“Maledetta la Repubblica fondata sul lavoro”, di Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni


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Titolo: Maledetta la Repubblica fondata sul lavoro
Autori: Alessandro Pertosa, Lucilio Santoni
Casa editrice: Gwynplaine edizioni

«La Repubblica è fondata sul lavoro. Viva il lavoro. Non importa quale. Non importa dove. Non importa come, con chi e perché».  Inizia con questa citazione del cantautore Enzo Del Re, sul lavoro inteso come un fine, o sul lavoro come ci viene proposto normalmente, il lungo dialogo tra i due autori, che hanno preferito alla modalità del saggio, distaccato e scientifico, la forma più amichevole, appunto, del dialogo. Un po’ come i dialoghi pedagogico filosofici dei momenti cruciali, tipo il “Fra Contadini” di Errico Malatesta, o il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo Galilei, o il “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere” di Giacomo Leopardi.

Li sparo troppo forti i paragoni, scomodando questi classici? È un’esagerata adulazione nei confronti dei due autori? Non mi pare proprio che aspirino all’adulazione. Li ho incontrati una sera per chiacchierare sul libro, in uno di questi posti che Marc Augé definirebbe “non luoghi”, ma che ai giorni nostri stanno diventando la maggioranza: un bar all’ingresso di un centro commerciale a sud di Ancona non ricordo più nemmeno quale, tra gente che andava e veniva e una musica non proprio di sottofondo, comodo però per essere raggiunto facilmente in auto da diverse direzioni.

Niente accademici paludati o seriosi che si eccitano con astruse teorie, semmai esattamente l’opposto, un tranquillo chiacchierare tra amici che in tale crocevia ricercano la strada più semplice per ritrovare un comune buon senso, forse smarrito dietro la facciata dell’ovvio. E rendendo così giustizia anche a quelle teorie – o sistemi di pensiero – che non sono affatto astruse ma possono guidarci nella vita quotidiana. Basta rovesciare il punto di vista: e ti pare poco?

Quindi, non credo che sia sproporzionato il confronto con i classici citati, dato che anche in questo libro si prende di petto un tema che è, di fatto, il tabù su cui è stata edificata negli ultimi secoli la nostra identità culturale, e nell’ultimo mezzo secolo la nostra identità politica: la cultura del lavoro. Per mostrarci, invece, questo tabù, nel suo rovesciamento, da dietro le quinte della messa in scena. Tirandosi fuori dalla platea posta di fronte, accecata dai riflettori che sparano sugli occhi. Guardare di lato, da altre angolazioni. Spostare il baricentro. Immaginare che sia la terra a girare, direbbe Galileo, e il cielo diventa subito un altro, il nostro, che ci era stato sottratto.

“Arbeit macht frei” è il titolo della prima sezione. Letto a freddo sembra quasi una provocazione irriverente. Stava scritto così sui lager. A me vengono in mente anche i lavoratori africani sui campi clandestini di pomodoro nelle campagne perse d’Italia – gli stessi pelati con cui facciamo il sugo per la pasta -, o le centomila morti all’anno per l’amianto nel mondo – stime al ribasso, dicono gli esperti – e allora l’irriverenza, se davvero c’è, non è certo contro le vittime ma dalla loro parte.

Nella prefazione al libro – di Marco Calabria e Gianluca Carmosino – viene citata in testa una riflessione di Michael Zezima sulla domanda che con noncuranza viene di solito rivolta ai bambini: “Che cosa vuoi fare da grande?” Pensateci un attimo: di solito rispondono nominando un tipo di lavoro – è questo il fine della nostra vita? – e l’adulto che ascolta già immagina il piccolo totalmente calato nella parte: chissà che effetto farebbe un bambino che rispondesse: “il poeta”?

“Mi sembrate tanti piccoli operai” dice Gian Maria Volonté nel film “La classe operaia va in paradiso”, guardando da dietro un recinto degli scolari in grembiule. Ma lui lo dice in un modo che ci fa tenerezza: una tenerezza un po’ triste, più che un fine sembra un destino!

Al di là della mia divagazione su questo film, nel libro è sempre ben presente anche l’attenzione alla scuola, stretta tra pochi esempi di pedagogisti “illuminati” e una più routinaria istigazione alla competizione, come appunto vuole una cultura lavoristica. Ma allora, non resterebbe che descolarizzare la società?

Tornando di nuovo al film, in un’altra scena, girando per casa, l’operaio Volonté prende in mano vari oggetti, per lo più inutili, pupazzi e altro, e per ognuno quantifica: “due giorni di lavoro”, “quattro giornate alla catena!”. Questa scena del film – che sto citando io, non c’è nel libro ma ve ne sono tante altre di immagini – mi aiuta a collegarmi ad alcune riflessioni dei due autori sul rapporto tra il lavoro e il reddito (a proposito, sarebbe già tutt’altra cosa se la nostra Repubblica fosse, piuttosto, fondata sul reddito!: ma anche qui, di quale reddito stiamo parlando e per fare cosa?):

“ (…) più che il lavoro, si maledice il pervasivo dogma etico-ideologico che fa del lavoro un fine in sé, invece che un mezzo per rispondere ai bisogni umani. Il feroce inganno viene imposto da tre secoli dal sistema capitalistico, che necessita di larghe masse di «salariati» disciplinati: per perpetuare questo sistema, il «bastone» del ricatto e della repressione va a braccetto con la «carota» del consumo; il reddito diventa così sinonimo di «benessere» e requisito di (apparente) libertà, come acutamente argomentato nel testo. Se le persone sono indotte a inseguire senza tregua nuovi bisogni materiali perdendo di vista quelli più profondi, spesso relazionali e non mercificabili, davvero una larga quantità di lavoro è maledetta (…)”

Una cultura, quella lavoristica, presente anche in tanta storia del movimento operaio. In proposito, mi vengono già in mente, addirittura, ulteriori aspetti da sviluppare, ad esempio se volessimo ritornare con l’analisi anche all’operaismo degli anni Sessanta e Settanta, attraversato anche da slogan quali “il rifiuto del lavoro” e l’elogio “dell’assenteismo”, accanto o contrapposti ai predominanti “miti lavoristici” (“faremo come la Russia chi non lavora non mangerà”, o, addirittura, su diversa sponda politica, “chi non lavora non fa l’amore”); oppure, le più concrete lotte operaie contro la nocività (“la salute non si paga”). Insomma, ce ne sarebbe per tutti, e comunque, quando Enzo Del Re cantava “lavorare con lentezza”, non era proprio così isolato.

Oggi, però, nel nuovo secolo, anche il rapporto capitale lavoro è un altro e diverse sono le forme del lavoro e della sua alienazione, che i due autori passano in rassegna; la “catena di montaggio di Volonté” oggi la troviamo anche in tante forme di terziario, e i manager rampanti o aspiranti tali sono i primi a non conoscere più limite al lavoro, fino a divorarsi tutto lo spazio e anche oltre: “Il mito del lavoro non ha distinzioni di classe. Dall’impiegato del call center all’industriale del nord-est, l’orizzonte è lo stesso: tutti vogliono dedicare una parte cospicua della propria vita a una qualsiasi attività pur di ricevere una qualsiasi somma di denaro che li faccia sentire integrati nella società e non clandestini.”

Nella terza parte, “Anarchia erotica”, sono citate a un certo punto le Amalassunte di Osvaldo Licini, definite come rappresentazioni infantili oniriche dalle quali traspare tuttavia una raffinata sperimentazione di materiali e un intenso esercizio stilistico: le Amalassunte sono contrapposte a tanti altri prodotti dell’arte contemporanea, concettuale, nella quale “è venuta meno l’idea che il gesto artistico sia anche il frutto di una capacità artigianale”, e dove la parola “prodotto” rinvia, appunto, alla dimensione e alle dinamiche del mercato. Di questo tipo di mercato, nel quale, mi viene da osservare, l’erotismo, che dovrebbe essere sinonimo di felicità, trova posto solo mercificato sotto forma di porno. La riflessione sull’arte, e sul piacere, è al centro di questa parte del libro e ci aiuta a comprendere meglio, anche da questa “angolazione”, il senso del discorso sul lavoro.

Sullo sfondo dei dialoghi, oltre al tema della decrescita felice, compaiono – esplicitamente ma non tanto come dottrine quanto come semplici linee riferimento – due grandi utopie, l’anarchismo e il messaggio evangelico, che gli autori propongono in una visione integrata e prendendo spunto da entrambi: in questo senso, forse, il libro può essere anche definito utopico. Cioè, il mondo come sarebbe bello che fosse, liberato dal lavoro. Oppure, forse è più corretto definirlo “ecologico”, cioè il mondo come dovremmo scoprire che già è, nella sua natura nascosta, che una costante diseducazione ci impedisce di cogliere. E invece, se discutendo e analizzando riusciamo a coglierlo, magari potremmo già iniziare a cambiarlo, da subito. Ma forse siamo di nuovo nell’utopia, chissà? (Anche se le utopie – ma non smettto mai di divagare – in realtà non vivono fuori della realtà o in un futuro irraggiungibile, ma qui nel presente, nella capacità di mantenere il nostro pensiero critico).

La lettura del libro e la conversazione che ho avuto con gli autori, mi hanno fatto tornare in mente quelle belle chiacchierate “inutili” – anche il ruolo dell’ozio nel rendere più salda la nostra identità, va rivalutato – che alla mia età facevamo da ragazzi, quando, magari di notte, seduti su qualche scalinata, si chiacchierava dei massimi sistemi, o del senso della vita che eravamo noi. Discussioni che oggi possiamo permetterci un po’ più colte, perché nel frattempo siamo cresciuti e disponiamo di maggiori riferimenti, quindi usiamoli. Numerose, nella conversazione degli autori, anche le citazioni e indicazioni bibliografiche, che così possono consentire, a chi s’incuriosisce, di continuare ad approfondire.

 

LA SCHEDA DELL’EDITORE:
MALEDETTA LA REPUBBLICA FONDATA SUL LAVORO
Conversazione cristiana e libertaria

Il libro è frutto di conversazioni pubbliche e private fra gli autori.
Articolata in tre capitoli (Arbeit macht frei, Descansar es salud, Anarchia erotica), la conversazione tra Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni mette in discussione il mito del lavoro e la cultura del lavorismo.
Tale cultura abbraccia pressoché tutte le idee politiche, le correnti di opinione e le fedi religiose dell’Occidente e anche dell’Oriente. C’è però una Storia minoritaria ma estremamente lucida e vitale che in quella cultura non si riconosce.
Gli autori si fanno interpreti e portavoce di questa corrente minoritaria che valorizza l’ozio, il gioco, la creatività, l’eros, la vita frugale. Che non demonizza certo il lavoro, ma ne predilige l’aspetto sacro, il fare poco e bene, senza contribuire a distruggere il mondo, sottraendosi alle logiche di potere, al produttivismo, al marketing, al fare indiscriminato, al denaro come unico valore dell’esistenza. Ribadendo l’assoluto rifiuto dell’antropocentrismo che considera il pianeta Terra, gli esseri che lo abitano e la natura intera come possedimento da sfruttare indiscriminatamente, come esclusiva fonte di guadagno.
Il pensiero anarchico e il cristianesimo evangelico sono i fari guida del libro. Sullo sfondo, la decrescita felice.

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