Titolo: Luigi Bartolini, amore di Marca
Autori: Fabio Ciceroni e Ezio Bartocci (a cura di)
Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche
La serata dedicata a Luigi Bartolini lo scorso sabato 5 marzo alla Biblioteca Planettiana di Jesi, mi offre l’occasione di citare il libro “Luigi Bartolini AMORE DI MARCA”, curato da Fabio Ciceroni e Ezio Bartocci, pubblicato nel 2013 dal Consiglio Regionale delle Marche.
Presenti, oltre ai curatori del volume, anche Luciana Bartolini, testimone e custode di un grande patrimonio, e poi Daniele Salvi per il Consiglio regionale e Luca Butini per l’Amministrazione comunale.
Un Bartolini nella piena ampiezza della sua figura e del suo lavoro, quello presentato e ricordato, di cui ci è stata offerta la possibilità di apprezzarne direttamente la poesia e la prosa, attraverso le letture di Dante Ricci, accompagnato in sottofondo da un soffice arpeggio di chitarra. Emozionante, in particolare, la lettura del poemetto “L’eremo dei frati bianchi”, dedicato allo stesso luogo dove tre anni fa, in occasione del cinquantenario della scomparsa di Luigi Bartolini, si tenne un’altra bella serata a lui dedicata, dal titolo “I luoghi, la memoria, le immagini”.
Il libro è disponibile anche in rete in formato pdf; qui di seguito riportiamo direttamente, insieme ad alcune foto della serata di sabato scorso, l’introduzione al libro di Fabio Ciceroni: “Luigi Bartolini, un universo da riscoprire”.
Troppo tempo dalla scomparsa – cinquant’anni, 1963 – di Luigi Bartolini? Ci si chiede con una qualche fondatezza. Se per un verso di lui si è detto e si è scritto nel mezzo secolo trascorso, per un altro è facile accorgersi che il nostro debito verso di lui s’è accresciuto. Si ha l’impressione di una sostanza sfuggente ai numerosi tentativi di farla emergere definitivamente.
Anche oggi Bartolini va affrontato a modo suo. Non attende da noi una collaborazione alla comprensione, come vorrebbero gli altri, nella critica e nella storia: ne sarebbe infastidito. Avrebbe invece bisogno di chiederci un’attenzione serena, più continua di quella frammentaria o doverosa che c’è stata: specialmente a noi suoi conterranei, che continuiamo per buona parte ad essere quelli che egli conobbe bene e che ufficialmente apprezzò poco per amore scontroso.
Con l’immaginario marchigiano anche Bartolini ha dovuto fare dispettosamente i conti per la vita, ha dovuto commisurarsi anche con la nostra irriducibile ruralità. Mutate le vesti coi tempi, ma non sempre le menti, siamo rimasti al campanone di casa con la scusa del genius loci; attaccati alle minuterie del quotidiano con la scusa della saggezza; paurosi della libera fantasia e del diverso con la scusa della proverbiale prudenza; terrorizzati dal sospetto del ridicolo con la scusa dell’antica diffidenza contadina.
Ma perché allora è tornato ciclicamente a scontrarsi con la terra madre marchigiana e con i suoi figli anziché dimenticarli, inondarli d’indifferenza? Non so figurarmi un Bartolini indifferente verso alcunché, tanto meno verso la propria terragna matrice. E mi pare che sia rimasto invincibilmente attratto dalla propria cultura d’origine, nonostante croste di disprezzo, proprio per la sua marginalità.
In fondo è proprio questo osservatorio marginale, ma non emarginato, a propiziargli una visione prospettica infinita sul mondo sghembo degli uomini meccanici e metropolitani che hanno perduto il gran respiro della Natura. E non vi è dubbio che quel respiro lo abbia investito fin dagli anni cuprensi quand’era giovanino giovanino. Il resto dell’esistenza è stato per lui un combattimento senza requie contro il tradimento ordito dagli uomini sciocchi, i soliti carciofi, ai danni della Natura primigenia. Russoviano incallito, come si definiva, ha intrapreso la sua utopica battaglia contro ogni odore di falsità, contro il mercimonio di galleristi e contro artisti ruffiani, perfino contro amici legati a correnti che gli parevano mode sradicate dalla nostra tradizione (come l’ermetismo in letteratura). La sua radicale classicità deve intendersi dunque come adesione schietta, ma meditata non istintiva, ad una matrice idillica di valore assoluto, perseguita a qualsiasi prezzo e da inseguire per disparati sentieri: con la morsura delle sue eccezionali incisioni e con l’aggressività cromatica della pittura, con la narratività antinovecentesca della poesia e con la divina cadenza di una prosa fino ad oggi impareggiata. L’arte, nei suoi molteplici linguaggi, gode in lui di una centralità salvifica, rivelatrice unica di quella verità im- manente e vibrante ch’egli ha sempre paganamente delibato dalla romita Natura.
Di qui il rito della contemplazione, ma nutrita di umori sangui- gni, che in prosa si manifesta con un ricorso assiduo all’autobiogra- fia, mai narcisistico però: pochi sono riusciti a svelare mondi fuori di sé parlando di sé. Di qui il mito del ritorno ad ogni passo, al nocciolo fondo delle cose: non vi è in fondo evoluzione progressiva, lo potremmo leggere aprendo a caso una pagina di uno qualsiasi dei suoi oltre sessanta titoli. Ma, mi chiedo, dove rileggerlo ormai? Gran parte del tesoro non è reperibile e rischia di perdersi (meritorio è il riferimento creato a Cupramontana dal Centro di Documentazione a lui intitolato). Anche per questo di Bartolini si parla meno. È stato più volte ripubblicato Ladri di biciclette, ma paradossalmente è l’opera sua più fortunata per riflesso del film di De Sica e Zavattini. Il capolavoro del neorealismo cinematografico resta però lontano e diverso, com’ebbe a polemizzare lo stesso Bartolini, dalla prosa picaresca e dalla ricerca del miracoloso che è del romanzo. Così rischiamo di perderlo anche perché egli sembra,a distanza, aver riguadagnato quella natura solitaria e quell’aria scontrosa che in vita gli avevano procurato tanti allontanamenti che volevano negargli quel suo supremo diritto alla contraddittorietà. Utili dunque e preziose le iniziative – come la presente o come quelle cuprensi, fabrianesi e, speriamo, romane – per saldare tanti debiti accumulati verso questo sovrano, inimitato cultore della bellezza contratta dalla sua terra.
(vedi anche “I luoghi, la memoria, le immagini”)