Archivio dell'autore: michele bugari

La poesia in Biblioteca: cronaca dell’ultimo Giovedì Letterario

unnamedAlcuni appunti sull’incontro con Francesco Scarabicchi, nella serata conclusiva dei Giovedì Letterari della Planettiana

di Tullio Bugari

La poesia in biblioteca, mi veniva da commentare giovedì sera, parafrasando il titolo della nostra rassegna, durante l’ultimo dei cinque giovedì letterari della Planettiana, a conclusione di questo itinerario, mentre ero seduto vicino a Francesco Scarabicchi e lo ascoltavo, cogliendo nelle sue parole non un bilancio di chiusura ma l’apertura di uno sguardo che ha la stessa tensione di un abbraccio, o di un respiro. Inizio a scrivere i primi appunti sulla serata appena qualche istante dopo, per ascoltare meglio le suggestioni che ho provato. Nel clima caldo e amico della sala, come un ritrovarsi, attraverso la conversazione tra poeti, tra Alessandro Seri e Francesco Scarabicchi e le poesie di Francesco musicate e cantate da Marco Gigli e Gastone Pietrucci, La Macina, tra cui Nave che porti a niente. Io mi sono inserito leggendo un brano del libro scelto per l’incontro, Una città di scoglio, perché fin dalla prima volta che l’ho aperto, l’ho  sentito come uno di quei libri che ti fanno venire la voglia di leggerli ad alta voce. A me ha fatto questo effetto, e non solo e non tanto per il fluire bello delle parole ma proprio per il passo che le accompagna e l’attenzione dello sguardo. È questa la mia sensazione, un libro di passi e di sguardi. Passi e sguardi di poeta. Così ho chiesto a Francesco di inserirmi nella conversazione leggendone un brano, e ho scelto quello dedicato alle librerie, al primo ingresso in libreria di quel ragazzo che allora, con le monete in mano raccolte durante la settimana, si preparava al suo primo acquisto, e poi seduto nella panchina di fronte contemplava, stupito e consapevole, il libro tra le sue mani. Quasi un rito d’iniziazione. Una dichiarazione d’amore per la parola scritta sulla carta, con la sua fisicità, che ha un suo luogo e un suo tempo. Continua a leggere

Giovedì 27 ottobre il 4° incontro con Le Marche in Biblioteca: “I matti del duce” di Matteo Petracci

LE MARCHE IN BIBLIOTECA
I Giovedì Letterari della Planettiana

Quarto incontro
Giovedì 27 ottobre alle ore 21.15

“I matti del duce” di Matteo Petracci, Donzelli editore (http://www.donzelli.it/libro/9788868431310).

Conversazione con l’autore, lettura di alcuni brani a cura del gruppo ArciVoce, commenti musicali a cura della Scuola Pergolesi (http://www.scuolapergolesi.it/nuovo_sito/)
La serata si concluderà con una degustazione di vini locali offerta dall’azienda La Staffa (http://www.vinilastaffa.it/staffa/?page_id=17) di Staffolo, con la collaborazione di Pergolesi Enocaffè (http://www.pergolesienocaffe.it/).

La rassegna è promossa e organizzata dalle associazioni culturali Altrovïaggio e Licenze Poetiche con la collaborazione della Biblioteca Planettiana di Jesi e un contributo del Comune di Jesi.

Programma:
http://www.altroviaggio.org/category/le-marche-in-biblioteca/
https://licenzepoetiche.wordpress.com/

Il vino è il canto della terra verso il cielo

di Tullio Bugari

vino

“Come io ammiro Picasso perché lo riconosco, così posso apprezzare un vino o qualsiasi altra cosa che viene dalla terra, se la riconosco. Trovo che questo sia un recupero di civiltà, di intelligenza e di libertà estremamente importante. Per questo non mi piacciono i prodotti tipici. Sono diventati un marchio commerciale. Non mi piacciono le tradizioni imbalsamate.  Ma voglio sapere dove nasce un prodotto. Mi fido dell’autocertificazione del produttore che mi spiega come è fatto il suo vino o i suoi ortaggi”.

Scrive così Luigi Veronelli a proposito del vino, e leggendo queste righe mi vengono in mente anche tante analogie, in contesti e momenti anche molto diversi, come passeggiare sotto un cielo stellato, alzare lo sguardo e potersi ritrovare in una mappa familiare di costellazioni e antichi miti scegliendo poi ognuno il suo, oppure mi viene in mente un libro di tanti anni fa di un mio amico che aveva vissuto in un paese del centro america, e l’aveva intitolato le diciassette tonalità di verde, tanti i nomi utilizzati dagli indigeni per cogliere le diversità e particolarità dei tanti verdi che rendono più viva la natura, potendo così apprezzarla nella sua varietà e non invece uniformata o standardizzata sulla base di una tonalità media monocolore. E potrei continuare ed estenderle perfino a questo percorso di cinque appuntamenti in Biblioteca, cogliendone la ricchezza della trama nella particolarità degli stimoli offerti da ciascuno degli incontri. O per usare le parole ben più appropriate di Francesco Scarabicchi, nel testo che ci ha inviato per il primo incontro, “la forza delle parole”: “Ogni cosa ha il suo nome per essere conosciuta, ‘chiamata’, definita.” Ed è per questo che si può “cogliere (sotto il profilo emotivo, sensoriale, percettivo, mentale e poi linguistico, formale, artistico, letterario) la presenza della poesia nella vita quotidiana, attraverso le sue manifestazioni minime.”

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Le Marche in Biblioteca: recensione del libro di Matteo Petracci “I matti del duce”

Giovedì 27 ottobre ore 21.15, quarto incontro di LE MARCHE IN BIBLIOTECA, I Giovedì Letterari della Planettiana. Il libro della serata è “I matti del duce”, di Matteo Petracci, Donzelli editore.

La recensione di Luca Pakarov, «La pazzia non allineata», apparsa su Il Manifesto del 29 gennao 2015:

I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista. L’istituzione totale come punizione e marchio d’infamia per i dissidenti

cop_matti-del-duceUna ricerca durata cinque anni fra ospedali psichiatrici e Prefetture per capire come, nel Ventennio, la medicalizzazione del dissenso fosse considerata innanzitutto una tutela sociale, come l’eterodossia diventò sinonimo di malattia. Ne I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista (Donzelli, pp. 238, euro 33) il pregiudizio entra nella psichiatria e viceversa giacché, ogni qual volta si devono combattere le idee contrarie al pensiero unico, la repressione si instaura agevolmente nelle pieghe dell’interpretazione scientifica. Un punto di vista inesplorato sul totalitarismo fascista, caduto nell’oblio con l’armistizio, anche, e comprensibilmente, per volontà delle stesse vittime che continuarono a percepire l’internamento come un marchio di infamia, talvolta da nascondere agli stessi figli. A tracciarle mediante referti medici e giudiziari, lettere e testimonianze dei famigliari, con un’attenta e fruibile narrazione, è stato lo storico Matteo Petracci che, seguendo un’ingente mole documentaria, è riuscito a ricostruire alcune delle vicende dei 475 antifascisti schedati nel Casellario Politico Centrale e finiti in manicomio giudiziario. Di questi, 122 persero la vita. Continua a leggere

Le Marche in Biblioteca: i due brani letti da “Amazzone in tempo reale”

37b2e238-b4e8-4349-92a3-f8df0f7ff439“Amazzone in tempo reale” di Loretta Emiri.

I due brani che seguono sono stati letti durante l’incontro con l’autrice, rispettivamente da Cristina e Paolo del gruppo ArciVoce.

 

Brano estratto dal racconto “Xavante”:

Ci eravamo date appuntamento a Cuiabá, capitale dello Stato e importante snodo regionale, provenienti da vari e lontanissimi luoghi: sei donne che avrebbero impartito un corso di formazione e aggiornamento per maestri xavante. Con il pullman raggiungemmo la cittadina piantata ai margini della riserva indigena, dove c’era ad aspettarci la camionetta di un padre salesiano. Arrivammo a destinazione verso sera, ma c’era ancora luce sufficiente per intravedere quanto alti, forti, belli e alteri fossero gli uomini che stavano aspettandoci. Fu amore a prima vista: tutte e sei ci innamorammo, e non di uno, ma di tutti loro.

Le novità scandirono le ore di quei giorni tanto corti: ricerche linguistiche e cosmogoniche; lezioni di etnomatematica e portoghese; informazioni su diritti acquisisti e su come organizzarsi per far approvare nuove leggi; verifiche e programmazioni didattiche; dinamiche di gruppo, filmati e discussioni. Per sgranchire le idee si facevano quattro passi fra la miriade di solide costruzioni facenti parte la missione salesiana, e si raggiungeva l’attigua ampia piazza su cui, in circolo, si affacciavano le quaranta fresche case di paglia degli xavante. A volte si aveva tempo per andare fino ai campi dove, in disordine sparso, si scorgevano macchinari e strumenti abbandonati; le squallide sculture di ferro era quanto restava di faraonici piani governativi di sviluppo agricolo per paleolitiche popolazioni e suoli aridi.

Un maestro, mostrando il disegno realizzato dal gruppo di studio cui aveva fatto parte, ci aveva spiegato che l’elemento principale del disegno stesso era il circolo, che la disposizione in circolo del villaggio simbolizza l’unione del popolo xavante, che tutte le feste tradizionali iniziano nel centro della piazza, e che, se non ci fosse il circolo, non esisterebbe “finalità”. Per quella che sarebbe stata l’ultima notte del corso, gli anziani organizzarono una festa di commiato. Le insegnati sfoggiarono vestiti resi da sera da eleganti collane indigene. Gli alunni indossarono calzoncini da calciatore e impeccabili bianche cravatte di corda di cotone, a cui gli occidentali debbono essersi ispirati quando crearono il farfallino. Danze e canti, compresi quelli eseguiti da rappresentanti dei popoli mỹky, tapirapé, bororo e rikbaktsa, iniziarono al centro per poi continuare su tutta la piazza. Tenendoci per mano formammo un circolo, sempre più ampio con l’aggiungersi di persone, e quando l’ultima ne entrò a far parte avvertimmo che era stata raggiunta la finalità di sentirci uniti.

Al termine della festa, gli anziani ci suggerirono di non ripartire senza andare a vedere un punto determinato del fiume São Marcos, e misero a disposizione il camion della comunità per raggiungerlo. L’indomani, l’euforia per l’escursione svegliò tutti molto presto. Seduti sul cassone o sulle sponde dell’automezzo, con seni e pensieri al vento, pur cogliendo gli elementi scenografici disseminati lungo il percorso, ognuno di noi sembrava concentrato a scrutare dentro sé stesso. Sobbalzava, il camion, sull’accidentata pista di terra battuta; in direzione opposta poteva correre solo l’ovvio.

Improvvisamente scomparve la vegetazione che fiancheggiava la strada e il corso d’acqua inondò occhi e cuori. Sul palcoscenico naturale era adagiato il fiume ampio cosparso di rocce, pozze, rapide, cascate. Il verde lussureggiante delle montagne si profilava contro l’azzurro mozzafiato del cielo, i due elementi facendo da sfondo alla scena. Nell’aria il calore del sole, l’odore sensuale della natura, la luce dello spirito. Quella geografia intrisa di poesia materializzò il concetto portante del corso, l’etnoscienza. Quell’acqua, che per giorni accoglie gli adolescenti xavante per temprarli fisicamente e psicologicamente, trasformò le insegnanti-specialiste e gli alunni-maestri in uomini e donne. Quelle fresche cascate massaggiarono vigorosamente i corpi, fino a che gli animi si sentirono accarezzati.

Gli unici che non entrarono nella fonte battesimale furono il salesiano di mezza età e il pretonzolo impomatato. Continuarono a passeggiare lungo la sponda. La religione che li aveva vestiti impediva loro di farsi vedere in costume da bagno. Non resero omaggio alla natura. Non entrarono nel circuito per condividere lo stato di grazia degli animi. Commisero il peccato mortale di introdurre in quel paradiso terrestre concetti relativi a pudore, falso pudore, ipocrisia, peccato.

Fertilizzati dal limo delle acque del fiume São Marcos, facemmo ritorno alla missione per realizzare la valutazione finale del corso e dichiararlo concluso. Ondulate dall’emozione, le voci di quegli uomini alti, forti, belli e alteri sussurrarono: “non ho parole per dire ciò che sento”, “non voglio pensare che potrei morire, perché non parteciperei a un altro corso”, “smetto di parlare per non piangere”. Uniti dallo spago del gomitolo che era circolato fra di noi mentre realizzavamo le valutazioni personali, consapevoli di aver vissuto un’esperienza unica, avvertimmo che la finalità del corso era stata raggiunta.

La valigia quasi non mi si richiudeva più. Vi avevo riposto una voluminosa nostalgia. Ogni tanto spunta fuori, speciale, unica. Riesce a colmare ed abbellire vuoti interiori.

Brano estratto dal racconto “Patamona”:

Viveva appena fuori dal centro di Boa Vista, in un rione tuttora popolato quasi esclusivamente da indigeni, che i bianchi spregiativamente chiamano caboclos. L’esuberante vegetazione del luogo sembra voler proteggere gli abitanti, nasconderne la povertà, le costruzioni sbilenche. Su quel verde, i panni stesi spiccano come artistici tocchi di colore.  Nelle minuscole aree che circondano le casupole, all’ombra degli alberi da frutta, rotolandosi nella polvere o nel fango a seconda della stagione, crescono animali domestici e bambini. Galline e maiali convivono con scimmie e tartarughe. Non di rado, stormi di pappagalli sorvolano l’area squarciandola con i loro striduli richiami; mentre da pareti domestiche è possibile che fuoriesca il vociare di ubriachi perpetui, o il tutto volume di radio e giradischi.

Mi piaceva attraversare quel rione andando a trovare la mia amica. Come le altre  case,  anche  la  sua  era  eternamente  in  costruzione.  Man mano che la famiglia cresceva, aumentava il numero delle stanze; che però restavano spoglie e senza intonaco, adorne solo di ganci cui appendere nuove amache.  Nell’ingresso troneggiava un divano sforacchiato e liso, su cui riprendevo fiato dopo la lunga camminata. Composta da padre, madre, varie sorelle, un fratello carnale e uno adottivo, una cognata, un numero imprecisato di nipoti, la famiglia tutta mi riceveva con calore. Il più delle volte la casa ospitava anche parenti e amici giunti dall’interno dello stato, bisognosi di trascorrere un periodo in città per risolvere problemi. Povere come erano, quelle persone avevano sempre qualcosa da farmi portar via: un pezzetto di beiju già secco, due maracujás da trasformare in bibita.

La mia amica lavorava, ma era sempre al verde. Si pagava gli studi universitari e aiutava la  tribù famigliare endemicamente affetta da problemi economici. Quando viaggiavo le lasciavo la casa a disposizione, così che potesse concentrarsi e studiare con profitto. Me ne era grata e io lo ero nei suoi confronti, dato che il mio cantuccio non restava alla mercé dei soliti ladri. Quando penso a quella ragazza, mi tornano in mente parole e gesti semplici e, al tempo stesso, traboccanti di significato. Se mi faceva visita, arrivava con frutta raccolta nel suo cortile, o con fiori messi insieme lungo il tragitto che separava le nostre abitazioni. Qualche volta andavamo a cena fuori; prediligevamo un ristorante vicino al fiume, perché la sua brezza arrivava fino ai tavoli disposti all’aperto sotto un’ampia tettoia. La serata cominciava scambiandoci confidenze e terminava con noi due che, invariabilmente, ci sentivamo più tranquille, perché le parole e gli atteggiamenti dell’una finivano per rasserenare e incoraggiare l’altra.

Dei momenti vissuti insieme, uno fu particolarmente espressivo. Eravamo sedute sulla sponda del fiume e lo guardavamo scorrere e brillare. Mi raccontò di aver trascorso alcuni giorni nella Guyana. Luoghi, persone, situazioni, tutto le era parso affascinante. Durante il soggiorno aveva maturato una decisione: ogni qual volta l’uomo bianco l’avesse apostrofata con il termine cabocla, lei avrebbe asserito “io sono patamona”. A imprimere il giusto valore a quelle tre striminzite parole furono il tono della voce e gli occhi che brillavano più del fiume.

Le Marche in Biblioteca: Cronaca della terza serata dei Giovedì Letterari

37b2e238-b4e8-4349-92a3-f8df0f7ff439La letteratura come linguaggio in grado di esprimere in modo più intimo, interiore, la relazione che l’autrice ha vissuto nella sua lunga esperienza all’interno di questo mondo così lontano dalle nostre percezioni. Il libro di Loretta Emiri, Amazzone in tempo reale, non è un saggio o un reportage descrittivo, generi pure importanti e preziosi quando abbiamo occasione di incontrarne di buona qualità, e utili per viaggiare con loro dentro realtà che altrimenti ci resterebbero lontane. Eppure, il modo di narrare di Loretta è ancora altro, più letterario, restituisce ogni volta nel flusso delle immagini la poesia dell’incontro. Alcuni brani del suo libro li abbiamo ascoltati direttamente grazie alla lettura di Cristina e Paolo, del gruppo ArciVoce. Per primo il racconto Xavante, che apre anche l’ampia raccolta di 23 racconti brevi di cui si compone il libro, ognuno intitolato con il nome di un diverso popolo indio incontrato da Loretta in momenti diversi della sua esperienza, e poi Patamona, il nome di un’altra popolazione, racconto ambientato anche in città, dove al centro c’è una ragazza Patamona, con i suoi problemi, le sue aspirazioni e la riscoperta e valorizzazione della propria identità india. Nella discussione, in questo modo, Loretta ci ha raccontato non solo la sua esperienza nei momenti diversi in cui l’ha vissuta sul posto, ma anche “il dopo”, attraverso i contatti che ha sempre mantenuto e mantiene tuttora con i tanti amici indigeni di quelle terre, offrendocene così l’immagine viva dell’oggi, e dunque non di culture da pensare come residuo del passato, e semplicemente da preservare per una qualche esoticità fuori dal tempo, ma al contario da conoscere anche nella realtà attuale, che mantengono i legami con le proprie radici e al tempo stesso vivono e si rinnovano. Esistono. E così, solo per citare alcune delle manifestazioni che potrebbero apparirci più curiose, ecco allora gli scrittori indigeni che formano reti tra loro e i cui romanzi fanno la loro comparsa anche nei nostri festival letterari, o i pittori con le loro mostre oppure i gruppi musicali che non ripropongono solo o soltato le musiche tradizionali ma innovano musicalmente nel presente, oppure il protagonismo sociale e politico attuale, da cui recentemente abbamo anche il primo sindaco indio della propria città. Tutto ciò nell’ambito di una situazione sociale sempre difficile e costellata da discriminazioni, tuttora esistenti e di purtroppo lunga consuetudine storica, ma è ugualmente più bello saperlo in grado di reagire. Tra questi esempi, i maestri indigeni, delle diverse popolazioni, che girano il Brasile a tenere conferenze, e a insegnare ad esempio ai “bianchi” come coltivare o allevare animali nel rispetto della natura, che è possibile. Insomma, abbiamo da imparare anche direttamente per i nostri problemi di oggi. Scherzando, introducendo la seconda parte della nostra serata, dedicata ai vini locali, abbiamo constatato che le vie per arrivare al nostro Verdicchio possono anche, in modo inaspettato, passare per l’Ammazonia. Continua a leggere

Giovedì 20 ottobre il 3° incontro con Le Marche in Biblioteca: “Amazzone in tempo reale” di Loretta Emiri

manifestoLE MARCHE IN BIBLIOTECA
I Giovedì Letterari della Planettiana

Giovedì 20 ottobre ci sarà alle ore 21.15 il terzo incontro de Le Marche in Biblioteca con Amazzone in tempo reale, racconti di Loretta Emiri, Andrea Livi editore (http://www.andrealivieditore.it).

Il libro ha ricevuto il Premio speciale della Giuria al PREMIO FRANZ KAFKA ITALIA III Edizione, 2013, Sezione Saggi.

Conversazione con l’autrice, lettura di alcuni brani a cura del gruppo ArciVoce, commenti musicali a cura della Scuola Pergolesi (http://www.scuolapergolesi.it/nuovo_sito/)

La serata si concluderà con una degustazione di vini locali offerta dall’azienda La Distesa di Cupramontana (http://www.ladistesa.it/azienda-agricola.html) ; con la collaborazione di Pergolesi Enocaffè (http://www.pergolesienocaffe.it/).

La rassegna è promossa e organizzata dalle associazioni culturali Altrovïaggio e Licenze Poetiche con la collaborazione della Biblioteca Planettiana di Jesi e un contributo del Comune di Jesi.

Programma:
http://www.altroviaggio.org/category/le-marche-in-biblioteca/
https://licenzepoetiche.wordpress.com/

Le Marche in Biblioteca: i due brani letti da “Gli angeli a Sarajevo”

maiorino-angeli-a-sarajevo-cover“Gli angeli a Sarajevo”, di Maria Grazia Maiorino.

I due brani che seguono sono stati letti durante l’incontro con l’autrice sono rispettivamente da Cristina Corsini e da Maria Grazia Tiberi, del gruppo di lettori ArciVoce.

 

Brano estratto dal racconto “La villa”:

(…) Sono seduta di nuovo sui gradini, Marco viene a sedersi vicino a me, mi chiede a che cosa sto pensando.
Ascoltavo, rispondo.
Che cosa?
Le loro voci… La mia. Pensavo a che cosa ricorderei se fossi vecchia. A una storia da raccontare.
Raccontala.
Adesso?
A me.
La tromba. Ecco che cosa vorrei raccontare, la storia della mia tromba. La porto sempre con me, nella sua custodia color argento foderata di rosso. Era lì dentro quando la vidi per la prima volta, in casa di un amico che aveva deciso di disfarsene. Sembrava un cane abbandonato dal suo padrone. Divenne la mia tromba. Gli amici volevano dissuadermi, non avrai la costanza di imparare a suonarla, mi ripetevano, è faticoso, sarà solo un peso in più da portarti dietro nei tuoi continui spostamenti. Io non ne volli sapere e cercai in ogni modo di racimolare la cifra richiesta, un prezzo altissimo per le mie possibilità di attrice giovane alle sue prime scritture. Lo strumento era nuovo, ogni volta che lo prendevo in mano lo lucidavo con cura in ogni sua parte. All’inizio emetteva solo strani rumori, ma appena presi le prime lezioni scoprii la varietà dei suoni che potevo ottenere e cominciai ad esercitarmi con entusiasmo. Un giorno portai la tromba con me a un provino. Non era un provino qualsiasi, era la mia grande occasione: potevo essere scelta per recitare una parte importante in uno spettacolo che avrebbe girato nei migliori teatri italiani. Il regista era anche il primo attore della commedia, mi aspettava seduto in platea e mi fece cenno di salire. Vedevo il viso concentrato, simile a una maschera intagliata nel legno, con ciocche di capelli grigi intorno alla fronte stempiata. Lo ammiravo moltissimo, lo consideravo un maestro e avevo una grande soggezione di lui. Mi disse poche parole, non mi ricordo, ricordo il tono basso, profondo della voce, la stessa che mi affascinava nei suoi spettacoli, e lo sguardo sorpreso rivolto alla custodia della tromba salita insieme a me sul palcoscenico. Recitai un monologo in dialetto napoletano e poi suonai il motivo di una vecchia canzone. La tromba mi portò fortuna. Non solo piacque al maestro, ma entrò anche lei nello spettacolo. Immaginate la mia emozione quando la sera della prima recitai la mia parte in un teatro pieno fino agli ultimi palchetti e alla fine attraversai lentamente il palcoscenico immerso nella penombra suonando. Poche note, un lamento, un’ombra fra le ombre di un funerale. Avevo vinto. Gli applausi scrosciarono, lessi il mio nome nelle recensioni dei giornali, ebbi camerini tutti per me nei migliori teatri. E ogni sera, dopo essermi vestita e truccata, tiravo fuori la tromba, la lucidavo, anche se nessuno del pubblico avrebbe potuto vedere come era bella e fiammante, ed eseguivo il mio pezzo. Sul filo del suo suono scuro entravo nella parte, sprofondavo nella solitudine e mi caricavo di dolorosa passione. Diventavo Filumena Marturano…

Ci baciamo in silenzio. Ormai è quasi completamente buio, è ora di andare a prepararci per lo spettacolo di stasera. Per raggiungere il cancello che ci divide dal teatro ritorniamo sul davanti della villa, attraversiamo il giardino ancora ben tenuto, passiamo accanto a busti di pietra fra i cespugli fioriti e le aiuole. Le frasi altisonanti incise sui piedistalli di marmo tacciono nell’oscurita. (…)

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Conversazione con Cristina Babino

Cristina Babino ha curato le antologie “Femminile plurale. Le donne scrivono le Marche”, e “S’agli occhi credi. Le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti”, protagonista quest’ultima della prima serata de “Le Marche in Biblioteca”. Entrambe le antologie sono pubblicate da Vydia editore.

A cura di Tullio Bugari, Altrovïaggio.

Negli ultimi anni hai curato per l’editore Vydia due antologie dedicate alle Marche, “Femminile plurale. Le donne scrivono le Marche”, e “S’agli occhi credi. Le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti”. Oltre a fare la curatrice sei intervenuta in entrambe con un tuo contributo diretto. Come è nato questo progetto di indagare, attraversare direi, i molteplici piani di questa regione? Da dove è nata questa esigenza e come è maturata e ha preso forma?

ideale“Vivo stabilmente all’estero da quasi dodici anni ormai. Ho fatto esperienze di vita e lavoro in Irlanda, Inghilterra, e ora in Francia. Mi sento davvero cittadina europea, ma non ho mai dimenticato le mie origini, né allentato il mio legame forte con Ancona, la mia città natale, e con le Marche. Anzi, negli ultimi anni devo dire che si è rinsaldato ancora di più, proprio grazie a questi due progetti editoriali, a cui tengo davvero tanto e che mi hanno dato molte soddisfazioni. Una volta ho sentito dire questa frase: “nessuno tiene di più alle sue radici come quelli che se ne vanno”. Credo che sia molto vera. In effetti, nel mio caso, è proprio nella mia condizione di lontananza che ho maturato il pensiero e il forte desiderio di dedicare delle nuove pubblicazioni alla mia regione, nuove soprattutto per i temi che propongono, e le modalità in cui questi vengono affrontati. Si tratta in effetti di due raccolte che non c’erano, e di cui secondo me si sentiva la mancanza. L’incontro con Vydia Editore è stato determinante per la realizzazione di questi due progetti. È davvero raro, soprattutto nell’ambito dell’editoria locale, trovare un editore tanto aperto e disponibile a scommettere, investendo, su un’idea che ritiene meritevole. Continua a leggere

Le Marche in Biblioteca: recensione di “Amazzone in tempo reale” di Loretta Emiri

37b2e238-b4e8-4349-92a3-f8df0f7ff439Giovedì 20 ottobre, ore 21.15, terzo incontro di LE MARCHE IN BIBLIOTECA, I Giovedì Letterari della Planettiana. Il libro della serata è “Amazzone in tempo reale” di Loretta Emiri (2013), Andrea Livi Editore (Fermo), con presentazione di Anabela Ferreira. Il libro ha ricevuto il Premio speciale della Giuria al PREMIO FRANZ KAFKA ITALIA III Edizione, 2013, Sezione Saggi.

Una recensione di Rita Mascialino
(dal sito del Premio Frank Kafka Italia)

«Il saggio Amazzone in tempo reale di Loretta Emiri è dedicato agli indios amici dell’Autrice e ai popoli indigeni che ancora “esistono e resistono” in Brasile come scrive la stessa Emiri. Il titolo sottolinea come le vicende esposte siano quelle degne di un’Amazzone, di una donna guerriera per così dire e siano narrate in tempo reale, ossia siano fresche così da apparire pressoché contemporanee alla narrazione. E di fatto la narrazione si snoda rapida ed efficace, in grado di chiarire al meglio la storia di tali popoli all’epoca della presenza dell’Autrice con spaccati anche sul passato.

Nella presentazione di Anabela Cristina da Costa Silva Ferreira, docente di Lingua Portoghese presso l’Università di Bologna, Facoltà di Lingue e Letterature e Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori, è citato come epigrafe un brano della stessa Loretta Emiri che qui riportiamo ad introduzione della breve recensione del suo libro, un’epigrafe utile ad andare subito in medias res nello spirito dell’esperienza dell’Autrice, della personalità avventurosa e desiderosa di capire in profondità con cui ha vissuto tale esperienza: “Il viaggio, di cui l’attesa fa parte, è un’esperienza tra le più affascinanti. Mi piace arrivare con molto anticipo sull’orario di partenza. Mentre aspetto, faccio igiene mentale. Elimino pensieri legati al passato prossimo per fare spazio a quelli che con il cambiamento arriveranno” (p. 9).

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