Archivio tag: Einaudi

“La malora”, di Beppe Fenoglio

978885840905GRATitolo: La malora
Autore: Beppe Fenoglio
Casa editrice: Einaudi

L’incipit del romanzo:
“Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia. Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m’avesse saputo così rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza. Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia. Mi fermai all’osteria di Manera, non tanto per riposarmi che per non arrivare al Pavaglione ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche gesto dei più brutti. Tobia e i suoi mi trattarono come un malato, ma solo per un giorno, l’indomani Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro mi sembrava di non aver mai lavorata una giornata come quella. Mi fece bene. Un po’ come fa bene, quando hai lavorato tutta notte nella guazza a incovonare, non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del sole.” Continua a leggere

“L’eco di uno sparo”, di Massimo Zamboni

6140908_358090-e1427726990831Titolo: L’eco di uno sparo, cantico delle creature emiliane
Autori: Massimo Zamboni
Casa editrice: Einaudi

L’eco di uno sparo è un racconto che scava nel proprio mondo e si fa esso stesso traccia di un qualcosa che, mentre costruisce per sé, lascia segni a noi che leggiamo, per renderci partecipi. Traccia, sia come sostantivo che come azione, o intenzione, che segna, incide, lascia echi e s’immerge in altri echi che scova, cercando l’angolo migliore per osservarli e restituirli, mentre si svolgono e si riavvolgono. Cose che si scoprono proprio mentre tornano a coprirsi, ma ora con un’evidenza in più: “Non c’è niente da fare, da qualche parte resta sempre una traccia di noi. Un eco che rimbalza”, scrive in un piccolo inciso l’autore. È quasi una scrittura per incisi, pensieri che prendono vita da dettagli, reali, cercati, letti, capaci di evocare uno sfondo, stanare un senso: “Io non sapevo nulla, del nome che avevo. Non poteva bastare, non è adatto a me vivere nella leggerezza del non sapere nulla. Ora qualcosa so, imparo che il sapere comporta il carico di pesi.”

L’eco di uno sparo è fatto di ben altre onde, rispetto a quelle sonore; non è l’esitazione di un suono prima di sottrarsi alla nostra attenzione, o di richiamarla ad un silenzio attonito; è la nostra stessa attenzione, piuttosto, ad esitare, quando non sa o non vuole distogliersi da quell’eco. Echi anche come silenzi bisbigliati nella casa dove l’autore è stato bambino, frasi taciute, non detti, presenze assenti o sospensioni di respiro, quando qualcuno pronuncia, quasi furtivamente, certi nomi. Di un mondo, di una storia, di una trama già scritta, ancora capace di squassare certezze conquistate nel frattempo, opposte a quelle della famiglia, e che sembrano date o immediate, e invece sono intessute comunque di un tutto, che quando lo cerchi inizia a emergere, un poco alla volta, a mostrarti altri lati.

La lettura della prima parte del libro è scorsa via come un viaggio in un mondo di miti – cantico delle creature emiliane; è il contesto del tempo, della vita come era, dove nulla è dato così come appare ma ogni storia è già data nella sua realtà; un mondo che, pur con tutte le sue asprezze e aperte e ineliminabili contraddizioni, a me che leggo appare anche ovattato. Lo stesso autore, mentre lo rievoca, si trova a citare dei film, come l’Albero degli zoccoli, o una poesia che parla della bicicletta, di Zavattini. Un viaggio a ritroso che procede anche per lacerazioni, quando a tratti svela, o semplicemente conferma: “Avrei preferito un colpo in piena faccia, una sberla piena, ben assestata, con le dita a ventaglio….”; e diverse pagine più avanti: “Torniamo a (…) vi ho nascosto qualcosa, e ho dovuto allungare la scrittura per attutirmelo un po’…”, e di nuovo, dopo qualche pagina ancora: “Devo interrompere la lettura del verbale. Lo schiaffo brucia. Credo che (…) se ne sia accorto, lui sapeva che mio nonno era tra loro.” Continua a leggere