Le Marche in Biblioteca: i due brani letti da “Amazzone in tempo reale”

37b2e238-b4e8-4349-92a3-f8df0f7ff439“Amazzone in tempo reale” di Loretta Emiri.

I due brani che seguono sono stati letti durante l’incontro con l’autrice, rispettivamente da Cristina e Paolo del gruppo ArciVoce.

 

Brano estratto dal racconto “Xavante”:

Ci eravamo date appuntamento a Cuiabá, capitale dello Stato e importante snodo regionale, provenienti da vari e lontanissimi luoghi: sei donne che avrebbero impartito un corso di formazione e aggiornamento per maestri xavante. Con il pullman raggiungemmo la cittadina piantata ai margini della riserva indigena, dove c’era ad aspettarci la camionetta di un padre salesiano. Arrivammo a destinazione verso sera, ma c’era ancora luce sufficiente per intravedere quanto alti, forti, belli e alteri fossero gli uomini che stavano aspettandoci. Fu amore a prima vista: tutte e sei ci innamorammo, e non di uno, ma di tutti loro.

Le novità scandirono le ore di quei giorni tanto corti: ricerche linguistiche e cosmogoniche; lezioni di etnomatematica e portoghese; informazioni su diritti acquisisti e su come organizzarsi per far approvare nuove leggi; verifiche e programmazioni didattiche; dinamiche di gruppo, filmati e discussioni. Per sgranchire le idee si facevano quattro passi fra la miriade di solide costruzioni facenti parte la missione salesiana, e si raggiungeva l’attigua ampia piazza su cui, in circolo, si affacciavano le quaranta fresche case di paglia degli xavante. A volte si aveva tempo per andare fino ai campi dove, in disordine sparso, si scorgevano macchinari e strumenti abbandonati; le squallide sculture di ferro era quanto restava di faraonici piani governativi di sviluppo agricolo per paleolitiche popolazioni e suoli aridi.

Un maestro, mostrando il disegno realizzato dal gruppo di studio cui aveva fatto parte, ci aveva spiegato che l’elemento principale del disegno stesso era il circolo, che la disposizione in circolo del villaggio simbolizza l’unione del popolo xavante, che tutte le feste tradizionali iniziano nel centro della piazza, e che, se non ci fosse il circolo, non esisterebbe “finalità”. Per quella che sarebbe stata l’ultima notte del corso, gli anziani organizzarono una festa di commiato. Le insegnati sfoggiarono vestiti resi da sera da eleganti collane indigene. Gli alunni indossarono calzoncini da calciatore e impeccabili bianche cravatte di corda di cotone, a cui gli occidentali debbono essersi ispirati quando crearono il farfallino. Danze e canti, compresi quelli eseguiti da rappresentanti dei popoli mỹky, tapirapé, bororo e rikbaktsa, iniziarono al centro per poi continuare su tutta la piazza. Tenendoci per mano formammo un circolo, sempre più ampio con l’aggiungersi di persone, e quando l’ultima ne entrò a far parte avvertimmo che era stata raggiunta la finalità di sentirci uniti.

Al termine della festa, gli anziani ci suggerirono di non ripartire senza andare a vedere un punto determinato del fiume São Marcos, e misero a disposizione il camion della comunità per raggiungerlo. L’indomani, l’euforia per l’escursione svegliò tutti molto presto. Seduti sul cassone o sulle sponde dell’automezzo, con seni e pensieri al vento, pur cogliendo gli elementi scenografici disseminati lungo il percorso, ognuno di noi sembrava concentrato a scrutare dentro sé stesso. Sobbalzava, il camion, sull’accidentata pista di terra battuta; in direzione opposta poteva correre solo l’ovvio.

Improvvisamente scomparve la vegetazione che fiancheggiava la strada e il corso d’acqua inondò occhi e cuori. Sul palcoscenico naturale era adagiato il fiume ampio cosparso di rocce, pozze, rapide, cascate. Il verde lussureggiante delle montagne si profilava contro l’azzurro mozzafiato del cielo, i due elementi facendo da sfondo alla scena. Nell’aria il calore del sole, l’odore sensuale della natura, la luce dello spirito. Quella geografia intrisa di poesia materializzò il concetto portante del corso, l’etnoscienza. Quell’acqua, che per giorni accoglie gli adolescenti xavante per temprarli fisicamente e psicologicamente, trasformò le insegnanti-specialiste e gli alunni-maestri in uomini e donne. Quelle fresche cascate massaggiarono vigorosamente i corpi, fino a che gli animi si sentirono accarezzati.

Gli unici che non entrarono nella fonte battesimale furono il salesiano di mezza età e il pretonzolo impomatato. Continuarono a passeggiare lungo la sponda. La religione che li aveva vestiti impediva loro di farsi vedere in costume da bagno. Non resero omaggio alla natura. Non entrarono nel circuito per condividere lo stato di grazia degli animi. Commisero il peccato mortale di introdurre in quel paradiso terrestre concetti relativi a pudore, falso pudore, ipocrisia, peccato.

Fertilizzati dal limo delle acque del fiume São Marcos, facemmo ritorno alla missione per realizzare la valutazione finale del corso e dichiararlo concluso. Ondulate dall’emozione, le voci di quegli uomini alti, forti, belli e alteri sussurrarono: “non ho parole per dire ciò che sento”, “non voglio pensare che potrei morire, perché non parteciperei a un altro corso”, “smetto di parlare per non piangere”. Uniti dallo spago del gomitolo che era circolato fra di noi mentre realizzavamo le valutazioni personali, consapevoli di aver vissuto un’esperienza unica, avvertimmo che la finalità del corso era stata raggiunta.

La valigia quasi non mi si richiudeva più. Vi avevo riposto una voluminosa nostalgia. Ogni tanto spunta fuori, speciale, unica. Riesce a colmare ed abbellire vuoti interiori.

Brano estratto dal racconto “Patamona”:

Viveva appena fuori dal centro di Boa Vista, in un rione tuttora popolato quasi esclusivamente da indigeni, che i bianchi spregiativamente chiamano caboclos. L’esuberante vegetazione del luogo sembra voler proteggere gli abitanti, nasconderne la povertà, le costruzioni sbilenche. Su quel verde, i panni stesi spiccano come artistici tocchi di colore.  Nelle minuscole aree che circondano le casupole, all’ombra degli alberi da frutta, rotolandosi nella polvere o nel fango a seconda della stagione, crescono animali domestici e bambini. Galline e maiali convivono con scimmie e tartarughe. Non di rado, stormi di pappagalli sorvolano l’area squarciandola con i loro striduli richiami; mentre da pareti domestiche è possibile che fuoriesca il vociare di ubriachi perpetui, o il tutto volume di radio e giradischi.

Mi piaceva attraversare quel rione andando a trovare la mia amica. Come le altre  case,  anche  la  sua  era  eternamente  in  costruzione.  Man mano che la famiglia cresceva, aumentava il numero delle stanze; che però restavano spoglie e senza intonaco, adorne solo di ganci cui appendere nuove amache.  Nell’ingresso troneggiava un divano sforacchiato e liso, su cui riprendevo fiato dopo la lunga camminata. Composta da padre, madre, varie sorelle, un fratello carnale e uno adottivo, una cognata, un numero imprecisato di nipoti, la famiglia tutta mi riceveva con calore. Il più delle volte la casa ospitava anche parenti e amici giunti dall’interno dello stato, bisognosi di trascorrere un periodo in città per risolvere problemi. Povere come erano, quelle persone avevano sempre qualcosa da farmi portar via: un pezzetto di beiju già secco, due maracujás da trasformare in bibita.

La mia amica lavorava, ma era sempre al verde. Si pagava gli studi universitari e aiutava la  tribù famigliare endemicamente affetta da problemi economici. Quando viaggiavo le lasciavo la casa a disposizione, così che potesse concentrarsi e studiare con profitto. Me ne era grata e io lo ero nei suoi confronti, dato che il mio cantuccio non restava alla mercé dei soliti ladri. Quando penso a quella ragazza, mi tornano in mente parole e gesti semplici e, al tempo stesso, traboccanti di significato. Se mi faceva visita, arrivava con frutta raccolta nel suo cortile, o con fiori messi insieme lungo il tragitto che separava le nostre abitazioni. Qualche volta andavamo a cena fuori; prediligevamo un ristorante vicino al fiume, perché la sua brezza arrivava fino ai tavoli disposti all’aperto sotto un’ampia tettoia. La serata cominciava scambiandoci confidenze e terminava con noi due che, invariabilmente, ci sentivamo più tranquille, perché le parole e gli atteggiamenti dell’una finivano per rasserenare e incoraggiare l’altra.

Dei momenti vissuti insieme, uno fu particolarmente espressivo. Eravamo sedute sulla sponda del fiume e lo guardavamo scorrere e brillare. Mi raccontò di aver trascorso alcuni giorni nella Guyana. Luoghi, persone, situazioni, tutto le era parso affascinante. Durante il soggiorno aveva maturato una decisione: ogni qual volta l’uomo bianco l’avesse apostrofata con il termine cabocla, lei avrebbe asserito “io sono patamona”. A imprimere il giusto valore a quelle tre striminzite parole furono il tono della voce e gli occhi che brillavano più del fiume.

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