Libri

I libri di Altrovïaggio

“Lei siete voi”, di Lorenzo Fava

Titolo: Lei siete voi
Autore: Lorenzo Fava
Casa editrice: Lieto Colle

Giovedì 10 ottobre alle ore 21.15, per la seconda serata con Le Marche in Biblioteca 2019, incontro con LORENZO FAVA e la sua raccolta di poesie “LEI SIETE VOI”;  converserà con l’autore Alessandro Seri; letture di poesie a cura di Arci Voce, interventi musicali della Scuola Musicale Pergolesi di Jesi, con gli allievi di flauto Chiara santinelli e Michele Di Pietropaolo. L’incontro si svolge alla Biblioteca Planettiana di Jesi.

«Come sempre detto, un verso che si forgia nel fuoco dell’umana esperienza, che si dibatte tra acuti violenti e teneri schianti nel dolore di affrontare il baratro quotidiano. Un lavoro intenso riuscito sulla parola e la visione. Bravo.» (commento di Marco di Pasquale, dal blog Carteggi inediti)

«Lei siete voi è un titolo che a impatto crea nel lettore l’aspettativa del canzoniere amoroso. Il lei fa pensare a una o più muse, a un harem felliniano. Ma nella seconda parte Lorenzo rigira il gioco: Lei è la poesia. Questa silloge è una grande dichiarazione d’amore per la poesia, da parte di un poeta che vive quest’arte in maniera viscerale. Tra le sue caratteristiche la cura del ritmo e il messaggio che arriva come un pugno». (introduzione di Jacopo Curi ad un reading poetico ad Appignano).

***

È la calma dell’algebra a dettare
tempi e partiture, a chiudere i segni
e spalancare ferite. Avverto
segni di cedimento in ogni dove:
perché non ci sia nulla di inespresso
che non abbia posto lassù,
abbi qualcuno a cui dire qual è stato
il nome che ha esploso ogni poesia
con tutta la violenza della luce.

*

I muri hanno perso memoria dei tuoi passi,
sei sfilata alla loro vista senza lasciti.
Ora più robusto è il gesso, e spesso
la porta d’ingresso serrata, la luce
spenta da tempo. Chissà se qualcuno adesso
si incontra nelle nostre stanze.
Quanti amanti noi stessi avremmo
divorato distesi sotto altri cieli?

*

Tu non sai nei cimiteri quanti passati
sorridono, esultano forse più morti che vivi.
O almeno nell’idea che la vita sia per le strade,
negli uffici, sui balconi. Tu non sai.
non ti è dato saperlo forse, tra i rovi
delle discussioni, nei vortici delle apparenze,
nelle cabine telefoniche agli incroci.
Ma ciò non toglie a quelle bare così tristi
di rovesciare le sorti della terra
tanto scure da lasciarci
spesso i soli a capo chino in ogni mondo.

*

La potenza degli avverbi,
le composizioni numerate,
la prima scrittura che tutto vede:
cento poesie mi separano dal tuo campo

le riporterò tutte alla portata della voce.

*

In confidenza ti dico
prova a volermi come una costa di fiato
che inverte il senso del vento,
oggi conto la pressione
con cui premo sul foglio perché scoppi
mentre la marea sale parallela
nella baia della tempia sotto sforzo.

*

Lorenzo Fava, nato ad Ancona il 12 giugno ‘94, vive a Macerata dove studia Lettere e collabora con Il Resto del Carlino e Seri editore. Sue poesie sono apparse su Poetarum Silva, Yawp, Arcipelago Itaca blo-mag, Carteggi Letterari, Critica Impura, Inverso, Poesiaultarcontemporanea e Nuova Ciminiera.. Ha un libro edito (Licenza di uccidere, Cinquemarzo 2017).

La letteratura della famiglia (i libri del circolo di lettura)

“La Letteratura della famiglia”, questo il tema scelto per il nostro quinto anno del Circolo di lettura presso la Biblioteca Planettiana, per la stagione 2019/2020, quinto anno di questa esperienza. Gli otto libri scelti per questo nuovo percorso di letture che seguiremo, uno al mese, fino al prossimo mese di giugno, è stato presentato ieri sera ai partecipanti da Alessandro Seri.

Titolo: Un complicato atto d’amore
Autore: Miriam Toews
Casa editrice: Marcos Y Marcos 2005

INCIPIT
«Abito con mio padre, Ray Nickel, in quella casa di mattoni a un piano sulla statale dodici. Persiane azzurre, porta marrone, una finestra rotta. Niente di che. I mobili continuano a sparire, però. E’ l’unica cosa interessante. Manca metà della famiglia, la metà più bella. Io e Ray ci alziamo la mattina e facciamo svariate cose finché è ora di andare a dormire. Tutte le sacrosante sere verso le dieci Ray mi comunica che lui va a far riposare le ossa. Prima di entrare in camera da letto si ferma nell’ingresso e piazza dei foglietti sopra le sue scarpe per ricordarsi quello che deve fare il giorno dopo. Ci piace guardare insieme l’aurora boreale. Gli ho riferito, parola per parola, quello che ci ha spiegato il professor Quiring in classe. Su come funziona il fenomeno. Lui ha trovato la spiegazione abbastanza interessante. Ha sempre avuto un certo interesse per le opinioni di Quiring, probabilmente perchè è un insegnante anche lui. 
Devo finire i compiti. Una parola cruciale, “finire”. A me i finali vengono male, Quiring mi ha detto che in genere i temi e i racconti arrivano fisiologicamente a una loro fine inevitabile, fuori dal controllo di chi scrive. Dice che quando arriva la fine, ce ne accorgiamo per forza. Non so. A me sembre che ce ne siano tanti, di possibili finali.»
PRIMO INCONTRO: mercoledì 6 novembre, ore 21.15

 

Titolo: Discriminati
Autore: Loretta Emiri
Casa editrice: SeriEditore 2018

Dalla Prefazione di Fernada Elisa Bravo Herrera:
«In questa nuova avventura letteraria, Loretta Emiri ci offre una “novella” che ripropone, nelle velature, negli intrecci, e anche in chiave di lettura, come ci mostra lo stesso titolo, la propria esperienza formativa in Brasile intesa come capacità interpretativa, come sguardo ampio e profondo del mondo. La scrittura, ha segnalato Loretta in una pagina web del Comune di Fermo, costituisce la forma “per esprimere sentimenti di riconoscenza e solidarietà”, per riscattare, ripensare e dare continuità alla propria esperienza, vale a dire, alla sua esperienza brasiliana. Per questa profonda concezione della scrittura l’universo yonomami funge da struttura del racconto familiare, nonostante la narrazione giri apparentemente lontana dal Brasile, intorno all’Umbria, alle Marche, al Piemonte e i fatti raccontati siano accaduti molto prima che Loretta nascesse e vivesse la sua esperienza fra gli indigeni. Si tratta quindi di un’altra forma di dialogo interculturale, nella quale il parlare della famiglia è una maniera ellittica di parlare di sé stessa e della società dal punto di vista della cultura yonomami. In questo modo, la scrittura di Loretta cerca di profilare, nel desiderio e nella celebrazione, una specie di utopia fatta da viaggi e fughe dalle guerre.»
SECONDO INCONTRO: mercoledì 4 dicembre ore 21.15

 

Titolo: Il passato
Autore: Tessa Hadley
Casa editrice: Bompiani, 2017

Da una recensione sul sito SOLO LIBRI:
«Le dinamiche di famiglia che si innescano nel ritrovarsi tutti insieme nella casa piena di ricordi sono indubbiamente la parte più affascinante di questo romanzo davvero molto “inglese”. Fra Pilar e la scorbutica Harriet si instaura un’insolita vicinanza, una sorta di imprevista complicità; Kasim corteggia, ricambiato, la diafana Molly, i bambini esplorano la campagna fino a trovare un vecchio cottage abbandonato dove scoprono segreti che saranno solo loro e che li faranno confrontare in modo imprevisto con il mondo degli adulti. Ma dopo che abbiamo familiarizzato con i diversi personaggi, ecco che la scrittrice ci trasporta indietro nel tempo, nel secondo capitolo intitolato “Il passato”, ambientato nel 1968…»
TERZO INCONTRO: giovedì 9 gennaio ore 21.00

 

Titolo: Sei come sei
Autore: Melania Mazzucco
Casa editrice: Einaudi 2015

INCIPIT
«L’anno zero. Quando mi chiedono in che anno sono nata, rispondo. Perché ritengo scontato mentire – ci si aspetta che le donne non dicano la verità. E nemmeno i giovani, a meno che non ostentino il privilegio della loro età per trarne beneficio. Alla gioventù si perdona più volentieri l’errore, la presunzione e il coraggio. E io detesto il determinismo della biologia. Chi mi interroga inoltre non sa che considero ogni anno della mia vita un miracolo, e me ne vanto. Però rispondo a modo mio. Sono nata nell’anno del cavallo, dico.»
QUARTO INCONTRO: mercoledì 5 febbraio ore 21.00

 

Titolo: Mrs Bridge
Autore: Evan S. Connell
Casa editrice: Einaudi 1959

Da “Il giro del mondo attraverso i libri”:
«È India Bridge la protagonista del romanzo di Evan S. Connell, una donna americana che di particolare ha solo il nome di battesimo. Mrs Bridge è una donna bella, ma non troppo, ed è decisamente normale: sposata con un avvocato – che non si tira indietro nel fare gli straordinari -, hanno tre figli, Ruth, Carolyn e Douglas, e vivono in una bella casa con tanto di servitù di colore a Kansas City, tra gli anni Venti e la fine degli anni Quaranta del Novecento. Mrs Bridge ha diverse amiche, alcune molto acculturate, quindi spesso si fionda in biblioteca e si impone di leggere libri impegnativi per farsi un’opinione; ma è il marito a dirle come votare e quando Mrs Bridge cerca di emanciparsi, si scoraggia perché non è mica semplice votare di testa propria. Prova ad imparare lo spagnolo, inizia un corso di pittura che non porta a termine, va a vedere film d’essai che puntualmente non capisce.»
QUINTO INCONTRO: giovedì 5 marzo ore 21.00

 

Titolo: Mr Bridge
Autore: Evan S. Connell
Casa editrice: Einaudi 1969

Da una recensione di Gaia Montanaro:
«Pubblicato per la prima volta nel 1969, Mr Bridge è uscito a dieci anni di distanza da Mrs Bridge, il romanzo più riuscito di Evan Connell che raccontava la storia della famiglia Bridge dal punto di vista della moglie. Ritratto agrodolce e in parte satirico di una famiglia borghese americana tra gli anni Venti e Quaranta – e portato sullo schermo da James Ivory – il romanzo di Connell racconta in modo accurato e lucido una società fortemente definita dalle convenzioni sociali, da una modalità codificata di rapportarsi con il reale nelle sue varie forme. Tutto è dominato dalle aspettative – spesso autoimposte – che non lasciano spazio a uno sguardo diverso, più ampio e compassionevole su di sé. Connell dimostra una grande sapienza narrativa nel tratteggiare con calibrato equilibrio situazioni e dinamiche relazionali, in un romanzo d’atmosfera dominato da un sentimento di tenerezza amara verso personaggi e situazioni, che ha nella rarefazione la sua cifra stilistica predominante.»
SESTO INCONTRO: mercoledì 8 aprile ore 21.00

 

Titolo: I Middlestein
Autore: Jami Attenmberg 
Casa editrice: La Giuntina editore, 2014

Da una recensione sul sito SOLO LIBRI:
«I Middlestein è il racconto delle vicende di una famiglia ebraica che vive in America: i suoi componenti rispettano i riti della loro religione e cultura e molto di questo è narrato nel romanzo di Jami Attenberg.  Personaggio principale attorno a cui ruota l’intera vicenda è Edie, prima bambina, poi donna e avvocato di successo, infine al termine della propria esperienza lavorativa, con una caratteristica che l’accompagna per tutta la vita: un forte attaccamento al cibo, l’impossibilità di farne a meno. La piccola Edie Herzen (questo il suo cognome da nubile) non era mai stata mingherlina. D’altronde, per i suoi genitori come era possibile non dar da mangiare alla propria bambina, come non rispondere affermativamente ad ogni sua richiesta di cibo anche se in quantità eccessiva? Così, ancor piccina, Edie viene paragonata ad un solido blocco di carne ed è già notevolmente in sovrappeso. Eppure mamma e papà non possono negare il cibo alla figlia.»
SETTIMO INCONTRO: giovedì 7 maggio ore 21.00

 

Titolo: Nessuno può volare
Autore: Simonetta Agnello Hornby
Casa editrice: Feltrinelli 2017

Dalla promozione del film DVD, di Riccardo Mastropietro, gennaio 2018
«Il film prende spunto da alcune domande che Simonetta Agnello Hornby si pone sulla condizione di suo figlio George, costretto da anni su una sedia a rotelle da una grave forma di sclerosi multipla: se non fossimo nel terzo millennio ma anche solo 100 o 50 anni fa, cosa ne sarebbe di lui? Cosa ne sarebbe delle persone disabili? E oggi, cosa significa essere un disabile?
Da Roma alla Galleria degli Uffizi di Firenze fino al mare blu ligure e alle colline del Nord Italia, Nessuno può volare è un percorso attraverso l’arte e gli incontri con persone straordinarie che hanno saputo fare della disabilità un’opportunità e uno stimolo per vivere in modo ancora più intenso, e prima ancora una vita normale con cui confrontarsi.»
OTTAVO INCONTRO: mercoledì 10 giugno ore 21.00

Elena, Ecuba e le altre, di Maria Lenti

Titolo: Elena, Ecuba e le altre
Autore: Maria Lenti
Casa editrice: Arcipelago Itaca

Giovedì 3 ottobre alle ore 21.00, incontro con Maria Lenti, in apertura della rassegna Le Marche in Biblioteca, quarta edizione 2019, alla Biblioteca Planettiana di Jesi. Durante la presentazione, lettura di alcune poesie a cura di Arci Voce e interventi musicali a cura della Scuola Musicale Pergolesi.

Dalla prefazione di Alessandra Pigliaru:

«“Abbiamo guardato per 4000 anni: adesso abbiamo visto”. È il 1970 quando il senso di quanto scritto nel primo manifesto di Rivolta Femminile prende una forma pensante all’interno del movimento delle donne. Tornando all’origine di quello sguardo che piano si destava dalla coltre della Storia, c’è da chiedersi di chi siano quei nomi, di chi siano quei volti che hanno inteso da sempre il proprio destino come una forma di inizio. Non di fondazione ma di inizio. Ora frontali, ora obliqui, sono nomi e volti di donne comuni, che assumono nel senso di una genealogia critica il portato di silenzi vagheggiati ancora da chi, dopo 4000 anni, ha visto. Per chi acquistando la vista si è accorta anche di quelle donne che sono arrivate prima. Che bussano alla porta di una strada più lunga costellata di esclusioni, si potrà obiettare, ma ricca di una sopravvivenza che è quella di pensarsi sole e al contempo insieme. Storicizzando allora l’emersione di questa consapevolezza, il balbettio va ad alcuni e capitali cominciamenti: i nomi di Elena, Ecuba e le altre – come recita il titolo di quest’ultima silloge di Maria Lenti».

«… a trapelare è una forza imprevista, tutta femminile certo, mai assediata né vinta dalla protervia di scandali, prigionie e violenze. Nel seguitare delle interlocuzioni, lo sono tutte le brevi poesie che compongono il volume di Maria Lenti, incontriamo così Filomena che davanti all’abuso si rivolge a Tereo per dire che “ho dita per ricamare e il messaggio giunge alla sorella”; o Artemide che tuona a Zeus, “smettila di dare ordini”; infine Penelope che in faccia a Ulisse setaccia con fierezza “l’ordito dell’assenza”. Sono però molte di più le parole pubbliche donate da Maria Lenti alle nostre madri mitologiche, e lo sono non solo in uno scambio a due bensì anche verso la collettività, siano gli Ateniesi a cui si riferisce Prassitea, gli accusatori contro cui si scaglia Eris, o il mondo tutto che interpella Eufrosine, passando per la grazia di Anfitrite verso un delfino o quella luminosa lungimiranza di tenere “tre in una”, ovvero Era, Elena e Atena in una possibilità che racconta di quanto sia fondante il luogo terzo dell’essere viste.
Si ritorna allo sguardo, alla fatica – impareggiabile di guadagni – nel sentirsi prossime. Le une alle altre. Dando avvio, che è sempre un proseguire, al percorso che si produce cominciando con una paroletta che è “io” e che ha tuttavia il senso di un agire. In quell’orientarsi verso qualcuno, in quell’ “a” c’è la forma imperfetta, deperibile e mai esausta della libertà guadagnata. La poesia è tenace nell’impresa, scavalca con magistralità lo scacco del linguaggio che spesso determina e definisce frettolosamente, lavora di cesello il verso. Come un ago che cerca il punto esatto in cui affondare la trama mentre, inesorabile, rammenda. Queste sono Elena, Ecuba e le altre: fili perduti e ostinati di una storia a venire”.

Maria Lenti, poetessa, narratrice, saggista, giornalista, è nata e vive a Urbino. Docente di lettere fino al 1994, anno in cui è stata eletta (e rieletta nel 1996 fino al 2001) alla Camera dei Deputati con rifondazione comunista. Studiosa di letteratura ed arte: saggi, recensioni, interventi critici si trovano in volumi collettanei, in riviste e su quotidiani a cui collabora da decenni. In Effetto giorno, 2012, ha raccolto gli scritti di tenore culturale e politico; in Cartografie neodialettali, 2014, gli scritti su poeti neodialettali di Romagna e d’altri luoghi. Ha pubblicato poesie: Un altro tempo, 1972, Albero e foglia, 1982, Sinopia per appunti, 1997 (2° classificato al premio “Alpi Apuane”), Versi alfabetici, 2004, Il gatto nell’armadio, 2005, Cambio di luci, 2009 (finalista al premio “Pascoli”), Ai piedi del faro, 2016; racconti: Passi variati, 2003, Due ritmi una voce, 2006, Giardini d’aria, 2011, Certe piccole lune, 2017 (vincitore del concorso “narrabilando” di Fara Editore); gli studi Amore del Cinema e della Resistenza, 2009, In vino levitas. Poeti latini e vino, 2014; l’antologia di poeti italiani contemporanei Dentro il mutamento, 2011. Nel 2006 ha vinto lo “Zirè d’oro” (L’Aquila). Ha curato, con Gualtiero De Santi e Roberto Rossini, il volume Perché Pasolini (1978).
Sulla sua poesia il regista Lucilio Santoni ha realizzato nel 2002 il film-video A lungo ragionarne insieme. Un viaggio con Maria Lenti.

Non dirmi che hai paura, di Giuseppe Catozzella

Mercoledì 19 dicembre ore 21.15, secondo appuntamento al circolo di lettura presso la Planettiana di Jesi, dedicato quest’anno alla La letteratura delle migrazioni.

Titolo: Non dirmi che hai paura     
Autore: Giuseppe Catozzella
Casa editrice: Feltrinelli

(Brani estratti dall’intervista di Patrizia La Daga a Giuseppe Catozzella, pubbblicata il 15 maggio 2014)

So che l’idea di scrivere Non dirmi che hai paura è nata dopo aver ascoltato la storia di Samia Yusuf Omar in Tv. Come è andata esattamente?
Io stavo facendo delle ricerche per un altro libro che doveva trattare dei i campi taliban e per questo mi trovavo in Kenya. Una mattina, mentre facevo colazione, ho sentito parlare della vita e della tragica morte di Samia e in me sono accadute due cose: da un lato sono stato investito dalla potenza di questa storia e dall’altro mi sono sentito responsabile, in quanto italiano, per la morte di questo talento. Mi sono reso conto che fino a quel momento non avevo mosso un dito per quella gente e dato che il mio modo di “stare al mondo” mi impone di essere solidale, ho deciso che avrei raccontato la storia di Samia e così ho fatto.

Per arrivare a scrivere avrai dovuto fare molte ricerche, cosa non facile visto che Samia era somala. Come ti sei mosso?
Avevo l’ovvia necessità di incontrare chi la conosceva bene, di farmi raccontare di lei dai suoi familiari. Ci sono state diverse persone fondamentali per la mia ricerca: Igiaba Scego, scrittrice italo-somala che mi ha aiutato nelle ricerche preliminari e Teresa Krug, giornalista di Al Jazeera che aveva scritto diversi articoli su Samia e aveva finito per diventare amica sua e della famiglia. È stata lei che mi ha passato il contatto di Hodan, la sorella di Samia che vive ad Helsinki.

Cosa è successo quando hai contattato la sorella?
Ci sono voluti sei o sette mesi perché mi rispondesse, non ne voleva sapere di me e delle mie richieste di incontrarci. È stato necessario l’aiuto di una mediatrice culturale, Zara Omar, per avvicinarmi. Senza di lei questo libro non esisterebbe. È stata Zara che scrivendo a Hodan in somalo ha ottenuto che potessimo andare a Helsinki per una settimana.

Come è stato l’incontro?
Hodan ci ha accolto in modo gentile nella sua piccola casa prefabbricata, spoglia ma calda, che il governo finlandese assegna ai rifugiati come lei. Zara cercava di sciogliere il ghiaccio e, dopo i convenevoli, ci siamo spostati in una stanza dove c’erano solo un tappeto e un divano, io ho estratto il registratore ma non ho nemmeno fatto in tempo a fare la prima domanda: appena ho fatto il nome di Samia, Hodan ha reagito con un fiume di lacrime. Per quasi un’ora abbiamo tentato di parlare, ma era inutile, Hodan non faceva che piangere. A quel punto ho detto a Zara di dire a Hodan che mi ero reso conto di avere sbagliato tutto, che ce ne saremmo andati l’indomani e che non se ne sarebbe fatto nulla, probabilmente non era stata una buona idea quella di voler scrivere questa storia così dolorosa. Finalmente ci siamo rilassati tutti e abbiamo riso. Poco prima di andarmene ho deciso di dire a Hodan il vero motivo per il quale avevo pensato di scrivere la storia di sua sorella, ovvero perché mi sentivo responsabile per la morte di Samia.

Che cosa è accaduto a quel punto?
Non dimenticherò mai gli occhi di Hodan mentre le spiegavo come mi sentivo. Da lì è cambiato tutto. In quel momento Hodan ha deciso di affidarmi la storia, ha deciso di prendersi il rischio che comportava il racconto di questa vita, il rischio provare tanta sofferenza.

Il dietro alle quinte del libro è quasi emozionante quanto il romanzo stesso. E poi come è andata la settimana con Hodan?

A quel punto la settimana è trascorsa in modo intensissimo, tra momenti di lacrime collettive, canti e grandi risate; è stata un’esperienza indimenticabile.

Quanto ci hai messo in tutto per terminare il libro?
Un anno e mezzo, più o meno.

Hai mantenuto i rapporti con Hodan?
Sì, ci sentiamo spesso. Proprio l’altro giorno l’ho informata che il Comune di Milano ha intitolato una pista d’atletica a sua sorella Samia Yusuf Omar. All’evento di inaugurazione c’erano 650 ragazzi che gareggiavano in varie discipline, una festa bellissima.

Dopo aver scritto questo libro come vedi il problema dell’immigrazione?
Immergersi così tanto nella vita anche di uno solo di questi migranti ti cambia per sempre. Prima mi facevo condizionare dalle frettolose cronache dei Tg, non avevo sviluppato alcuna sensibilità rispetto al tema e mi facevo trasportare dal pregiudizio; ero portato a considerare questa gente non dico come numeri, ma quasi. I Tg, in fondo, ce li raccontano così. Adesso, invece, ho ben chiaro che ognuna di queste persone è portatrice di una storia cento volte più interessante della mia. Per raccontare il viaggio di Samia ho incontrato decine di ragazze, anche di sedici anni che hanno fatto il viaggio e solo guardandole negli occhi si capisce che hanno già vissuto l’equivalente di quattro vite mie.

Exit West, di Mohsin Hamid

Titolo: Exit West     
Autore: Mohsin Hamid
Casa editrice: Einuadi

Exit West è stato il primo libro affrontato dal circolo di lettura presso la Planettiana di Jesi, mercoledì 21 novembre, nel nuovo ciclo annuale di incontri, il quarto, dedicato questa volta alla letterature delle migrazioni.  Si ripropone qui l’articolo di Licia Ambu pubblicato sul blog Nazione Indiana: Exit West è lo stato dell’arte.

La prima frase di Exit West fa sentire al sicuro.
In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un’aula scolastica e non le parlò.

Tre righe e collochi la storia che stai per conoscere anni luce lontano da te. Perché un paese traboccante di rifugiati, con autobombe e sparatorie, in bilico tra guerra e pace, è qualcosa che tu vedi alla televisione, seduto comodo, ti dici, da spettatore.
Invece Exit West è lo stato dell’arte.
Anche il tuo.

Infatti, quello che pensi dopo aver finito Exit West, con buona probabilità tutto d’un fiato, è che hai in mano un libro che ti sta parlando di te: della tua geografia, della tua ansia e delle tue preghiere. Non in modo retorico. Non in maniera pedante. Non ti guarda dall’alto in basso, ma dritto negli occhi. Mohsin Hamid ti guarda dritto negli occhi quando scrive. E anche quando ti parla, mentre risponde alle domande durante un incontro in una libreria di Milano, ti guarda negli occhi.

In una città senza tratti particolari, Saeed e Nadia si incontrano in un’aula scolastica. Lui è timido, lei indipendente. Si conoscono, in qualche modo si parlano, e vorrebbero danzarsi intorno con cautela per un po’. Ma siccome la geografia è destino, sono costretti a scappare da una città assediata dal conflitto. Comincia così il loro pellegrinaggio per la sopravvivenza, in un paese in cui la guerra si porta via le persone e inverte il normale rapporto con le cose: le finestre fanno entrare la morte al posto della luce, i luoghi di sempre diventano pericolosi, e rumori nuovi e allarmanti cambiano il ritmo delle faccende quotidiane. È durante questo momento di disorientamento che si sparge la voce dell’esistenza di porte misteriose che istantaneamente conducono altrove. «Scrivo con una notevole quantità di realismo ma mi piace che ci sia sempre un dettaglio che non torna» spiega Hamid. «Un po’ come quando un bicchiere di vino o una notte con il cielo stellato ti permettono di sbloccare un potenziale vittima del realismo. Le porte non sono realisticamente accurate ma sono completamente reali, considerando che le distanze si stanno annullando, e mi hanno permesso di riassumere due o tre secoli di migrazioni in un anno». Su Lahore, la città in cui ha trascorso metà della sua vita, ha basato la città che descrive, il teatro di partenza per una storia che non si sofferma sulla parte più drammatica per i migranti: il viaggio. «Soffermarsi su questo aspetto non è altro che un alibi per poter sentire le persone diverse da noi, dal momento che io non ho dovuto strisciare sotto il filo spinato per entrare in America o attraversare il Mediterraneo su un canotto. L’enfasi sul viaggio è un modo per separarci, e la porta è un espediente per far venire meno questa distanza». Dunque il racconto di un movimento. Quello di chi si sposta ma anche quello di chi resta immobile. Per tutti quelli con la geografia in tregua, infatti, c’è da fare i conti con il panorama. All’unica signora ferma di tutto il romanzo si muove il contorno, e le basta uscire di casa per rendersi conto di essere rimasta da sola, nel suo pezzo di terra, per come le si è fissato nella testa. Dopo minuti, anni e stagioni, dalla sua postazione può solo ammirare un panorama completamente diverso, perché siamo tutti migranti attraverso il tempo. L’ansia furiosa di dover cambiare, la paura che il nostro mondo venga sconvolto ci rendono immobili. Invece Saeed e Nadia sono in movimento, un movimento obbligato ma anche fiducioso.

Il libro di Hamid è un libro di universali, di stesse barche e di infinite diversità che messe tutte insieme, alla fine, sono quello che abbiamo in comune: siamo uguali nell’essere diversi. Fa pensare al discrimine tra giusto o sbagliato quando diventa un elemento per giudicare, respingere o fare una guerra. Per dirne una: «Saeed è credente, su di lui la religione ha un influsso positivo che lo rende gentile e lo aiuta a cogliere la bellezza. Nadia non è credente ma anche lei, in modo diverso, nota la bellezza nella vita. È un errore pensare alla dimensione religiosa e a quella non religiosa come a due elementi in conflitto. La religione è importante per tantissime persone, pensiamo alla madre che perde un figlio a causa della guerra, poi magari lo sogna e ti dice che questo le ha dato conforto. Sarebbe folle, e poco umano, dirle che non ha senso. Perché mettere in dubbio questo elemento quando il sogno rappresenta un legame? Anche in tutto ciò che non è religioso ci sono dubbi e illusioni, io agisco pensando di avere libero arbitrio ma la scienza mi dice che una parte del mio cervello è fatta in modo da dirmi se mi piace la cioccolata o quella donna».

Apparentemente tutto questo potrebbe già bastare. Ma più si va avanti e più nascono domande, vorresti ricoprire Hamid e i libri e tutto il pomeriggio, di domande. Gli chiedono se la sua opera può considerarsi politica, risponde che tutto ciò che viene scritto ha una rilevanza politica e chi dice il contrario sta solo prendendo le distanze. «Nella narrativa c’è la preziosa possibilità di coinvolgere il lettore in una conversazione emotiva, chiedendogli cosa pensa, rilevando la sua posizione e i suoi sentimenti rispetto a qualcosa, in questo senso, la narrativa, ha un compito preciso dal punto di vista politico», e questo è precisamente quello che ha fatto con Exit West. La domanda più grande ce l’ha lui per noi. Ci chiede dove siamo e cosa pensiamo di fare. Lo chiede una voce estremamente intelligente, riuscendo nella magia di rendere la narrazione di una storia fatta di preoccupazione e guerra, un monito di fiducia, una letteratura lenitiva. La sua narrazione si sposta verso la possibilità: siamo in un guaio ma abbiamo il finale ancora in ballo «perché l’immaginazione narrativa ci libera dalla tirannia dell’era e dell’è  per aprire la strada a ciò che potrebbe essere». Exit West è una preghiera laica per il nostro pianeta, un incantesimo come quello che può fare un mago, un prete, uno scrittore. Exit West è lo stato dell’arte, il preciso momento in cui siamo. E soprattutto una domanda fortissima.

Mare corto, di Ignacio Maria Coccia e Matteo Tacconi

Titolo: Mare corto. Coste, isole e persone dell’Adriatico
Autori: foto di Ignacio Maria Coccia e testi di Matteo Tacconi
Casa editrice: Capponi editore

Può un mare essere chiamato Corto? Racchiudendolo o avvicinandolo così a noi stessi, che lo guardiamo dagli angoli più insoliti delle sue rive, cercando un punto dove diluire noi stessi gli sguardi? Mare Corto è il titolo del libro, e del viaggio fotografico e letterario lungo le coste adriatiche, di Ignacio Maria Coccia, fotografo, e Matteo Tacconi, scrittore. Ed è stato quest’ultimo a parlarcene venerdì scorso, nella sede di Jesi in Comune, il nuovo gruppo politico jesino nato in occasione delle ultime elezioni amministrative e attento a costruire attorno a sé anche relazioni di vicinanza culturale e sociale, con le iniziative che regolarmente propone.
Matteo Tacconi ha citato lo scrittore bosniaco Predrag Matvejević, autore del fondamentale e universale Breviario Mediterraneo, un testo che ha uno sguardo su questo mare interno alla nostra storia simile al respiro dei libri storia di Braduel: “Il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità”.
E allora, una volta compreso questo, non resta che mettersi in viaggio lungo le sue coste, per assaporarla quell’intimità che a volte, superficialmente perché sospinti da questa fretta moderna che ci perseguita, ci sembra illusoria quasi come un sogno di mezza estate. E allora ecco i due autori in viaggio, attenti alle storie presso cui fermarsi, per raccoglierle e raccontarle con le parole e con le immagini, inseguendola quell’intimità negli angoli dove ancora palpita.
Dicevo a Matteo, scherzando mentre lo salutavo a fine serata, che sono stati capaci di scovare le “aree interne”, le stesse di cui da qualche anno, ancor più da dopo il terremoto, parliamo con intensità andando a ricercare sugli Appennini i luoghi delle nostre origini, martoriati da tempo dal tempo e non solo, ma dove come le erbe di alta montagna attecchiscono ancora vecchie e nuove storie, gli dicevo che questo tipo di “aree interne” simile a uno sguardo, sono stai capaci di scovarlo nei mille angoli delle nostre coste.
Nostre perché le abitiamo, da sempre, e nostre perché siamo in tanti ad abitarle, da ogni sponda e in ogni insenatura, e talvolta siamo così diversi tra noi da non averne nemmeno la percezione, o il senso dell’intimità. Mi veniva continuamente in mente, mentre ascoltavo e vedevo le foto sullo schermo, un mio passaggio una decina di anni dentro l’insenatura di Kotar, o Cattaro, e seduto sulla riva dicevo a me stesso, sì questo è un luogo dove potrei vivere.
E così il Mare Corto m’è sembrato come un respiro. Ecco allora le storie. Matteo ne ha anticipata qualcuna agi aspiranti lettori del libro. C’è il ragazzo che ritorna a vivere su un isola dell’Istria dove sono rimaste solo quattro anziane, per produrre vestiti di lana di pecora. Come un pastore dell’Appennino, mi sono figurato io, nella sua isola in mezzo al mare: che siano questi i monti naviganti di Paolo Rumiz?
O il ragazzo di una Venezia che affonda, forse prima ancora tra i vaporetti, i turisti e le grandi navi che non per il livello del mare che si alza, e in questa città come una leggenda riprende a produrre remi per chi il mare vuole viverlo seduto su una barca. Magari anche tirando i remi in barca ogni tanto, e restare lì appena un poco più in là della riva.
O il mito della pesca oceanica dei sanbenedettesi, che da quegli anni cinquanta quando iniziarono a uscire più che incoscienti dalle colonne d’Ercole per costeggiare l’Africa, hanno modificato irrimediabilmente il loro sguardo sul mare che bagna il loro cortile di casa.
O la foto degli innamorati che scelgono sullo sfondo della loro intimità Trieste, forse l’unica città, forte  di un intero continente alle sue spalle, da dove il mare corto può apparire in tutta la sua lunghezza.
Oppure quella comitiva di oche dal piglio caparbio e il passo deciso e pratico, su una spiaggia nel sud dell’Albania, come antichi pellegrini che ancora si aggirano lungo queste e coste. Ignacio le aveva intraviste con la coda dell’occhio, dall’auto mentre seguivano la litoranea, e subito ha capito che doveva dedicare loro il tempo necessario della lentezza e della pazienza, della costruzione di una relazione e di un senso, e come in una di quelle favole in cui le oche interagiscono tranquille con gli umani, le ha convinte a radunarsi e a entrare nel personaggio, a conferire al loro passo quel qualcosa in più che serviva, per fermare proprio lì la nostra attenzione, con un’isola sullo sfondo e un po’ di lato, e le luci del mare e del cielo cariche di tutta la loro leggerezza. Hanno sempre questo tipo di respiro le foto di Ignacio, predilige l’aria, i cieli, le tonalità che ci alleggeriscono, aprono, ci danno il tempo.

(degli stessi autori, Verde cortina)

‘E Riavulille, di Tullio Bugari

Titolo: ‘E Riavulille
Autore: Tullio Bugari
Casa editriceGwynplaine edizioni

Il titolo ‘E Riavulille è mutuato dalla smorfia napoletana e ci dice che si tratta del numero 77, i diavoli. In realtà il racconto, cronaca postuma di eventi che hanno segnato la storia politica e sociale della seconda metà del secolo appena passato, fa riferimento esplicito al Settantasette: l’anno dell’esplosione dell’ultima rivolta di classe, l’anno che segnò la frattura mai più ricomposta tra l’autonomia del conflitto reale e le nebulose prassi dei partiti della sinistra ufficiale e il riflusso della lotta sindacale. Siamo, tuttavia, di fronte a un racconto originale che, così dato, aiuta il lettore ad approfondire aspetti collaterali cui spesso si soprassiede per vizio di centralità degli eventi. Tullio Bugari ci ha abituato a racconti atipici di eventi storici importanti; abbiamo già raccontato, qualche anno fa, del suo tour in bici lungo la linea gotica, occasione quella per rievocare la Resistenza partigiana nell’entroterra centro settentrionale, dalle Marche alla Liguria attraversando l’arco appenninico toscano, questa volta il Settantasette è raccontato con gli occhi dei giovani ribelli marchigiani, riavulille, piccoli demoni che dagli eventi delle città (Roma, Bologna e Milano) assimilano forme espressive alternative e le importano  nei loro territori della provincia, spesso definita come luogo tranquillo e lontano dalla violenza metropolitana. Metti una radio, individua una fabbrica, aggiungi pratiche di lotta coerenti e l’autonomia della sinistra di classe dalla sinistra ingabbiata nelle compatibilità del sistema viene zippata in un piccolo territorio delle Marche che non solo teorizza ma pratica quotidianamente il suo Settantasette, rovesciando schemi e stilemi della borghesia e dei partiti storici che non comprendono (e non comprenderanno negli anni a venire) la potenzialità rivoluzionaria di quella che fu l’ultima stagione felice di una rivoluzione possibile.

Ci è piaciuto molto rileggere le opinioni filtrate dal contesto immediato, sulla cacciata di Luciano Lama dall’università, sulla morte di Giorgiana Masi e di Francesco Lorusso, sul sostegno, via etere e anche materiale, ai compagni di radio Alice che a Bologna resistettero tenacemente all’assalto dei celerini, su quel modo, assolutamente self-made, di fare controcultura e controinformazione perché, ora possiamo riconoscerlo serenamente, in quei giorni, in quei mesi, si liberò quell’autonomia possibile della sinistra di classe, con la quale, a lungo, la borghesia dovette fare i conti. Alla fine vinse il grande capitale, con le sue armi chimiche (droga), con le sue sirene (mercato), quelle stesse armi che oggi, distrutto o ridotto al silenzio larghe masse di proletariato, stanno ritorcendosi contro di lui.  E pure chi partecipò a quelle lotte, alle occupazioni di case e scuole, agli espropri proletari, agli scontri con la celere, al termine della lettura potrà almeno sentire una punta di orgoglio per aver contribuito, lontano da piazze e luoghi famosi, alla formazione di piccoli nuclei resistenti che, dalle periferie, fece sentire forte la propria voce. Alla fine il lettore amerà comunque della stessa intensità l’operaio Febo e la moglie, la femminista Arianna, Aura, neolaureata che s’improvvisa contadina, il Fotografo che vive a Roma e funge da ideale staffetta, raccontando agli amici della provincia gli eventi attraverso i suoi scatti, l’anarchico Cafiero e l’ex operaia Nemesi. Finiranno tutti ingoiati dal riflusso e dall’edonismo reaganiano degli anni ’80? Non è dato saperlo, quel che è certo è che cercarono una via, un’alternativa al dominio assoluto del capitalismo ed ancora oggi rappresentano un esempio ai tanti di noi che non smettono di rivendicare autonomia di classe dalle logiche liberiste.  (Enzo di Brango, Le Monde Diplomatique, giugno 2018).

(Un estratto del romanzo sulla rivista La macchina sognante.)

La musica vuota, di Corrado Dottori

Giovedì 18 ottobre alle ore 21.15, alla Biblioteca Planettiana di Jesi, terzo appuntamento della rassegna Le Marche in Biblioteca: I Giovedì letterari della Planettiana, edizione 2018.
Presentazione del romanzo di Corrado Dottori “La musica vuota”

Titolo: La musica vuota
Autore: Corrado Dottori
Casa editrice: Italic Pequod

 La recensione di Valerio Calzolaio
(dal settimanale della Fondazione Italiani)

Da Milano verso altrove. 1973-2017. Edoardo Alessi è nato a fine 1973 ed è cresciuto quasi sempre con i nonni. I due genitori erano settantasettini più che sessantottini, gli hanno lasciato geni e passioni in eredità, ma sono stati fisicamente prima distratti poi assenti. Il padre Darth Vader e la madre Nina si erano messi insieme a scuola proprio all’inizio del 1973, neanche diciottenni, si erano trovati con un bimbo travolti dall’impegno politico nell’estrema sinistra, militavano nel movimento in giro per l’Italia, talora col figlio in tenda e sacco a pelo, fra concerti e sagre, fra collettivi e comuni, fra occupazioni e auto-riduzioni, dal 1987 la galera l’uno (senza aver ammazzato nessuno) la fuga l’altra. Da oltre 20 anni Edoardo si era trasformato da esponente della Pantera in trader finanziario, private banker, consulente essenziale del capitalismo. Nel 2012 aveva trovato nella casa in montagna dei nonni sette scatoloni di diari, lettere, documenti, poesie, fotografie scolorite, probabilmente nascosti lì dal padre prima di morire, ci sono anche diari suoi, scritti chissà quando, trovati chissà come, buttati nel mucchio. Aveva preso tutto e se l’era portato a Milano. Edoardo aveva cominciato a leggere i diari del padre, capendo subito di avere molto in comune, innanzitutto gusti musicali e pulsioni narrative. A quel tempo stava con la bellissima poco amata Raffaella; quando la compagna vede cosa sta leggendo è l’inizio della fine, lei capisce (come aveva già intuito) quanto era stata importante la storia con Maria, pur durata solo un quinquennio, nella seconda metà dei Novanta. Leggendo e scuficchiando Edo scopre molto altro, soprattutto fino al 2002- 2003 (quando il padre si ammala), scrive riflessioni nuove, contemporanee. Ne vien fuori un affresco sonoro sulla vita, un flusso di autocoscienza (perlopiù infelice) su viaggi e amori, speranze e passioni, aspettative e delusioni di un paio di generazioni italiane.

Corrado Dottori (Cupramontana, 1972) ha pubblicato nel 2012 il bel volume autobiografico Non è il vino dell’enologo. Lessico di un vignaiolo che dissente, con al centro il decisivo passaggio (circa venti anni fa) dalla professione squallidamente bancaria milanese al mestiere naturalmente vitivinicolo marchigiano. Esce ora con un pulsante romanzo, parte del testo giaceva nel cassetto dalla fine dei Novanta, ha finalmente trovato il filo (spesso cupo) per dipanare i pensieri affastellati allora e parlare dell’oggi. Il protagonista ha un anno di meno, è originario delle vigne della tirrenica Toscana (non dell’Adriatico), resta il caro Luke Skywalker dei Navigli e sceglie, al contrario, di continuare a vendere e comprare titoli di credito (tossici) per meglio soddisfare (economicamente) il portafoglio dei propri clienti. Impariamo a conoscere l’elegante altezzosa Alessandra Rossi, il commercialista puttaniere e giocatore d’azzardo Guidi, la maga Iris dagli immensi guadagni esentasse. Non se ne può proprio più. Ha rinviato la ribellione, non l’ha dimenticata. Non a caso Maria gli diceva: “Tu vivi emozionandoti! Non riesci a vivere al cinquanta per cento…”. Il padre suonava, anche Edoardo lo faceva, da tempo ha appeso al chiodo la Gibson Diavoletto da rocker bastardo. Continua ad ascoltare tanta musica, spesso la stessa del padre, come lui odiando quella “vuota”, che si canticchia e ci anestetizza. La colonna più sonora è Exile on Main St., The Rolling Stones, lp del maggio 1972, un classico dell’epopea r’n’r (omaggio a Los Angeles, stavolta più Keith Richards che Mike Jagger); sul vinile c’è ancora la bella inspiegabile dedica dello zio, ormai sperduto eremita, per capire va a trovarlo in Val d’Aosta. La scoperta degli scatoloni gli consente di ripercorrere i giri del passato, soprattutto quelli con Maria (da Berna a Parigi, dal Marocco alla Carinzia), di risentire l’istinto della fuga (da Raffaella) verso West Coast e Messico (con vari occasionali incontri), di programmare un nuovo lungo viaggio. La punteggiatura è consciamente frammentata. Alcune dinamiche appaiono interrotte e sospese, alcuni risvolti (anche noir) accennati e incompiuti. Emergono avvenimenti che segnarono la vita di generazioni di padri e figli, come l’assassinio di Fausto e Iaio del Leoncavallo nel marzo 1978. Vino, liquori e cocktail non mancano mai, soprattutto Daiquiri.

“Nell’Afa” di Pierfrancesco Curzi

 

Giovedì 26 ottobre alle ore 21.15, alla Biblioteca Planettiana di Jesi, per la terza serata della rassegna Le Marche in Biblioteca, incontro con Pierfrancesco Curzi, che ci racconterà del suo “nell’Afa”, Vydia editore. 

Articolo di Marco Benedettelli, dal blog FattoDirittto, tratto da Urlo, mensile di resistenza giovanile).

Titolo:Nell’afa
Autore: Pierfrancesco Curzi
Casa editrice: Vydia editore

È una notte rovente e appiccicosa quando nel quartiere Piano, a Piazzale Loreto, viene rinvenuto in un container il corpo straziato di una quindicenne. Carlo Galassi, cronista de L’Eco della Provincia, è svegliato da uno dei suoi informatori dell’ospedale. Scende dal letto, sale in sella al suo scooter e si tuffa a testa bassa in un caso di cronaca tragico, col quale si misurerà fra colpi di scena, riflessioni solitarie e battaglie di ogni sorta lungo una settimana di luglio dal clima a dir poco afoso. Finché, alla fine del suo instancabile lavoro, a suon di doviziose ricostruzioni, la penna di Galassi in qualche modo sarà artefice anch’essa, assieme al lavoro della Procura, dell’accertamento della verità.

Tutto questo e altro ancora è “Nell’Afa”, (Vydia Editore, dicembre 2016) primo volume di un progetto di trilogia incentrata sulla figura del giornalista anconetano Carlo Galassi, (i prossimi due libri sono in attesa di pubblicazione, ma la trilogia potrebbe trasformarsi anche in serie). L’autore, l’anconetano Pier Francesco Curzi, conosce molto bene le atmosfere che descrive, dato che lavora da sempre nella cronaca cittadina oltre che ad essere reportagista per il Fatto Quotidiano da zone di crisi e già autore di libri di geopolitica. Nell’Afa è così anche un tuffo nei meccanismi perversi della provincia e del suo giornalismo, che ci mostra come funzionano il rapporto con le fonti, le conferenze stampa, le furiose guerre intestine coi propri capi e colleghi di redazione. Curzi sa descrivere molto bene le dinamiche che scattano nei giornali locali all’affacciarsi di un omicidio efferato e tragico. Sa come la notizia viena sezionata, sviluppata, strumentalizzata. Sa quali sono i complessi rapporti fra giornalisti e forze dell’ordine, personale medico e ospedaliero, familiari della vittima, magistrati e avvocati, politici locali ed esaltati da marciapiede. E racconta il tutto con uno stile allenato, puntuale, di chi – come Curzi – ha macinato migliaia di righe, articoli, pagine, e padroneggia più livelli di linguaggi tecnici e specialisti.

Il libro funziona alla grande, si lascia leggere perché appassiona, muovendosi agilmente dentro le dinamiche narrative del genere investigativo con senso del ritmo e del racconto.

La vittima, Emma Calderigi, è una ragazzina un po’ ribelle dell’Ancona bene. Il primo indiziato dell’omicidio è un marocchino diciottenne, Hasan al Koresh, ex fidanzato di Emma, residente al Piano, frettolosamente e irresponsabilmente tacciato dai giornali cittadini come il sicuro esecutore del delitto. Giornali preoccupati solo di soffiare sul fuoco delle pulsioni razziste di certa gente, ormai in preda a un mix di ambizioni da scoop dei capi redattori in crisi di vendite e di deriva populista. E anche Emma, la giovanissima deceduta, alla fine delle indagini si rivelerà essere stata uccisa dalle paure irrazionali e violente di quel mondo attorno a lei all’apparenza così rispettabile (ma non sveliamo altri particolari). Il tutto in una città, Ancona, ammorbata dal caldo di luglio, sudata, fatta di trattorie unte, quartieri popolari, odore di porto e di pesce marcio, scorci di paesaggio che aprono la mente. Un mondo cromatico, bello e brutto assieme, dove Carlo Galassi, uomo che ha inghiottito tonnellate di delusioni, compie il suo dovere di cronista con onestà, passione e “tigna”, battendosi come un cavaliere dei nostri giorni contro le ipocrisie, l’irresponsabilità e l’idiozia di chi gli sta intorno, Senza pretendere ormai nulla in cambio se non il senso di libertà che arriva dalla ricostruzione faticosa, sofferente, di una chimera che alla fine emerge, la verità.

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

“Solo dall’umiltà dei piedi si avranno le risposte di cui il mondo ha bisogno”

La Marche in Biblioteca, giovedì 19 ottobre alle ore 21.15 il secondo appuntamento, con il giovane viandante, scrittore e fotografo, Matthias Canapini, che ci racconterà il suo viaggio dentro l’Eurasia, via terra fino in Vietnam, le persone, gli incontri, i luoghi che ha conosciuto.

Matthias ci racconterà il suo viaggio attraverso le sue foto, accompagnato dalle musiche di Riccardo Stronati e Matteo Plebani, duo di flauti, allievi della scuola Musicale Pergolesi di Jesi, e dalle letture del gruppo Arci Voce.

La viandanza, il camminare e l’incontro, come apertura, curiosità, conoscenza del mondo entrandogli dentro, ed entrando anche dentro di sé come conoscenza di se stessi. “Solo dall’umiltà dei piedi si avranno le risposte di cui il mondo ha bisogno” scrive il grande viandante e camminatore Paolo Rumiz, nella prefazione che ha dedicato al giovane Matthias Canapini. 


Titolo:
Eurasia Express, cronache dai margini
Autore: Matthias Canapini
Casa editrice: Prospero editore

Prefazione di Paolo Rumiz

“Non è la pietra o la ghiaia a fare la via, ma l’atto ripetuto dell’andare. Sono i piedi che la determinano e la ritrovano, prima della nostra mente. Essi decifrano i segni del terreno, come i sassolini di Pollicino. Il mondo non è di quelli che credono di controllarlo con i droni e gli smartphone ma di chi si impolvera le scarpe e batte la terra con “piede libero”, come scrisse Orazio. La storia la fanno i piedi instancabili dell’homo sapiens, lo dicono millenni di migrazioni.

Povera cosa sarebbero i cammini se si limitassero a una riserva indiana per pellegrini o agresti camminatori. La strada vera è vita a tutto campo ed è fatte di mille cose: donne ai balconi, pasta al pomodoro, serpenti schiacciati, vento nei canneti, immigrati in cammino, cave abusive, guard-rail deformati, processioni e cani perduti. La strada è paracarro, rudere, fango, frumento, argine, fontana, metanodotto, solco di carri, tiglio solitario, muretto a secco, greto, tratturo, fermata d’autobus, passaggio a livello, un porcospino esitante dietro un paracarro.

Il viaggiatore ti dice che il cammino vero si fa nel mondo, non fuori dal mondo, e questo comporta graffi, rombo di camion, punture di tafani, talvolta anche insulti, diffidenza. Il cammino è immersione, non decollo verso altezze rarefatte. E’ periferia, fabbrica, banlieue, cantoniera diroccata, binario morto, escrementi, casello ferroviario, cancello con la scritta attenti al cane. Talvolta filo spinato, di quelli tristi e affilati che tornano di moda oggi in Europa.

Cesare Zavattini disse che il cinema italiano era finito nel momento in cui i registi avevano smesso di andare in tram. E allora ditelo, agli spocchiosi analisti di scarpa lustra, ditelo ai luminari e ai tenutari di bordelli televisivi e di felpati uffici studi, che solo dall’umiltà dei piedi avranno le risposte di cui il mondo ha bisogno”