Le Marche in Biblioteca

Le Marche in Biblioteca 2020, le registrazioni video

Le Marche in Biblioteca 2020. A partire dal 15 ottobre gli incontri sono stati trasmessi anche in diretta FB; ecco le registrazioni:

1) L’incontro con Michele Gianni e il suo “Rantologia, voci dalla terra dei tubi”, Ventura edizioni.

2) L’incontro con Maria Vittoria Pichi e il suo “Come una lama”, Ventura edizioni.




3) La serata di Omaggio ad Anna Elisa De Gregorio, curata da Seri editore.

 

 

Omaggio ad Anna Elisa De Gregorio

Si è svolta ieri sera, giovedì 29 ottobre, in diretta streaming dalla pagina fb della casa editrice Seri Editore la serata dedicata alla poetessa Anna Elisa De Gregorio, scomparsa improvvisamente lo scorso settembre.

Inizialmente la serata avrebbe dovuto svolgersi presso la Biblioteca Planettiana di Jesi, come incontro conclusivo all’interno della rassegna “Le Marche in biblioteca 2020” organizzata dal Comune di Jesi, dalla Biblioteca Planettiana, dall’associazione Arci Voce, dall’associazione Licenze Poetiche e curata da Tullio Bugari e Alessandro Seri, con la collaborazione della Biblioteca Planettiana e un contributo del Comune di Jesi, Assessorato alla Cultura.

Con le nuove norme a tutela della salute dei cittadini la serata non avrebbe potuto più svolgersi “in presenza” e così si è scelto comunque di tenerla utilizzando una videoconferenza in diretta streaming.

Hanno partecipato alla serata i poeti
Francesco Accattoli, Alessio Alessandrini, Mauro Barbetti, Filippo Davoli, Marco Di Pasquale, Evelina De Signoribus, Alessandro Fo, Franca Mancinelli, Elisabetta Pigliapoco, Alessio Ruffoni, Alessandro Seri e Luigi Socci. Per motivi tecnici Giorgia Romagnoli e Fabio Maria Serpilli, che pure erano in ascolto, non sono riusciti a collegarsi alla videoconferenza.
All’evento è intervenuto in rappresentanza della famiglia il nipote di Anna Elisa, Sirio.

Ecco qui la registrazione della diretta su FB

L’incontro con Maria Vittoria Pichi

Una serata di grande sentimento, giovedì 22, con il racconto di Maria Vittoria Pichi, e il suo libro «Come una lama» (Ventura edizioni), accompagnata da Maria Grazia Tiberi con la lettura di alcuni brani del libro e da  Silvano Staffolani e Lorenzo Cantori con alcune canzoni.

Anche questo incontro è stato registrato in diretta FB e ve lo proponiamo direttamente; qui una breve trascrizione di una parte della conversazione, sull’importanza della scrittura:

«Io non avevo ancora realizzato che cosa avesse rappresentato per me questa storia e come io avevo reagito e che cosa avevo scoperto di me, ma poi, e poi, siccome continuavano ancora a girare queste cattive battute su di me, e io avevo il terrore che i miei figli potessero venire a sapere della mia storia da queste cattive battute, ho deciso di volerlo raccontare io stessa a loro, l’ho fatto anche tirando fuori le carte e guardandole con loro, anche se ancora erano piccoli, e così ho anche  iniaìziato a riprendere in mano la mia storia. a lì ho iniziato anche a rielaborare dentro di me, fino a che è arrivata questa esigenza di scrivere, come per potermene liberare.
E poi mi dicevo: “ma chi la conosce davvero la mia storia, tra i miei parenti, i miei cugini, gli amici? Anche perché poi molte cose non le racconti proprio perché quando ci provi ti senti dire: “Ah no, non me ne parlare, che dolore!”, “Non no non me ne parlare, che tristezza!” E così alla fine non se ne doveva parlare mai, e così si continuava a non saperne niente. Allora ho cercato di scriverlo, sforzandomi di ricordare tutto perché erano già passati trenta anni, ma poi scrivendo mi sono accorta che stavo scrivendo al presente, che era ancora tutto lì, presente in me, come se fosse successo il giorno prima.
Lo scrivere mi ha aiutato molto, intanto per buttar fuori, e poi perché ha creato come un’onda inimmaginabile. Pensavo che l’avrebbero letto poche persone, un po’ di parenti e amici, e invece il libro ha preso anche altre strade. Alcuni giornalisti che curano un sito di errori giudiziari hanno inserito anche la mia storia, e dopo ancora mi ha invitato Alberto Matano alla trasmissione “Io sono innocente” e mi ha dato la possibilità di raccontare tutto.
A quel punto c’era già stata anche la sentenza, che scioglieva tutta la mia vicenda, chiarendo finalmente tutto. Eppure c’è stato ancora qualcuno che ha continuato a insinuare, dicendomi “ma come hai fatto proprio tu ad andare in televisione?”, come se avessi corrotto qualcuno. Purtroppo rimarrà sempre qualcuno, nonostante tutto, che continuerà ad insinuare, anche perché è scomodo ammettere queste cose.
Io sono un esempio tra tantissime storie di questo tipo, migliaia, soprattutto di quegli anni. Poco fa ricordavamo Stefano Cucchi, proprio oggi ricorre l’undicesimo anniversario della morte, eppure anche nel suo caso se non ci fosse stata la sorella con la sua determinazione, anche questa sarebbe stata una storia dimenticata.»

La conversazione e le letture si sono alternate con quattro canzoni eseguite da Silvano Staffolani e Lorenzo Cantori: Assalto al cielo, dedicata alla generazione degli anni Settanta; Marco Cavallo,  un inno alla libertà e all’abbattimento dei muri dedicata a Franco Basaglia e alle battaglie per i diritti di quegli anni; Don Chisciotte, di cui il verso “Contestavo i potenti con il sorriso sul volto” ci ha dato lo spunto per qualche riflessione. In chiusura abbiamo aggiunto la canzone Vi estas Pino, dedicata alla storia di Giuseppe Pinelli, che ha  tante affinità, per le diffamazioni che furono diffuse, anche con la storia di Maria Vittoria.

L’incontro con Maria Vittoria Pichi è stato il terzo della rassegna Le Marche in Biblioteca 2020, curata da Arci Voce aps e Licenze Poetiche, con la collaborazione della Biblioteca Planettiana e un contributo del Comune di Jesi, Assessorato alla Cultura.



Come una lama, di Maria Vittoria Pichi

Titolo: Come una lama
Autore: Maria Vittoria Pichi
Con una nota di Massimo Cirri
Casa editrice: Ventura edizioni

Giovedì 22 ottobre ore 21.15 alla Biblioteca Planettiana per il terzo appuntamento con Le Marche in Biblioteca 2020.

Nello Stato di diritto esiste anche il rovescio, ma in questo caso non è una variante dei modi possibili di tessere o rammendare, per creare nuove trame di vita, è piuttosto il tentativo d’annullarle. Kafka il rovescio lo usa per mostrarci la realtà rovesciandola, appunto: non ci conduce nel mondo della fantasia per astrarci o parlarci attraverso metafore, ci immerge invece direttamente nelle profondità del reale, senza metafore, negli interstizi più nascosti ma sempre pronti ad aprirsi. Accade qualcosa e all’improvviso tutto ha un altro corso:  «Qualcuno doveva aver denunciato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua padrona di casa, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Ciò non era mai accaduto. K. aspettò ancora un po’, guardò dal suo cuscino la vecchia signora che abitava di fronte e che lo osservava con una curiosità del tutto insolita in lei, poi però, meravigliato e affamato a un tempo, suonò. Subito qualcuno bussò e entrò un uomo, che egli non aveva mai visto prima in quella casa.» Inizia così Il Processo di Kafka, l’ho riportato subito alla mia memoria la prima volta che ho ascoltato Maria Vittoria Pichi, Mavi, presentare il suo libro.

Conoscevo, per averle lette o sentite raccontare, diverse storie analoghe, e quindi il suo racconto non mi sorprendeva, nel senso dell’incredulità. Mi riportava ad un periodo storico che ricordavo e ricordo abbastanza bene, anche per averlo riletto e ristudiato. Nel caso specifico siamo alla fine del 1981, nei giorni in cui le Brigate Rosse sequestrano il generale americano Dozier, dal 17 dicembre al 28 gennaio, giorno in cui viene liberato da un commando che irrompe a colpo sicuro nell’appartamento prigione della periferia padovana. Ricordo abbastanza bene quel periodo perché emerse subito in quei giorni un bel dibattito sulla tortura (ecco un aspetto del rovescio). Ci furono due inchieste giornalistiche ed entrambi i giornalisti finirono in galera perché non vollero rendere note le loro fonti, come se una banalissima indagine interna, se l’avessero voluta davvero, non fosse stata sufficiente da sola per accertare cosa stava accadendo. Lo ricordo bene perché uno dei due giornalisti, Luca Villoresi del quotidiano La Repubblica, l’avevo conosciuto, eravamo stati amici e ora lo vedevo in tv mentre ammanettato lo spostavano da un motoscafo a una gondola. Siamo a Venezia, più o meno alla fine di febbraio del 1982.

L’altro è un giornalista del settimanale L’espresso, Pier Vittorio Buffa, che pubblica il suo articolo il 28 febbraio e viene arrestato il 9 marzo; qualche anno fa ha scritto ancora su quei lontani episodi (Espresso del 5 aprile 2012), questa volta potendone tracciare, quando a distanza di anni gli stessi poliziotti protagonisti lo raccontano, un quadro più chiaro e completo, a cominciare dalle riunioni in cui già a metà dicembre del 1981 si pianifica l’uso della tortura promettendo l’impunità alle due squadre che dovranno occuparsene, dai nomi “esotici”: “I cinque dell’ave maria” e “i guerrieri della notte”. Ma tutto era già noto anche allora, un po’ ne ho il ricordo e basta andare a cercare negli atti parlamentari di allora per avere la conferma che ci furono già allora almeno due sedute parlamentari, il 15 febbraio e il 22 marzo. ricche di dettagli, nomi e descrizioni delle torture, e poi nel luglio dello stesso anno uscì unche un dossier col titolo La Tortura in Italia a cura di avvocati e parlamentari, nonché inchieste di Amnesty International. Insomma, anche evitando di riaprire qui ora un dibattito complesso e che ci porta su un altro argomento, non si può dire che quegli interstizi del reale, come li chiamavo più sopra, non fossero già evidenti. E questo è solo un pezzetto del contesto, l’intersitizio più immediato e vicino, che riguarda la storia raccontata in questo libro.

Come una lama. Il titolo scelto da Maria Vittoria per raccontare la sua vicenda, è una metafora forte, evoca insieme sia l’immediatezza della cesura che la sua irreversibilità, una pausa che si apre improvvisa e poi resta per sempre.

Nel libro lei racconta questa pausa. L’arresto il 28 dicembre a mezzogiorno, prelevata nella farmacia dove lavora: lei è il secondo anello della catena degli arresti iniziati quel mattino per pura casualità, ma il caso è un po’ come nell’effetto farfalla (metafora che nasce la prima volta in un romanzo di Ray Bradbury) dove tutto si collega, e la stessa farfalla in realtà è proprio la vittima innocente. Arrestati dunque per caso, forse solo per una voglia di protagonismo di chi esegue il primo fermo, ma subito catapultati nel clima e nelle aspettative che si ritengono adatte a loro (“Nessuna domanda sulle mie conoscenze o su legami con altre persone, niente di niente che mi faccia capire cosa sta succedendo e sempre, sui loro visi, quello sguardo scolpito di disprezzo”) e senza che lei, la ragazza interrogata, ne intuisca il perché, il collegamento. La nostra cultura  (si fa per dire) giuridica è permeata di telefilm americani nei quali l’arresto è sempre accompagnato dalla dichiarazione del capo di accusa (nella realtà poi magari accade anche diversamente). Da noi, all’epoca del racconto, non era così, non ti dichiaravano nulla, e se tu eri davvero innocente e non avevi nulla di cui rimproverarti, proprio non ci riuscivi a indovinare da solo il motivo che loro avevano scelto per te, proprio come accade a Josef K.

Quando l’arresto avviene, il 28 dicembre, le squadre della tortura già sono pronte a mettere le mani sui primi sospettati, ma a loro – sono stati fermati in quattro – non li calcolano nemmeno (“Non ci fu riservato il trattamento” scrive Maria Vittoria) tanto dev’essere evidente la loro totale estraneità, il buco nell’acqua compiuto da chi li ha fermati, la brutta figura che può ritorcersi loro contro, incapaci ancora a due settimane dal sequestro di trovare un filo, perché non si tratta di acciuffare un colpevole qualunque, il generale che devono ritrovare è proprio quello, non possono liberarne un altro a caso, devono andare precisi.

Maria Vittoria racconta di quel salto in cui la lanciano nel buio, lo smarrimento, la convinzione profonda in quei momenti assurdi che si tratti di un equivoco, tanto che quando la vanno a prendere per interrogarla, due giorni dopo, il 30, è convinta che la stiano riportando a casa, con tanto di scuse, e invece il magistrato si limita a farsi tradurre in italiano una canzone dialettale di Senigallia trovata su foglio durante la perquisizione a casa sua, e null’altro, non le chiede nulla che possa lasciar indovinare a lei stessa in quale contesto l’hanno fermata, la manda via così, senza spiegazioni, solo con uno sguardo di disprezzo. Appare lui stesso imbarazzato, il magistrato, e lei è incredula, nemmeno l’avvocato ci capisce nulla, perché all’epoca i motivi dell’arresto non venivano spiegati fino a che tutto non fosse pronte per il rinvio a giudizio. Passa capodanno e il 2 gennaio la stampa nazionale riporta, in un articolo più ampio, queste scarne righe (La Stampa del 2/1/1982): “Sembrava che le indagini sul rapimento del generale fossero giunte ad una svolta, con i quattro fermi operati dai carabinieri di Padova. Ora pare che questa operazione non stia conducendo a quei risultati che gli inquirenti si aspettavano: si dice, in sostanza , che quegli accertamenti compiuti escludano connessioni con la drammatica vicenda dell’alto ufficiale delle FTASE . I giovani bloccati nel padovano sono Paolo Zabeo, 27 anni, di Rovereto, Giovanni Tonelli, ventiquattrenne di San Giorgio delle Pertiche (Padova), e le loro compagne, Flavia Bignani, 30 anni bolognese e Maria Vittoria Pichi, ventisettenne, di Ancona. Ieri il sostituto procuratore della Repubblica Lorenzo Zen ha convalidato i fermi, formulando l’ipotesi di associazione sovversiva a fini di terrorismo, non quella di ‘partecipazione  a banda armata denominata Brigate Rosse’ prospettata in un primo momento dagli investigatori.” 

Maria Vittoria verrà a saperlo solo alla sera, quando dalla cella vicina, dove sono in isolamento, un’altra detenuta alza al massimo il volume del televisore per farle sentire il telegiornale. Solo allora realizza l’assurdità in cui l’hanno gettata, e comprende che non le arriveranno scuse per l’equivoco, ma dovrà restare lì per un periodo forse non breve.

Curioso anche il modo in cui nell’articolo vengono descritti i giovani, quasi una promiscuità, non si capisce quali siano le due coppie (Mavi e Paolo) e che l’altra coppia è stata tirata dentro solo perché dividevano lo stesso appartamento; viene descritto invece il primo fermo, al mattino, di Paolo, fermato davvero per caso e poi fatto scendere perché c’erano dei vecchi volantini avanzati di qualche iniziativa sociale appoggiati da un lato – mi sembrano anche loro, ui volantini, come le ali della farfalla – che nell’articolo sulla Stampa si trasformano subito in “documenti al vaglio degli investigatori”: la canzone che chiedono a Mavi di tradurre nell’interrogatorio è questa: “Peppa bella, butta la catinella e gim via sa’l materàs, portate anc’el pitale…”   Insomma, è grottesco.

Perché continuano a tenerli dentro per qualche altro mese, quando tutto è così chiaro?  Hanno fatto un buco nell’acqua  e quindi è meglio stare zitti, far passare in secondo piano; tranne i giornali locali, di Marche e Veneto che un po’ di pettegolezzo vanno sempre a cercarlo, la stampa nazionale non si occupa più di loro, è meglio non ricordarli, dimenticarli, aspettare che tutto sia lontano, che passino queste giornate sotto i riflettori, sotto i quali bisogna recitare bene la propria parte.

Però magari c’è anche qualcosa di più, i cosiddetti investigatori comunque non li dimenticano quei ragazzi, anzi, torneranno a cercarli in un paio di occasioni, la prima nel 1985 («… scopro che siamo ancora utili, utili per far numero: dicono i mass media che si tratta di 40 o 50 perquisizioni e di vari arresti tra Padova, Venezia, Milano e altre città») e anche Paolo finisce di nuovo dentro e ci resta, e  stavolta per richiamare l’attenzione e non essere dimenticato sceglie di affrontare un duro sciopero della fame,  e poi anche qui tutto finisce senza aver dimostrato nulla, ma solo dopo sei anni e non subito.

Intanto la vicenda iniziale si chiude definitivamente dal punto di vista della legge solo nel 1988, ‘esiste un vuoto probatorio assoluto’ è scritto nella sentenza. Ma non è finita perché nel 1989 c’è un altro colpo di coda, che fa capire a Maria Vittoria come determinati meccanismi, quelli che  usano il battito della farfalla come un comodo alibi, continuano ad essere attivi qua e là nei loro interstizi: un normale controllo mentre passeggia per strada e poi la mattina dopo ecco una nuova perquisizione a casa  e la convocazione in Questura.

Il libro racconta questo, dallo sbalordimento del primo ingresso in cella – nella cella della caserma dei Carabinieri, in condizioni di scarsa accoglienza per usare un eufemismo, e dalle cui sbarre lei scopre di affacciarsi su Prato della Valle, su un marciapiedi dove lei stessa era passata tante volte – alla perquisizione a casa sua, gli anfibi dei militari sulle lenzuola, l’interrogatorio, il trasferimento al carcere della Giudecca, l’isolamento, la prima visita dei suoi genitori un mese dopo, i quali avevano creduto vere le cose scritte sui giornali e invece devono ricredersi, poi la vita del carcere insieme alle altre donne, le condizioni di recluse e anche l’affetto e la solidarietà che si scambiano, per sentirsi un po’ meno sole, e la forza interiore che si scopre d’avere dentro e che forse aveva sottovalutato ma ora cerca di usare al meglio, la vitalità che soffre d’essere trattenuta. E poi cento giorni dopo l’uscita, e la vita che riparte ma continua a svolgersi in quella pausa oramai aperta come da una lama.

Il libro di Maria Vittoria mi sembra come un antidoto per tutti noi. Per lei ha avuto effetti importanti, per lei stessa e per il mondo di relazioni, amici, conoscenti che le stava attorno e dapprima la guardava un po’ strano: perfino la zona dove lei abitava veniva chiamata “la collina della brigatista”, e questo andava sicuramente sciolto, e ora quella definizione può essere ricordata davvero come un equivoco.

Mi piace citare dal suo libro un episodio divertente ma al tempo stesso niente affatto  banale,  un po’ come quel vecchio slogan di inizio novecento ‘Sarà una risata che vi seppellirà’, che esprime una grande voglia di libertà: «Cerco anche di divertirmi e con una guardiana trimestrale dallo sguardo poco intelligente mi spaccio per una donna bionica: le racconto in modo serio e convincente che io resto lì solo per curiosità, per vedere com’è un carcere, ma che quando voglio posso uscire, basta che io mi concentri e… flot! mi alzo in volo come fosse uno scherzo. Tanto per provarglielo, salgo sullo scalino più alto del pozzo, stringo i pugni, mi concentro, gonfio le vene del collo e… appena alzo i talloni quella mi si butta addosso a prendermi per i piedi. Che inebriante soddisfazione.»

 

 

 

 

 

 

il caso non nasce mai dal nulla,    “Il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo”

 

Per farlo uscire verso il cielo

Alcune note e riflessioni dalla conversazione con Michele Gianni e la sua storia “Rantologia, viaggio dal paese dei tubi” per il secondo appuntamento con Le Marche in Biblioteca 2020. Con alcune foto ‘mascherinate’ della serata.

Ma esiste già una narrazione dell’era covid? Questa domanda non l’ho formulata in questo modo giovedì sera 15 ottobre, nella conversazione con Michele Gianni che raccontava del suo “Rantologia, voci dalla terra dei tubi” (Qui la scheda sul libro , pubblicato da Ventura edizioni, che ho già scritto la scorsa settimana) ma ha preso nei miei pensieri questa forma più perentoria e di aperto dubbio solo dopo che ci siamo alzati dal tavolo.

La forma della domanda che ho usato durante la serata è stata più diretta e personale, quando ad un certo punto, ascoltando Michele soprattutto nel suo modo di parlare più che nelle parole – che il suo libro l’avevo già letto nella prima bozza in pdf del mese di aprile e poi di nuovo una decina di giorni fa avvicinandomi all’incontro – mi sono trovato a seguirlo nel suo ritmo interno, più testimonianza che racconto, alle prese con una massa di ricordi ancora freschi e molteplici di quelle giornate piene di tanti dettagli, anche contraddittori e in contrasto uno con l’altro, carichi insieme di angosce o istinto di sopravvivenza, a volte grotteschi oppure addirittura comici o ridicoli, basta ruotare lo sguardo o la percezione ed è come un caleidoscopio, un concentrato inedito di vita e di vitalità costrette alla lotta per uscirne fuori, e tornare in sé, per sentirsi bene anche addosso, ma ora con questo nuovo mondo inedito di esperienze da domare.

Lì sul momento nemmeno io stavo domando le mie percezioni, le lasciavio fluire, limitandomi all’istinto, seguendo il ritmo del suo rievocare e descrivere lontano dalla tentazione di spiegare ma intento piuttosto a ‘riportare’, e ad un certo punto l’ho interrotto e gli ho chiesto: “Ma tu, che hai scritto subito il libro appena rientrato a casa, hai già ‘assimilato’ questa esperienza oppure ancora ti vive dentro e la stai ancora assimilando, è un processo ancora in corso?”  Che può essere intesa anche come una domanda retorica, che riguarda l’ovvio, perché è senz’altro così, e quindi per paradosso diventa ancora più complicato rispondere, ma dalle parole di risposta comprendevo che quella domanda avrei dovuta rivolgerla, piuttosto, a tutti noi.

M’è venuta in mente allora in modo più chiaro la differenza tra la mia stessa prima lettura del suo racconto, in aprile, quando eravamo tutti chiusi a casa e nel momento del dramma esploso, che ci aveva colti alla sprovvista, eravamo vogliosi di partecipare in qualche modo a ciò che accadeva agli altri, ai nostri amici, a quel mondo di relazioni ora ‘distanziato’ che là fuori non potevamo raggiungere fisicamente, e curiosi di capirci qualcosa, ma ancora convinti ingenuamente che ne saremmo usciti velocemente, per tornare al prima, si trattava solo d’avere pazienza di questa sospensione inattesa. E in questa attesa forse c’era un po’ anche quell’aria di quando si affronta una battaglia che s’immagina eroica dura e veloce. Mi torna in mente questo video, che stimolato dallo scritto di un amico preparai e pubblicai sette mesi fa, a metà marzo, e s’ìintitolava “Domani, per il pane e le rose”.

Ora invece la seconda lettura del libro avvenuta pochi giorni fa ha avuto un effetto diverso, come l’accorgersi in ritardo che qualcosa è accaduto, l’abbiamo visto bene ma l’attenzione comunque non era adeguata e il mondo già non è più esattamente come prima. Forse, più che l’angoscia suscitata ora dagli allarmi sul ritorno incombente del contagio (c’è chi dice che anche l’ondata di ritorno di uno tsunami sia più angosciante), è proprio questo scarto di significato che si è prodotto e sta continuando a prodursi, a creare questa sensazione di incertezza.

Ma sto parlando esclusivamente delle mie percezioni, torniamo alla serata. La conversazione con Michele è stata accompagnata da tre interventi musicali di Claudio Durpetti della Scuola Musicale Pergolesi di Jesi, che aveva scelto per l’occasione tre brani di musica classica, da lui proposti con la chitarra: Fernando Sor, Andante dall’op. 31; Ferdinando Carulli, Moderato e Niccolo’ Paganini, Sonatina. Mentre ascoltavo mi sembrava che le corde della chitarra potessero essere una metafora delle nostre corde interne, che hanno bisogno di ritrovare la loro armonia e sinfonia, il loro respiro. Al termine di uno dei brani ho chiesto a Michele quali erano i suoni, o i ‘rumori di fondo’ che ascoltava nelle lunghe giornate e notti d’ospedale: «La colonna sonora di questo ricovero era il rantolo, così è venuto fuori ‘Rantologia’… questo rantolo che veniva da tante stanze, si sentiva sempre, più o meno forte, con tante sfumature diverse….».

Abbiamo parlato di molte altre cose. L’intera conversazione è stata registrata interamente, e si può riascoltare con comodo sulla pagina di Jesi Cultura Turismo; ne riporto qui in chiusura soltanto un brano, proprio le parole di Michele prima che io lo interrompessi con la domanda da cui sono partito per queste mie riflessioni:  «purtroppo ho visto diverse persone, più anziane di me, che non ce l’hanno fatta a uscirne. C’è un capitolo del libro con il titolo ‘La morte accanto’, in cui descrivo anche questa cosa abbastanza pesante, anche e soprattutto per il personale sanitario, che non ce la faceva a stare dietro a tutto. Io sono stato accanto al mio vicino di letto morto per una giornata intera, perché non ce la facevano a portarli via subito, ce n’erano troppi altri. Anche in questa situazione, la più drammatica, che forse è proprio ‘apice del libro, nella quale… io che sono un noto agnostico, con questa persona al mio fianco che è morta nella solitudine totale, io mi sono sentito addosso una specie d’istinto… di dargli una specie di benedizione, una specie di cerimonia forse anche un po’ pagana, e poi gli ho aperto la finestra come per farlo uscire verso il cielo… e quando apro la finestra mi resta in mano la maniglia della finestra. E così, anche nei momenti più drammatici, accade insieme sempre qualcosa di grottesco, la maniglia che mi resta in mano. C’è sempre questo doppio aspetto… drammatico ma anche in qualche modo creativo, a volte involontariamente ridicolo, che a volte ti fa trovare anche degli aspetti divertenti… è questo che mi sono trovato a vivere e ho cercato di riportare in questo racconto». 

 

 

Rantologia. Voci dalla terra dei tubi, di Michele Gianni

Titolo: Rantologia. Voci dalla terra dei tubi
Autore: Michele Gianni
Casa editrice: Ventura edizioni

Incontro con Michele Gianni alla Biblioteca Planettiana di Jesi giovedì 15 ottobre ore 21.15 per il secondo incontro della rassegna Le Marche in Biblioteca 2020. la conversazione con l’autore sarà accompagnata dalla lettura di alcuni brani a cura di Arci Voce aps e dagl iinterventi musicali di Claudio Durpetti, insegnante della Scuola Musicale Pergolesi.

Rantologia è uno di quei libri che l’autore non vorrebbe mai trovarsi nella situazione di dover scrivere, però poi qualche trama del destino ti ci tira dentro, sconvolgendo tutto e anche di più, perché, oltretutto, l’unica cosa che si sa del virus della corona è che nessuno ne sa quasi nulla, medici compresi, tranne il fatto che gli ospedali si stanno già intasando. Era così in quei primi giorni di marzo di questo 2020, una sorta di nuova realtà “due punto zero due punto zero”. All’inizio è una febbriciattola strana che non somiglia alle altre di cui si ha esperienza, poi la lenta ma inarrestabile escalation, con tutti i passaggi preliminari, in cerca di accertamenti o conferme cioè tamponi che però si fanno attendere, il poi il ricovero, l’isolamento, la tac, la febbre che cresce, il medico che ti visita dal corridoio e manda in camera l’infermiera come suo ambasciatore, poi arrivano i tubi, di cui volenti o nolenti si diventa un poco esperti, metti e togli, protesi del corpo e di non si sa bene con certezza cos’altro, come se  gli stessi confini di se stessi – in questo confinamento – assumano una diversa consistenza.

Il virus della corona interagisce anche con i pensieri, perché mentre il corpo combatte la sua battaglia cercando di non soccombere, si resta se stessi nei pensieri, è lì che ci si rifugia. L’8 marzo Michele doveva salire sul palco di un teatro per uno spettacolo “sull’8 marzo”, e già questa bizzarria, attore uomo che pretende di parlare di donne – ma non è solo il suo spettacolo a essere interrotto, è proprio l’8 marzo in quato tale – introduce una nota in più in questa storia, come una sorta di aporia, nella quale lo stesso Michele si rifugia durante le notti insonni del ricovero, perché è ancora convinto che basterà il rinvio di un mese e ad aprile lo spettacolo tornerà sul palco, lo stesso teatro lo ha rimesso in programmazione. Così in quelle notti Michele si ripassa nel silenzio dei suoi pensieri le battute, già mandate a memoria, per mantenerle vive e magari continuando a limarle, aggiustarle, immaginando il tono migliore, mentre sono quelle stesse batture che aiutano lui a fare manutenzione del suo spirito.

Ho scelto questa immagine tra le tante, per introdurre questo libro, forse perché s’intravede meglio in queste righe quel leggero tono sornione che associo sempre a Michele e che comunque percorre più in profondità il suo racconto, senza mai osare al tempo stesso di scherzare su quanto gli sta accadendo, e sui paradossi che mettono in evidenza, o che uno può cogliere anche dentro di sè una volta che ha modificato il suo sguardo.

Michele racconta quei giorni e non torna a noi per darci spiegazioni o consigli: “In questa epidemia, moltissimi danno pareri, indicazioni, sentenze. Io non dico niente, non conosco niente, non ci capisco niente. Io racconto.”  Così è proprio con questo spirito che un giorno gli viene in mente una sera di… «dare notizie di me al mondo tramite facebook. Mi faccio un selfie orrendo con la testa sul cuscino e la maschera dell’ossigeno in faccia attaccata al tubo. Scelgo Shakespeare per la didascalia. “Tubi or not tubi, questo è il problema. Saluti dalla terra dei tubi.” Ci penso un po’, poi pubblico.  Mi sveglio nel cuore della notte. Non ho orologio, per vedere che ore sono accendo il telefonino. Sono le due. Adesso il problema è riprender sonno. Mi viene in mente di guardare che effetto ha sortito il mio post su facebook. Centinaia e centinaia di commenti scorrono sotto quella foto raccapricciante. (…) Mi si spalanca un mondo di gente che mi vuol bene, ma anche di gente chiusa in casa da giorni che ha una gran voglia di condividere emozioni, che trova all’improvviso un contatto con un ospedale dove si sta consumando la tragedia e ci vuole essere, vuole partecipare, tenere questo canale aperto.
Il mio narcisismo da attorucolo, la mia vanità trovano piena realizzazione in questa pioggia di commenti. La vicinanza di tutta questa gente mi dà una forza straordinaria, ormai non c’è più partita, la mia vittoria sul virus della corona è fuori discussione.»

Ci sono anch’io tra gli amici che vedono quell’orrenda foto e ne sono scosso come tanti altri, mando un messaggio  a lui e poi a mia volta la condivido con altri amici che abbiamo in comune, e lo seguo così fino a vedere dalle foto ilo diradarsi dei tubi e poi finalmente quella allucinata corsa nell’ambulanza che lo riporta a casa, paradossale anche lei tutta coperta di carta stagnola, come la scenografia di un qualche teatro di parrocchia: «Il filmato è un trionfo di critica e di pubblico. La gioia di chi mi segue su facebook per il mio ritorno a casa si mescola allo sbalordimento per quella irreale fantasmagorica scenografia dorata frusciante che nessun premio Oscar avrebbe potuto ideare. Su facebook, dopo il ritorno a casa, non ho messo più niente. È rimasto il filmato.»

E poi qui – ma siamo darante la covalescenza a casa nei giorni della scrittura di questo racconto – ecco anche la Canzone del tampone: https://www.facebook.com/michele.gianni.37/videos/10206765058841223/

 

 

L’incontro con Ezio Bartocci

Ecco qui un po’ di foto, le prime che mi sono arrivate, sull’incontro di giovedì scorso 8 ottobre alla Biblioteca Planettiana, in pochi intimi, distanziati come la prudenza oltre che le norme consiglia di fare, per il primo incontro con Le Marche in Biblioteca 2020.

Dopo la presentazione della rassegna e il saluto dell’Assessore alla Cultura Luca Butini, in apertura dell’incontro e in chiusura due letture a più voci con Grazia Tiberi, Elisabetta Benedetti e Tullio Bugari (Arci Voce aps), accompagnate dalla tromba di David Uncini, per proporre e animare il testo di Antonio Emiliani, nella cartella Sulla Breccia curata da Ezio Bartocci.

Nella pausa tra le due letture in musica Ezio Bartocci ci ha raccontato del suo lavoro, come è nata l’idea, da quali altri percorsi di ricerca artistica e storica è scaturita e come poi ha preso corpo, senza escludere gli aneddoti che accompagnano lo sviluppo di qualsiasi lavoro che procede per incontri e scoperte successive, dettagli come chiavi che aprono orizzonti che a loro volta ne stimolano altri, coincidenze ritrovate tra i personaggi e i contesti in cui le loro storie sono avvenute, suggerendoci così ad ogni passo anche possibili ulteriori approfondimenti, per conoscere e seguire anche altre storie, riattualizzazioni di quel passato che è all’inizio dei nostri sguardi, modelli culturali e modi attuali di sentire. Di quel passato che dialoga con noi.

Calarsi in queste atmosfere e riflessioni all’interno della sala maggiore della Biblioteca Planettiana, e all’interno di quel palazzo che è più di un simbolo della nostra città, e soprattutto è un universo intero di documentazione e memorie raccolte, non a caso ma inseguendo nel tempo i propri percorsi, dai quali attingere ancora, costituisce senz’altro un’emozione e uno stimolo in più.

Così, tra gli squilli di tromba che in sottofondo alla lettura leggeri riecheggiavano l’ingresso dei bersaglieri a Roma, mentre Pio IX ricordava ai suoi che il momento della resa era giunto e iniziava per la corte pontificia un altro corso, la cartella “Sulla Breccia” ci ha consentito di riabbracciare con lo sguardo quell’intero mondo, sgombrandolo anche di possibili enfasi retoriche centrate sull’avvenimento in sé.

La lingua usata da Emiliani nel suo racconto, scritto diciotto anni dopo la presa di Porta Pia, ha una leggerezza e un’essenzialità che fanno sembrare attuali anche le parole oramai desuete nel linguaggio quotidiano, ma forse più piene, come se le avesse scelte con cura cercando la sonorità più adeguata alle immagini che rievocano, aiutandoci a sentirci dentro quel racconto.
La stessa essenzialità cogliamo nel ritratto tricolore che in copertina rappresenta il re d’Italia, e scorrendo i fogli della cartella di Bartocci, nella scelta delle immagini, dei colori e dei caratteri.

 

Tra il rosso della chioma

Giovedì 8 ottobre alle 21.15, primo incontro della rassegna Le Marche in Biblioteca 2020.

Il 20 settembre 1870 con la “breccia di porta Pia” cade il potere temporale dei papi e inizia il governo dello Stato laico. Più o meno. Il testo di Antonio Emiliani, originario di Falerone, riproposto ora da Ezio Bartocci con il titolo “Sulla Breccia” – tratto dall’ultimo capitolo del libro pubblicato a Fermo nel 1889 – e con una cartella pregevolmente curata – in copertina il  festoso ritratto tricolore, essenziale, di Vittorio Emanuele II, focalizza  con leggerezza tra il rosso della chioma e il verde del debordante “onor del mento”  uno dei volti più caratteristici della nostra storia – stuzzica la mia curiosità verso un Fatto storico che non mi sembra sia proprio al centro delle attenzioni. Nonostante l’anniversario dei centocinquanta anni.

Senza nessuna velleità di storico, che non sono, ma con la leggerezza tranquilla del curioso, raccolgo qualche stimolo.

Il testo di Emiliani mi sembra che abbia una sua leggerezza particolare che lo distingue dai toni più enfatici o retorici di testi prodotti già allora e in tempo reale da scrittori e commentatori, o comunque dai toni di un immaginario popolato da atti fieri d’eroismo e da allegre marcette di bande militari. Emiliani è un testimone diretto di quel Fatto, di cui scrive però diciotto anni dopo, e lo fa col tono di chi racconta: me lo immagino davanti ad un gruppo di ascoltatori che un po’ legge dai suoi fogli e un po’ narra, rivivendo a distanza di tempo le diverse emozioni di allora, che non sono prive naturalmente di sentimento patriottico, avendovi partecipato in prima persona, o di immagini degli assalti e delle grida di gioia e di stupore dei vincitori, e insieme però con gli occhi attenti a tanti dettagli talvolta definiti minori, dalle macerie a terra, ai feriti, a chi si aggira prestando i primi soccorsi ai feriti, al rammarico dei perdenti, o al popolo memore delle recenti repressioni e che dunque si aggira ai margini della battaglia in cerca dei Pontifici in fuga, da arrestare. Insomma, la battaglia con i suoi slanci eroici, che commuovono ancora i suoi ricordi, e insieme anche i suoi risvolti umani, che quell’entusiasmo un po’ magari lo stemperano e lo avviano forse verso una maturità più pacata.

Porta Pia all’epoca. Immagine presente nella cartella.

Pio IX, il “nostro” Papa Mastai Ferretti, compare due volte nel racconto, come a sottolinearne l’attesa e poi il momento della decisione, mentre osserva o ascolta i fragori della battaglia e dell’assalto di Nino Bixio, e quando poi ordina la resa appena gli giunge la notizia che è stata aperta una breccia.

Mi pare che Pio IX fosse ben cosciente della netta superiorità del neo esercito italiano – contro cui non aveva alcuna chance, soprattutto dopo il ritiro delle guarnigioni francesi richiamate in patria per la guerra franco prussiana – tuttavia aveva ugualmente rifiutato fino all’ultimo qualsiasi accordo per la cessione del potere temporale, perché gli serviva dimostrare d’essere stato cacciato con la forza: diede così l’ordine di schierarsi per combattere ma già pronto ad arrendersi al primo ingresso dei bersaglieri in città. Ecco dunque la battaglia, i colpi di cannone e i morti, non molti, non migliaia ma alcune decine, ma pur sempre vittime sono.

Avevano tentato di convincere Pio IX anche con sollevazioni insurrezionali dall’interno, ma senza successo, erano state represse con violenza, così come era stato sconfitto Garibaldi a Mentana tre anni prima, quando ancora c’erano i francesi. A Roma vigeva la pena capitale e Pio IX esercitava ancora il potere di comminare condanne a morte. Toccò a Giovanni Monti e Gaetano Tognetti, decapitati nel 1867. Oltre al potere temporale aveva voluto consolidare ancora di più quello spirituale, se mi è consentita la battuta, infatti il 18 luglio 1870, qualche settimana prima della “breccia di Porta Pia” aveva istituito il dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e di morale. E magari fu a suo modo proprio un atto lungimirante, per lasciare a sé e ai suoi successori un potente strumento per poter almeno interferire nelle decisioni dei governi italiani a venire.

Il 2 ottobre, intanto, fu un plebiscito che con circa il 99% dei voti stabilì e legittimò l’annessione di Roma e del Lazio all’Italia e gettò le basi per Roma capitale. La città allora era compresa tutta all’interno delle Mura Aureliane e non arrivava a duecentomila abitanti , contro il quasi mezzo milione di Napoli o i circa 300 mila di Milano.

Tornando però al testo di Emiliani, da cui sono divertito anche per l’incontro con parole ed espressioni oramai desuete nella nostra lingua, ma forse anche allora usate più per rendere elegante il modo del raccontare, e meno nel linguaggio quotidiano; oltre a questo, però, mi traspare proprio da quel modo di raccontare, e da quel linguaggio e quello sguardo che non trascura i risvolti umani della battaglia, che non si tratta soltanto di rievocare un Fatto storico, quanto piuttosto un contesto, cioè un Mondo, un modo di sentire. Un sentimento, lo definirei.

Mi colpisce allora la cura dei dettagli, dello sguardo attento a soffermarsi, nel suo muoversi tra le barricate, lungo le strade solcate da ferite, tra gli schiamazzi che ode qui o gli squilli di tromba là, che in sottofondo arrivano quasi senza disturbare quell’aria, mi trasmette il senso del tempo, del suo ritmo e del suo scorrere, spingendomi a immaginare le vie più intime di Roma, quelle del cosiddetto popolo, degli artigiani, dei viandanti, un po’ spettatori e un po’ partecipi e coinvolti, un po’ liberati e che infatti poi votano in massa per l’annessione. Insomma, prendo in mano quelle pagine di Emiliani e mentre le leggo ad alta voce, sento mettersi in movimento un buon mare di suggestioni, il tono del suo racconto mi concilia in questo e mi stuzzica ad altro.

La cartella curata da Bartocci, il semplice lavoro di impaginazione, scelta delle immagini dei colori e dei caratteri, mi restituisce lo stesso tipo di sentimento, suggerendomi la sorprendente ricchezza di un mondo, sottratto a sbrigativi stereotipi retorici.

Così, quasi per paradosso, mi accade d’immaginare sullo sfondo del racconto proprio il Fatto storico, e la Storia non semplice e non poca sia di quei giorni complessi – da lì a pochi mesi, mentre Roma si festeggia “Capitale”, Parigi conosce le illusioni e la carneficina della Comune – sia degli anni a venire, fino ad oggi, con molte questioni ben aperte sul tema della laicità, eccetera e ancora eccetera. Mi viene in mente, da ultima, la beatificazione di Pio IX nel Duemila, l’anno del Giubileo.

 

Sulla Breccia per ricordare i 150 anni della presa di Porta Pia per Roma Capitale. A cura di Ezio Bartocci

Sulla Breccia, di Antonio Emiliani
Cartella (a cura di) Ezio Bartocci
Edizione di Garofoli, Sassoferrato

Giovedì 8 ottobre alle 21.15, per il primo incontro con Le Marche in Biblioteca 2020, presentazione della cartella di Ezio Bartocci  “Sulla Breccia” nel 150° della conquista di Roma attraverso lo sfondamento di Porta Pia (20 settembre 1870) per l’annessione al regno e l’elezione di Roma a Capitale d’Italia.

«La copertina della cartella – scrive Monica Cirillo sulla rivista La Voce del tabaccaio dell’11 settembre – propone un festoso ritratto patriottico di Vittorio Emanuele II.  Il titolo “Sulla Breccia” è lo stesso dell’ultimo capitolo del libro “Bozzetti: sulla via di Roma” di Emiliani. Il giovane patriota (Falerone, 1848 – Montegiorgio 1916) pubblicò i suoi ricordi a Fermo, dopo diciannove anni dalla storica vicenda a cui aveva partecipato rimanendo ferito.
La riscoperta, scrive Bartocci nella bandella interna, insieme alla biografia di Emiliani, è stata favorita in questo caso dalla forzata clausura dei mesi scorsi:  “… mi sono soffermato sul capitolo conclusivo che descrive le ore salienti di quel memorabile 20 settembre di centocinquant’anni fa. Pagine che tornano interessanti e in qualche modo attuali grazie al meccanismo che scatta in occasione delle ricorrenze.   Decido di riproporle insieme ad alcune immagini appropriate per dar forma ad una edizione originale…”. »

La presentazione della cartella sarà accompagnata dalle letture del gruppo Arci Voce e dagli interventi musicali di David Uncini.

Caratteristiche: cartella a tre ante, formato chiuso cm.17x 33,5, aperto cm.55×58; contenente 4 fogli doppi/16 facciate; formato chiuso cm. 16,5×33 – aperto cm. 33×33; stampa digitale a colori su cartoncino Tintoretto Fedrigoni da gr.200; costo di 25 euro; per info e acquisti: info@manifestiindigitale.it o tel. 0732/95159 – 0732/619352).