Archivio tag: Gwynplaine edizioni

Casa editrice: Gwynplaine edizioni

‘E Riavulille, di Tullio Bugari

Titolo: ‘E Riavulille
Autore: Tullio Bugari
Casa editriceGwynplaine edizioni

Il titolo ‘E Riavulille è mutuato dalla smorfia napoletana e ci dice che si tratta del numero 77, i diavoli. In realtà il racconto, cronaca postuma di eventi che hanno segnato la storia politica e sociale della seconda metà del secolo appena passato, fa riferimento esplicito al Settantasette: l’anno dell’esplosione dell’ultima rivolta di classe, l’anno che segnò la frattura mai più ricomposta tra l’autonomia del conflitto reale e le nebulose prassi dei partiti della sinistra ufficiale e il riflusso della lotta sindacale. Siamo, tuttavia, di fronte a un racconto originale che, così dato, aiuta il lettore ad approfondire aspetti collaterali cui spesso si soprassiede per vizio di centralità degli eventi. Tullio Bugari ci ha abituato a racconti atipici di eventi storici importanti; abbiamo già raccontato, qualche anno fa, del suo tour in bici lungo la linea gotica, occasione quella per rievocare la Resistenza partigiana nell’entroterra centro settentrionale, dalle Marche alla Liguria attraversando l’arco appenninico toscano, questa volta il Settantasette è raccontato con gli occhi dei giovani ribelli marchigiani, riavulille, piccoli demoni che dagli eventi delle città (Roma, Bologna e Milano) assimilano forme espressive alternative e le importano  nei loro territori della provincia, spesso definita come luogo tranquillo e lontano dalla violenza metropolitana. Metti una radio, individua una fabbrica, aggiungi pratiche di lotta coerenti e l’autonomia della sinistra di classe dalla sinistra ingabbiata nelle compatibilità del sistema viene zippata in un piccolo territorio delle Marche che non solo teorizza ma pratica quotidianamente il suo Settantasette, rovesciando schemi e stilemi della borghesia e dei partiti storici che non comprendono (e non comprenderanno negli anni a venire) la potenzialità rivoluzionaria di quella che fu l’ultima stagione felice di una rivoluzione possibile.

Ci è piaciuto molto rileggere le opinioni filtrate dal contesto immediato, sulla cacciata di Luciano Lama dall’università, sulla morte di Giorgiana Masi e di Francesco Lorusso, sul sostegno, via etere e anche materiale, ai compagni di radio Alice che a Bologna resistettero tenacemente all’assalto dei celerini, su quel modo, assolutamente self-made, di fare controcultura e controinformazione perché, ora possiamo riconoscerlo serenamente, in quei giorni, in quei mesi, si liberò quell’autonomia possibile della sinistra di classe, con la quale, a lungo, la borghesia dovette fare i conti. Alla fine vinse il grande capitale, con le sue armi chimiche (droga), con le sue sirene (mercato), quelle stesse armi che oggi, distrutto o ridotto al silenzio larghe masse di proletariato, stanno ritorcendosi contro di lui.  E pure chi partecipò a quelle lotte, alle occupazioni di case e scuole, agli espropri proletari, agli scontri con la celere, al termine della lettura potrà almeno sentire una punta di orgoglio per aver contribuito, lontano da piazze e luoghi famosi, alla formazione di piccoli nuclei resistenti che, dalle periferie, fece sentire forte la propria voce. Alla fine il lettore amerà comunque della stessa intensità l’operaio Febo e la moglie, la femminista Arianna, Aura, neolaureata che s’improvvisa contadina, il Fotografo che vive a Roma e funge da ideale staffetta, raccontando agli amici della provincia gli eventi attraverso i suoi scatti, l’anarchico Cafiero e l’ex operaia Nemesi. Finiranno tutti ingoiati dal riflusso e dall’edonismo reaganiano degli anni ’80? Non è dato saperlo, quel che è certo è che cercarono una via, un’alternativa al dominio assoluto del capitalismo ed ancora oggi rappresentano un esempio ai tanti di noi che non smettono di rivendicare autonomia di classe dalle logiche liberiste.  (Enzo di Brango, Le Monde Diplomatique, giugno 2018).

(Un estratto del romanzo sulla rivista La macchina sognante.)

Recensione del libro di Maria Grazia Maiorino “Angeli a Sarajevo”

maiorino-angeli-a-sarajevo-coverGiovedì 13 ottobre, ore 21.15, secondo incontro di LE MARCHE IN BIBLIOTECA, I Giovedì Letterari della Planettiana. Il libro della serata è “Angeli a Sarajevo”, di Maria Grazia Maiorino, Gwynplaine editore.

Una recensione di Tullio Bugari.

C’è come una trama tessuta da più fili in questi racconti, ove le parole si fanno leggere e il linguaggio delicato e pieno, sempre mobile, che s’immerge e riaffora, si guarda e vede nessi, rimandi a nuove trame, segue il senso di quei fili in luoghi toccati ora dai ricordi, o da nostalgie, talvolta rimpianti. Una o più trame che giocano a svelarsi o nascondersi, sopra o sotto la superficie, o a svelare proprio ciò che è già in superficie, implicito, tra le parole stesse, o nelle relazioni, nelle cose, e richiede soltanto una tacita attenzione. “Che cos’è quella corda tesa fatta di sguardi e di parole che le tiene ancora lì?” si chiede Elena mentre ci guida nel racconto “Cambiamenti”. Chi c’è e cosa ai capi di quella corda tesa come un legame, un filo attraverso cui i mondi interiori accendono un contatto? I cambiamenti come delicate metamorfosi di ciò che il corpo e i luoghi già contengono, anche quando sembrava non ci fossero più.

Leggerezza è la prima parola che mi è venuta la prima volta che ho letto i racconti di Maria Grazia Maiorino, e si trattava proprio di uno dei racconti qui presenti, “La casa delle iris”, e usai questa parola in pubblico nell’introdurre la conversazione con lei, e ancora mentre la pronunciavo questa parola ne avvertii anche il significato negativo che di solito le viene attribuito, e quindi sentii il bisogno di correggermi, ma così, messo alla sprovvista da me stesso, mi percepii un po’ goffo, come un infantile tentativo di correzione. Mi resi conto solo dopo che per un momento ero davvero entrato in sintonia con quel linguaggio.

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“Maledetta la Repubblica fondata sul lavoro”, di Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni


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Titolo: Maledetta la Repubblica fondata sul lavoro
Autori: Alessandro Pertosa, Lucilio Santoni
Casa editrice: Gwynplaine edizioni

«La Repubblica è fondata sul lavoro. Viva il lavoro. Non importa quale. Non importa dove. Non importa come, con chi e perché».  Inizia con questa citazione del cantautore Enzo Del Re, sul lavoro inteso come un fine, o sul lavoro come ci viene proposto normalmente, il lungo dialogo tra i due autori, che hanno preferito alla modalità del saggio, distaccato e scientifico, la forma più amichevole, appunto, del dialogo. Un po’ come i dialoghi pedagogico filosofici dei momenti cruciali, tipo il “Fra Contadini” di Errico Malatesta, o il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo Galilei, o il “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere” di Giacomo Leopardi.

Li sparo troppo forti i paragoni, scomodando questi classici? È un’esagerata adulazione nei confronti dei due autori? Non mi pare proprio che aspirino all’adulazione. Li ho incontrati una sera per chiacchierare sul libro, in uno di questi posti che Marc Augé definirebbe “non luoghi”, ma che ai giorni nostri stanno diventando la maggioranza: un bar all’ingresso di un centro commerciale a sud di Ancona non ricordo più nemmeno quale, tra gente che andava e veniva e una musica non proprio di sottofondo, comodo però per essere raggiunto facilmente in auto da diverse direzioni. Continua a leggere

“Padre, padrone, padreterno” di Joyce Lussu

PadrePadronePadreternoTitoloPadre, padrone, padreterno
Autore: Joyce Lussu (a cura di Chiara Cretella)
Casa editriceGwynplaine edizioni

“Larga la foglia stretta la via, dite la vostra ché ho detto la mia. chiudo e passo, dalla sponda destra del fiume Tenna fluente dai fianchi del monte Sibilla, in questo giorno 28 agosto 1976, anniversario della morte e centenario della nascita di mia madre, casalinga obbligata ma indomita e sibillina; che mi spiegava, sorridendo, come i periodi passati nelle carceri fasciste e al confino erano stati, per lei, epoche di sontuosa libertà dai lavori forzati della vita domestica.”

Si chiude con queste parole, e questo ironico invito a riprendere noi la parola, il lungo racconto di Joyce Lussu, dalla lunga introduzione di auto-presentazione (“Essere donna”) ai diversi capitoli di approfondimento storico dal punto di vista delle donne, e insieme delle lotte di classe contro i soprusi: “Schiave e matrone”, “Villane e castellane”, “Streghe e mercantesse”, “Padrone e proletarie” sono i titoli; un filo conduttore che rende necessario inserire dietro la parola Civiltà un punto interrogativo, ancora oggi da sciogliere: “Un tempo si chiamava “storia” solo la storia delle classi dominanti. Oggi questo punto di vista appare inaccettabile.” Continua a leggere

“L’uomo che voleva nascere donna”, di Joyce Lussu

Uomo-che-voleva-nascere-donnaTitoloL’uomo che voleva nascere donna. Diario femminista a proposito della guerra.
Autore: Joyce Lussu (a cura di Chiara Cretella)
Casa editriceGwynplaine edizioni

Il titolo nasce da un episodio della seconda guerra mondiale, raccontato all’inizio, in cui un soldato impreca che avrebbe voluto nascere donna, così avrebbe evitato l’inferno di quella guerra reale in cui si trova immerso. Subito, questa scena di per sé quasi banale – nel nostro orizzonte culturale – si rovescia nel suo opposto, attraverso il lungo racconto dell’autrice, che è donna, e anche pacifista, e la guerra non l’ha evitata.
Il titolo e il sottotolo potrebbero, anche, far venire in mente un libro rivolto ai ricordi del passato, a un mondo che oramai non c’è più perché tutto è diverso. Invece è un libro attualissimo, anche per i giorni di oggi e anche se Joyce Lussu lo ha scritto nel 1978. Un esempio: “Il 15 aprile (del 1978) andai a Ottana, nella Barbagia di Nuoro, a parlare con gli operai della petrolchimica che producono fibre artificiali in un’immensa fabbrica, la cui presenza ha distrutto e conomicamente e culturalmente l’unica zona d’Italia dove si producevano fibre naturali di lana di pecora, le quali, come è noto, sono sempre piùrichieste sul mercato internazionale (l’allevamento di pecore è raddoppiato nel mondo in questo dopoguerra) mentre sempre meno si richiedono i sottoprodotti del petrolio per le loro caratteristiche negative.” Si tratta dello stabilimento della Montedison, “una specie di astronave da film di fantascienza”, la famosa razza padrona dell’epoca. “A pochi chilometri c’è lo stabilimento della Sir di Rovelli, realizzata con i soldi della Regione destinati all’agricoltura: “un’altra astronave, che peraltro non è ultimata e non ha mai prodotto nulla.”
Di cosa si parla se non del nostro mondo di oggi? Oggi che per lamentarci del presente rimpiangiamo i bei tempi d’una volta, dimenticando che se sono stati davvero belli è perché qualcuno se li è guadagnati, e che comunque i nostri mali di oggi è da là che sono nati, e non riusciamo a comprenderli davvero se da lì non ripartiamo.
Il libro, allora, ci appare nella sua veste di riflessioni, domande, osservazioni, di caparbio recupero delle ragioni di fondo di una lotta partigiana, con i suoi sacrifici, per inaugurare questa repubblica. Aggiunge però l’autrice, a scanso di equivoci: “Debbo tuttavia far presente (…) che la lotta contro il fascismo non è stata per me un sacrificio, ma una scelta convinta e soddisfacente…”.
E’ in corso il rapimento di Aldo Moro mentre Joyce Lussu sta compiendo questo viaggio in Sardegna raccontato nelle prime pagine. E da qui, anche da qui, da questo viaggio, parte una serie di riflessioni sulle armi e sulla guerra: “Sulla guerra e sulla pace, da che mondo è mondo, è stato già detto tutto, in maniera egregia e ineccepibile” ma “evidentemente, per liberarsi della guerra, bisogna fare analisi nuove, partire da angolazioni diverse, che non siano solo emozionali, morali o filosofiche (…) ma politiche e aderenti alla realtà di oggi, ai livelli tecnologici e civili nei quali viviamo.” Continua a leggere

“L’Arcatana. Viaggio nelle Marche under 35”, di Valerio Cuccaroni

Titolo: L’Arcatana. Viaggio nelle Marche under 35
Autore: Valerio Cuccaroni
Casa editrice: Gwynplaine edizioni

“L’Arcatana è un’invenzione linguistica che troviamo nel romanzo ‘Corporale’ (Einaudi) del grande scrittore urbinate Paolo Volponi. In uno dei passi centrali del romanzo, il protagonista, alla ricerca di un rifugio antiatomico tra le Cesane, ha una sorta di rivelazione della natura del luogo da lui cercato: ‘ Vuol dire allora che il mio non si chiamerà più rifugio, in qualsiasi altro modo: buco, barca, arca, tana, tramite lo smeraldo, questa tua pietra mezzo-animale, che mi hai regalato (…) Arcatana: arca, tana, tana arcata…na…turale che serve a coprire con opportuni scavi e accorgimenti e attrezzature uomo-animale-smeraldo disposto (…) a riemergere diverso’ .“
Scrive così Valerio Cuccaroni nell’introduzione al suo lavoro, con questa citazione di Volponi, per trasmetterci il senso di Arcatana, una ricerca che è anche un “viaggio nelle Marche under 35”. Il lavoro, spiega l’autore, è nato nel 2011 ed è stato pubblicato inizialmente a puntate su il Resto del Carlino, per poi essere raccolto in questo volume, sistemato e integrato con altri interventi: “l’impressione da cui sono partito è che esista un movimento artistico nelle Marche e che sia utile mapparlo e raccontarlo. (…) La difficoltà maggiore di questa galassia è uscire dalle orbite consuete, in cui si son mosse le generazioni precedenti, per trovarne di nuove, condividerle e ampliarle. A uno storico isolamento, in effetti, imposto agli abitanti delle Marche, nei secoli scorsi, dalla conformazione del territorio, si aggiunge, una vocazione tradizionalmente artigianale e rurale del marchigiano medio, che non ha mai collocato la cultura, se non quella performativa (essenzialmente musicale), tra le sue priorità.”
Il lavoro è presentato in cinque sezioni tematiche: Letteratura, Arti visive, Arti sceniche, Cinema. Musica) e una sezione finale – Gli spazi – dedicata ai “luoghi” della cultura. Ciascuna sezione si articola a sua volta con uno sguardo generale, a cui seguono approfondimenti o interviste ad alcuni autori, prestando sempre attenzione alle connessioni e alla condivisione delle esperienze, all’informazione e al dettaglio delle tante iniziative che s’intrecciano. Una galassia in movimento, contemporanea a noi e al tempo stesso, forse, già da mappare di nuovo, nel suo stesso evolversi o negli aspetti da approfondire ulteriormente. Diversi possono essere i temi, che già appaiono tutti, o accennati o citati direttamente o anche sullo sfondo. Ad esempio, il rapporto tra la regione e l’altrove esterno, oppure il rapporto con “le politiche” e il loro ruolo, sempre complesso.
L’ultimo capitoletto s’intitola “Le chiavi della città ai nostri giovani creativi”: “In questo momento, in Italia, un giovane su tre, come tutti ormai tristemente sanno, non ha lavoro e, in alcuni casi, ha smesso addirittura di cercarlo (…) eppure è solo investendo sui giovani, specie sui più capaci e creativi, che si può avere un futuro. Il perché è scontato: i giovani sono il futuro e lo sono adesso. Lo sanno tutti, ma molti fanno ancora finta di niente. Non ci possono essere “generazioni perdute”: se si perde la nuova generazione si perde un giro.”

“Non mi basteranno due occhi per piangere”, di Angelica Paolorossi

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Titolo: Non mi basteranno due occhi per piangere
Autore: Angelica Paolorossi
Casa editrice: Gwynplaine edizioni

Recensione di Tullio Bugari:

«L’ho letto d’un fiato, come quando ti manca il fiato. Trascinato dallo stile, come una scrittura in presa diretta, che si presta molto bene anche ad una lettura ad alta voce. L’ho provato anche scegliendo pagine a caso e funziona sempre. La storia di per sé potrebbe anche essere banale, così come sono purtroppo banali tante porcherie che accadono nel mondo e a cui siamo quasi assuefatti, senza indignarci, di solito le ascoltiamo distratti mentre a tavola ascoltiamo il telegiornale all’ora di pranzo o in auto ci rechiamo al lavoro. Una giovane migrante attirata da un’amica che la inganna per metterla al suo posto in un night a prostituirsi: “Neanche due settimane e ci sono dentro completamente. La notte ballo intorno a un palo. Il giorno mi nascondo nel letto.” Frasi brevi, secche, dirette, che scrutano un mondo alieno e ci invitano a vederlo – questo nostro mondo normale – attraverso altri occhi. Anche lo sguardo dell’autrice sembra farsi da parte per non intralciare. Non c’è nulla di sociologico, nessuna spiegazione o interpretazione, psicologia, riflessione o considerazioni, tutte quelle cose che, insomma, anziché avvicinarci ci allontanano. L’autrice entra dentro lo sguardo della protagonista e si sforza di guardare attraverso quello, descrive ciò che vede, che avviene in quell’istante: “Questi maledetti maschi mi infettano. Con il loro incontenibile essere maschi. Con la loro violenza congenita.”   E’ un racconto in prima persona ma non è scritto nemmeno come un’autobiografia perché l’autobiografia è già uno scrivere vedendo il pensiero mentre si forma, attribuisce un significato, trasforma la vita in racconto e ce la mostra sempre da un’angolazione in cui possiamo scorgerla per intero. Chi la scrive riesce a muoversi con una duplicità di sguardi, qui invece lo sguardo è uno solo e procede a tentoni, come una telecamera in una endoscopia, è atroce: “Non c’è più niente da dire”.  Non c’è un senso: “Che cosa cerca un uomo in un amore sconosciuto. Che cosa compra posando i soldi sul bancone.” Tutte domande senza punti interrogativi, che dunque non attendono risposta, oppure anche le risposte somigliano ad altrettante domande. Uno sguardo che è un rumore di fondo, un monologo ininterrotto e solitario: “Non un’anima che mi rivolga parola. Non una persona che riesca a vedermi.” C’è un momento in cui la ragazza, tornando a casa, si ferma in una bar a bere e chiacchierare con degli studenti, come una di loro ma poi… “Poi c’è uno che mi fa quella domanda terribile. Tu che cosa fai nella vita. Io non so cosa rispondere. Vorrei avere qualcosa da dire. Qualcosa che non mi faccia sembrare una prostituta. Qualcosa che non mi faccia incendiare le guance. Dico il mio bicchiere è vuoto. Non vedi che il mio bicchiere è vuoto. Insiste. Dico io sono una ballerina. Ridono. E fanno bene. Un signore dice che è vero. E’ vero che ballo. In un locale di zoccole. E quelli ridono ancora di più. Tutti hanno ragione di tutto. Ce l’hanno o se la inventano. Io non so costruire ragioni. Non so difendermi. Me ne vado.  Non indosso un alter ego. Non indosso un alter ego fantastico.”»