“Libro dei sogni poetici, d’invenzione e di capricci malinconici”
Il 12 marzo del 1826 Giacomo Leopardi scriveva all’editore Stella: “In quel manoscritto consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io l’ho più caro dei miei occhi”. Le Operette morali, scrive Antonio Prete, “come irridono, nel titolo, all’idea di opera, così si sottraggono agli statuti di un qualsivoglia genere”, e ancora “Sui modi del comico…trascorre l’onda di un pensiero tragico”, mentre per Paolo Ruffilli sono il “il testo limite della nostra letteratura non soltanto ottocentesca: luogo di coincidenza di poesia e di prosa, di fantasia e di ragionamento, di invenzione e di lucida analisi del reale”. Classificato come proibito al tempo sia dalla censura civile che ecclesiastica, tanto da dover essere confinato, nella stessa biblioteca di casa Leopardi, sullo scaffale dei Libri proibiti (tutt’ora “protetto” da una grata), viene composto quando il poeta marchigiano “ha già vissuto, nella lingua della poesia e dell’interrogazione teoretica, l’esperienza di un pensiero che ama i confini, le sfide della conoscenza, le domande ultime, e non si acquieta in nessuna risposta rassicurante” (A. Prete). Pietro Citati ha scritto: “Non ci sono formule e definizioni capaci di contenere un libro vastissimo come le Operette morali”, che va dalla critica della restaurazione, di ogni forma di restaurazione e di conformismo, all’indagine sulla natura, sulla sua prossimità e indifferenza, dallo sguardo sulla materia, sul suo circuito perpetuo di produzione e distruzione, al pensiero della finitudine, dell’irreversibile, del limite.