono continuare a beneficiare delle loro lussuose residenze con parco ed ogni comfort standosene ancor più alla larga dagli emarginati, dai poco o nullatenenti.

Se la ripresa sarà graduale in ogni settore e con effetti economici imprevedibili, quanti individui, seppure professionalmente eccellenti, facenti parte di categorie poco organizzate,
già segnate pesantemente da anni di crisi, avranno la possibilità di continuare a vivere del proprio lavoro? Non è il caso di azzardare previsioni, ma se il paragone con la guerra è lecito, cessato il pericolo del Covid, com’è riuscita l’Italia postbellica a risollevarsi dal disastro con l’impegno di tutti, grazie anche all’umanità ed alla generosità dei più sensibili bisogna sperare in un virus altruistico contagioso: i francobolli di Alberto, quel suo di più, sono un esempio.
Quanti hanno già infinitamente più del necessario e stando alla sequenza di Fibonacci avranno esponenzialmente sempre di più fino a perdere il conto? Quanti si dimostreranno capaci da mettere in circolo parte dei loro surplus, non attraverso elemosine ma fornendo maggiori e migliori opportunità di lavoro ad altri?
Nei francobolli che ho descritto e riprodotto figurano in secondo piano o sullo sfondo opere architettoniche esemplari, identificative dei luoghi dove sono sorte.
Per le Marche c’è il Palazzo ducale di Urbino, creazione originalissima di Luciano Laurana coi suoi inconfondibili torrioncini racchiudenti i balconi sovrapposti.
Un palazzo equilibratissimo con scalinate agevoli e saloni dove non c’è un dettaglio casuale o raffazzonato, a dimostrazione che insieme ai grandi artisti hanno contribuito allo splendore della residenza una moltitudine di abili artigiani padroni dei loro mestieri.
Chiunque visitandolo anche a centinaia d’anni di distanza, apprezzando i risultati dell’impresa, tutto potrà dire del Duca meno che abbia dilapidato frivolmente le sue sostanze.
I dipinti commissionati, i marmi scolpiti, le tarsie dello studiolo come lo splendore della biblioteca ed ogni singolo volume manoscritto e miniato, così un mobile, un arazzo, un servizio da tavola; qualunque opera realizzata per lui e la sua corte, ovunque si trovi oggi è ammirata come o più di allora. Ogni espressione d’arte, d’alto artigianato e d’ingegno in genere, attesta in ogni epoca la volontà di non accontentarsi di fare per avere ma di provare a fare al meglio per dare; questo avviene tanto più quando chi ha i mezzi economici o le possibilità decisionali ha la sensibilità e la cultura per credere nel proprio contemporaneo.

Post Scriptum di Tullio Bugari.
Nei 19 francobolli della serie ” Italia al lavoro”, in parte riprodotti, sono sette le donne protagoniste; una percentuale inferiore rispetto alla rappresentanza maschile, ma ben più alta se paragonata alla quota di donne elette nell’assemblea costituente!
In quanto ai lavori che le donne rappresentano nei francobolli, beh, possiamo notare la raccoglitrice di olive, quella di arance, di uva, ci sono poi anche donne al telaio e al tombolo. Non mancano sullo sfondo nemmeno per loro, è vero, come evidenzia Bartocci soffermandosi per le Marche sul Palazzo ducale di Urbino, vedute architettoniche della nostra storia, da Castel Del Monte all’Abbazia di Pomposa.
Attira però la mia curiosità la donna del Friuli alle prese con il granoturco: m’è capitato di leggere testimonianze proprio di quegli anni, dalla pianura friulana del Cormor, di come utilizzando le foglie delle pannocchie riuscissero a ricavare un po’ di tutto, anche borse o cinture, esistevano anche laboratori artigianali, per raggranellare un po’ di reddito (ma dev’essere stato come per i francobolli che Alberto regalò ad Ezio: valgono poco!), ma tanto era nelle famiglie di contadini senza terra. Quando il lavoro, appunto, scarseggia.
Ma come le immagini proposte dai francobolli, quei tempi sono lontani.
Volendo allegare un’immagine meno romantica Ezio mi ha suggerito quella di una sua copertina del ’95 che eseguì per un numero di Prisma i cui articoli centrali si occupavano di Pari opportunità in generale, non solo la superficialità del lavoro. La donna nel cartello dei lavori in corso, già allora, quando me la propose, mi sembrò subito una buona provocazione. Trasmetteva e trasmette ironia. Richiama l’attenzione, rivendica un ruolo attivo fuori dai canoni. Poteva o potrebbe essere un francobollo originale per il Primo Maggio, ho pensato per un attimo, ma oramai la posta tradizionale è quasi un ricordo: i francobolli sono un genere in disuso e se qualcuno dovesse usarli oggi, guai ad applicarli come facevamo abitualmente!

(Italia al lavoro, la serie completa).