Titolo: Nel folto dei sentieri
Autore: Umberto Piersanti
Casa editrice: Marcos Y Marcos
A cura di Alessandro Canzian, un’intervista a Umberto Piersanti
Di Umberto Piersanti avevo già parlato in riferimento a un suo vecchio libro (L’urlo della mente, 1977) e a una sua bellissima poesia (Rêverie). Quest’ultima in particolare mi dà modo di introdurre questo libro (che contiene appunto Rêverie) che Piersanti dà alle stampe con Marcos y Marcos nel 2015: Nel folto dei sentieri. Un libro che si inserisce con un certo senso di continuità nella produzione del poeta urbinese ma che si differenzia moltissimo da una sorta di usanza poetica alla quale siamo tutto sommato oggi abituati.
Paolo Lagazzi di questo libro dice: Come molte liriche di Attilio Bertolucci, i versi più belli di Umberto Piersanti sono gli echi, le cadenze, i frutti di un inesausto, vibrante cammino. La vita chiama, non ci si può sottrarre… Anche la nuova raccolta del poeta di Urbino Nel folto dei sentieri è un intreccio di gesti, sguardi, respiri tra macchie, radure, forre, calanchi, crinali ancora ardenti di luce, ma minacciati da un tempo nuovodi ombre, cose assurde, plastica, metalli, fantasmi. Incapace di accettarne le scosse e i sussulti, spesso il protagonista sente il bisogno di sostare osservando ciò che gli appare incomprensibile: il fiume incessante del reale, e in esso il pullulio degli umani, i loro volti, le loro voci, i loro viaggi vuoti, senza senso (da quidculturae.com). Parole precise quelle di Lagazzi che poi continuano con una delle migliori definizioni possibili di quest’opera: Esposto più di qualsiasi altro testo di Piersanti al sentimento dell’indecidibile, perennemente sospeso tra ciò che è e ciò ch’è stato, fra la dura minaccia del nulla e un bisogno inesausto di abbandonarsi alla rêverie, Nel folto dei sentieri è un libro ricco di contrasti: stretto, da un lato, dalla morsa del tempo in fuga, dall’altro evoca l’Aperto, il seme immenso del possibile, o afferma che il tempo non esiste, / va avanti e indietro, ci soffoca e ci carezza.
Poeta definito tra i più importanti della contemporaneità, con la particolarità di una voce riconoscibilissima, nitida, tanto personale da non poter essere confusa con quella di altri autori, Piersanti è inserito in diverse antologie e ha molte pubblicazioni poetiche e non solo (solo per ricordare i volumi Einaudi: I luoghi persi nel 1994, Nel tempo che precede nel 2002, L’albero delle nebbie nel 2008). Ma è anche il poeta che viene dimenticato nelle mappature (in questo blog ho diverse volte parlato del fenomeno poesia di questa estate, ad esempio qui e qui, con un parziale riassunto qui). È il poeta fuori dal coro che difende la sua posizione con una convinzione precisissima, quasi una poetica, e che mi ha dato modo di svolgere questa piccola intervista telefonica (l’autore mi perdonerà le imprecisioni, se presenti) dove ho chiesto del libro ma anche della poesia, del dibattito di queste settimane, della vita.
Un’intervista che ho trovato affascinante, semplice e intensa come è la sua poesia. Vera.
Intervista a Umberto Piersanti del 3 settembre 2015
Umberto Piersanti, Nel folto dei sentieri è sicuramente un libro particolare nel senso che si inserisce in maniera coerente, pur nella sua chiara evoluzione, all’interno della tua produzione poetica, ma nel panorama contemporaneo appare indubbiamente fuori dal coro. Da dove viene questo libro? Quale ne è l’origine?
Questo libro prosegue il mio modo di intendere e percepire la vita e in particolar modo la natura. Io mi considero un poeta incredibilmente legato alla memoria e nei miei versi persino la natura viene colta attraverso lo specchio della memoria. Ma non per raccontare una natura bella, perfetta, che oggi non sarebbe più. Non c’è alcuna dimensione ecologica nel mio modo di percepire il mondo. C’è piuttosto questo fatto: io ricordo un mondo contadino ma non in senso neorealista, non alla Olmi o alla Pasolini per intendersi, i quali contrappongono l’autenticità di quel mondo all’inautenticità di quello contemporaneo. Anche il mondo contadino ha in effetti cose tremende, per esempio ricordo che mia nonna mi diceva non passare sotto quella casa che ci sono certi spiriti, e io da bambino facevo quattro chilometri a piedi per non passarci. Oppure quando una donna abortiva, anche in modo naturale, veniva rimandata con la falce a lavorare. Però quel mondo di racconti e di oralità mi è rimasto inevitabilmente dentro il sangue. Ho un aneddoto, una cosa realmente successa, che forse può far capire meglio delle mie parole questo rapporto come io lo vivo. Subito dopo la guerra andavo giù, nel fosso, dove c’era la casa di mia nonna. Lì ci stava anche il mio bisnonno che ricordo con una benda celeste su un occhio, il quale un giorno mi disse: lo sai Umberto cosa mi è successo? oggi quando andavo giù per il fosso, a spasso col carro, ho visto un cagnetto, ciccetto, piccolino, m’ha fatto anche commozione, e allora me lo sono preso. Santa Madonna non lo avessi mai fatto, perchè questo a un tratto diventava sempre più grande, più nero, più grosso, sempre più pesante e i buoi non riuscivano più ad andare avanti, E allora gli ho dato una pedata e gli detto “ma tu sei il diavolo!”, e lui ha messo le ali e se ne è andato via. Questo era, come dire, il prendere il caffè da un amico. Ecco io vengo da questo mondo un po’ visionario, un po’ magico, un po’ lontano, questa era la mia formazione. Per cui il mio rapporto con tale antico è sostanzialmente una rappresentazione attraverso la memoria, attraverso il sogno. Dove la memoria trasforma situazioni perchè, come è stato detto, una volta passati sogno e memoria sono la medesima cosa.
La memoria quindi come filtro di lettura della realtà? Del mondo?
Per rispondere a questo domanda voglio raccontare un altro aneddoto, anche questo realmente accaduto. Quando ero piccolo mi mandavano in Colonia. Ce n’erano due: quella dei preti e quella dei comunisti. In quella dei comunisti si facevano tutti i peccatucci e in quella dei preti ovviamente non si poteva, ci si confessava. Una volta che ero nella Colonia dei preti mi ero invaghito di una ragazzina e volevo sedermi accanto a lei a mangiare. E invece stavo vicino a un ragazzino brutto, tutto butterato, e allora ho chiesto al prete se potevo cambiare di posto e lui mi disse: no! bisogna sacrificarsi in vita per guadagnarsi il Paradiso. E io gli ho chiesto se esiste veramente l’Inferno, in quanto se uno poi ci finisce resta fregato perchè si è sacrificato in vita e poi soffre comunque. Ad ogni modo volevo assolutamente sedermi accanto a quella ragazzina. Il ragazzo tutto butterato poi, il giorno che se ne è andato, è venuto a salutarmi con un: ciao ci vediamo. In quel momento ho veramente provato un tuffo al cuore, perchè tutto ciò che perdiamo irrimediabilmente cambia, si trasforma, diventa altro. Dunque è questo il mondo che io cerco di descrivere: un mondo trasformato dalla memoria ai confini del sogno, senza che questo diventi però mitologia.
Quando si parla di memoria, di passato, si fa inevitabilmente un confronto col presente. Tu hai espresso due concetti: l’oralità e la natura come memoria. Il tuo libro ha anche un’altra particolarità: esprime cioè la convivenza del bene col male. Quando hai raccontato che ti dicevano di non passare sotto quella casa perchè c’erano gli spiriti è vero che ricordavi un mondo superstizioso, forse per alcuni versi più ignorante di quello di oggi, ma è anche vero che era un mondo che conviveva col male e la sua esistenza molto più di quello che facciamo un po’ semplicisticamente noi. Nella tua poesia è forte il senso della precarietà della vita. Cito due versi: non so se la sua casa poi rivede e forse lo trova il lupo / forse la madre.
Hai perfettamente ragione, infatti prima ho parlato di una natura non mitologica. Un poeta come Damiani ad esempio ha una visione più positiva di quella che sento esserci nella mia scrittura. Da me è pieno, ma anche nei miei libri precedenti non solo in Nel folto dei sentieri, di aquile che volano con il coniglio tra gli artigli e di caprioli che possono essere trovati dalla madre ma anche dal lupo, per tornare a delle immagini del libro stesso. La mia natura si lega assolutamente allo spavento, alla morte, poi in questo libro più che negli altri il sentimento del tempo che passa diventa sempre più drammatico, più pungente, c’è una paura maggiore del tempo che passa, c’è precarietà. Oggi il tempo è questa precarietà. Io credo che ciò che contraddistingue la mia poesia sia il rapporto bene/male, luce/morte, sia una certa visionarietà orale che si distingue per sentimento anche in un poeta che amo molto come ad esempio Bertolucci. Senza banalizzazioni o semplificazioni. In tutto questo la mia natura è meravigliosa ma è anche oscura.
Quando un poeta porta avanti un discorso non è mai solo quel discorso ma è un ampliarsi di significati che coinvolge la poetica stessa. Leggendo il tuo libro a me è venuta in mente un’espressione che vorrei tu mi confermassi o mi confutassi: può essere considerato questo tuo mondo bucolico della poesia una reazione a un mondo metropolitano della poesia?
Non c’è una voluta contrapposizione. C’è però il diritto a non essere alla moda, che è molto duro nel nostro tempo. Io sono un poeta che ha pagato sulla sua pelle questa lontananza dalle mode. Ho cominciato a scrivere quando dominava l’avanguardia e parlare d’alberi era semplicemente assurdo. Un critico portò, parlando di un mio libro, una definizione che mi piacque molto: un’arcadia d’ombra. Arcadia d’ombra perchè mentre io tento di cogliere disperatamente l’armonia delle cose (io vengo da Urbino e sai benissimo che Urbino è la patria di Raffaello, l’artista che più di ogni altro ha tentato di creare un cosmo armonico), nello stesso tempo ne vedo la carica di inquietudine, di dolore, soprattutto di precarietà. Se tu prendi una poesia come Viola d’inverno, questa viola che muore appena nata e che mi ricorda i bambini che si diceva che andassero nel limbo, morti senza essere nemmeno nati, questo a me fa domandare quale sia il senso della vita per chi in essa dimora così poco. La poesia finisce con un’espressione tutto sommato drammatica, laica, che traduce il senso di una religiosità della natura: ma il dono della nascita permane. C’è questa aspirazione alla dono della nascita che permane, a un’armonia che possa nonostante tutto essere vissuta anche nel mondo più drammatico.
Tutto questo viene espresso in una lingua fluida, molto chiara. Avrai anche tu sentito il dibattito estivo attorno alla poesia e nello specifico vorrei ricordare Berardinelli quando dice che la collana di poesia Mondadori se chiude è perchè non ci sono più poeti leggibili. Il tuo libro però è un po’ l’emblema della leggibilità, perchè è chiarissimo. Cos’è quindi per te questa leggibilità della poesia?
Una volta Loi recensendomi sul Sole 24 ore disse che sono l’erede di una tradizione lirica e del canto. Io sono un italiano centrale e mi porto quindi addosso una tradizione. Ed è appunto quella del canto, della lirica. La Mondadori ha fatto delle scelte che hanno privilegiato fortemente un indirizzo molto specifico, settoriale. Einaudi ultimamente ha delle posizioni che personalmente considero un po’ parapoetiche. Per quanto riguarda quello che dice Berardinelli non sono d’accordo che i veri poeti sono finiti, ce ne saranno forse, ma sarà il tempo a dirlo. Io Nel folto dei sentieri sono stato definito tra le figure maggiori della letteratura italiana contemporanea ma non ero assolutamente d’accordo con questo inserimento. Queste sono definizioni che lasciano il tempo che trovano, non dicono nulla. Ritengo piuttosto di potermi identificare in una posizione precisa che è anche la più malvista. Bisogna capire che c’è un feticcio della modernità oggi che vuole la modernità stessa intesa come oscurità, come inquietudine. La mia chiarezza quindi, che poi non è così semplice perchè creare musicalità in un verso non è cosa banale, mi rende un uomo un po’ separato. Non sono dentro i grandi centri letterari ma rivendico un mio spazio e un diritto della poesia ad essere intellegibile, sonora. Alla fine se ci pensi i classici sono non di rado molto intellegibili, anche quelli ermetici. Oggi Montale, per fare un esempio, si legge con una facilità incredibile. C’è un fraintendimento di fondo perchè il suono, l’armonia, sono tutte cose negate al nostro tempo. C’è una retorica dell’antiretorica e io a questa sfuggo volontariamente ritenendo la mia scelta una strada possibile e necessaria. Sempre all’interno di questo discorso devo dire che il mio libro si contrassegna anche per un rapporto più deciso con la contemporaneità. Parlo di macchine, di bimbi che giocano, senza comunque tradire il mio percorso poetico. Solo ogni tanto dimentico la memoria e affronto il mio tempo.
Concludendo abbiamo parlato di intellegibilità della poesia, di canto, di memoria, di tradizione. All’inizio di questa piccola intervista hai raccontato di avere una formazione sostanzialmente basata sull’oralità, sui racconti. E nel tuo libro troviamo in effetti tutta una sezione in cui dichiari i testi come nati camminando in montagna. Raccontaci di questa sezione.
La sezione Aspettando l’inverno, ma in effetti non solo quella, è nata quando la Regione Marche ha deciso di fare un libro con diversi artisti a cui era stato chiesto di interpretare nei differenti linguaggi (foto, letteratura, eccetera) i parchi naturali della regione. Io ho scelto il Furlo, che conosco, dove ho camminato, ho cercato i funghi, ci ho fatto l’amore, ne ho visto i ciclamini, sono andato a vedere l’aquila dall’altra parte della roccia. Avevo con me anche un bravo fotografo, e mentre lui scattava io parlavo. Ricordo che ero teso, molto carico. Avevo dentro una pienezza e una fortissima voglia di dire e di quel dialogo alla fine ho cambiato poco e niente, erano poesie già complete così come erano nate camminando e recitandole per la prima volta. Ci sono momenti, situazioni, dove uno può passare attraverso l’oralità per scrivere. Altre volte ad esempio mi è capitato di scrivere racconti dettandoli direttamente e in stesura praticamente definitiva alla segretaria, senza quindi passare attraverso la scrittura. Io ho molto forte questo senso dell’oralità, vengo da un mondo dove l’oralità era importante, pensa alla mia infanzia non senza televisione ma addirittura senza radio, dove i racconti erano delle lettere ma senza indulgere in retorica (perchè poi è uno dei rischi). Il gusto dell’oralità ce l’ho addosso, la vita me l’ha poi anche salvata questa attenzione all’oralità però se non l’avessi avuto come tendenza penso non sarebbe mai emersa.
Benissimo, ti ringrazio molto per questa bella intervista Umberto.
Nel folto dei sentieri, intervista a Umberto Piersanti (di Alessandro Canzian)