Una lunga e interessante conversazione con Corrado Dottori, partendo dal suo romanzo La musica vuota, che dagli anni rappresentati nelle riflessioni, ricordi e riscoperte o ricostruzioni del suo passato che fa il protagonista, ci ha riportato continuamente a questo nostro tempo presente. La vicenda del romanzo, alle prese con il passato, sembra altra rispetto a questo presente, ed è un’altra, ma passato e presente si contengono uno dentro l’altro ed entrambi si comprendono meglio se riusciamo ad osservarli nel loro insieme. Ma non è facile. E così è un viaggio assai inquieto quello che compie, dentro se stesso, il protagonista Edoardo Alessi, private banker ancora negli anni dieci del duemila in una banca milanese, ma nato a metà degli anni Settanta e ventenne negli Anni Novanta, che ha lasciato alle spalle le utopie coltivate negli anni della Pantera all’università, di fatto rimuovendole e insieme scontrandosi anche con la sua storia d’amore, che era un tutt’uno con le loro aspirazioni o scelte di stili di vita, per ritrovarsi dentro altre altre scelte. O forse è più esatto dire ‘non scelte’. Ma non c’è solo questo passato ‘privato’, che già da solo non è soltanto ‘privato’.
C’è anche il passato dei suoi genitori, padre e madre, giovani di una generazione precedente, quella degli Anni Settanta di cui negli anni si è fatto sempre fatica a parlarne con tranquillità. Ed è un passato che si complica ancora di più dopo la disgregazione della famiglia – il padre in prigione, la madre fuggita, il piccolo Edoardo rimasto con i nonni – la quale sopravvive unita soltanto dentro sette scatoloni che l’Edoardo adulto ritrova in una vecchia soffitta, e dentro vi ritrova un po’ di lettere della madre, diari del padre, appunti vari mescolati e perfino i racconti di Edoardo ragazzino che il padre aveva raccolto e mischiato li dentro, insieme a vecchi vinili e copertine di LP, come si chiamavano allora. Gli scatoloni non sono solo un espediente letterario, per consentire all’autore di sviluppare, intrecciandoli insieme, i diversi piani narrativi. Sono anche una metafora delle nostre tracce materiali, con le loro ruvidezze e imperfezioni di allora (‘spero che mio padre non li abbia letti davvero’, commenta tra sé Edoardo quando ritrova anche i suoi scritti giovanili), non ancora appiattite dalla universale digitalizzazione odierna, della tecnologia e degli sguardi, in cui ogni ruvidezza e superficie viene smussata, gli angoli tolti, i caratteri omologati. Nel romanzo c’è molto, l’espediente letterario consente di citare anche documenti e momenti di storia reali, che si sommano ai racconti soggettivi dei vari personaggi, lungo una trentina di anni di storia, di situazioni, da riordinare e rivalutare oggi e non confondere nel mucchio di un qualcosa di indistinto, perché possono aiutarci a capire meglio dove siamo arrivati. E anche le scelte o non scelte individuali, e degli errori e fallimenti.
Cosa fare del passato? “Elevarlo a simbolo” – si chiede il protagonista in una pausa tra le sue letture, o tra i suoi impegni di consulente finanziario, perché sono le pause che ci aprono la possibilità di nuovi sguardi – “Farne leggenda. Farne il romanzo non già di un singolo ma di centinaia, migliaia, milioni di scelte individuali che si fondono in scelte sociali. Che si fanno storia, che si fanno destino. Questo potrei fare, se fossi uno scrittore”.
Sembra quasi il manifesto estetico che sorregge la scrittura di questo romanzo. Che ci riporta anche, per questa strada, a ripensare i nostri stili di vita odierni, che non ci lasciano quieti. “Uno sciopero della vita, Edo! – dice a Edoardo un altro personaggio, un reduce di quegli anni rimasto ancora fedele a se stesso, come un eremita, l’altro lato di quegli scatoloni ritrovati in soffitta – Non uno sciopero in fabbrica. Uno sciopero della vita, da questa vita. Smettere di fare. Fermarsi. Scendere dal treno. Smettere di produrre, di consumare… Smettere di ascoltare musica di merda, spegnere la televisione. Staccare la spina. Tutti. Nel medesimo istante.” L’utopia ha sempre immagini radicali, ma anche verosimili, che si possono immaginare davvero.
E la musica, citata anche in questa sorta di invocazione di questo personaggio? La musica è tutto, c’è già nel titolo, e c’è un disco che lega padre e figlio, lasciato in quello scatolone, e che poi ritorna più volte nel romanzo, è Exile on Main st. dei Rolling Stones, 1972, ma ne sono citati anche molti altri, da Nebraska di Bruce Springsteen a Grace di Jeff Buckley e tanti altri, in fondo al libro Corrado Dottori ha aggiunto una scheda di due pagine con tutti gli autori citati. La musica è tutto, è la costruzione di un’identità, un modo di guardare il mondo per volerci restare ancorati, anche quando al tempo stesso se ne avverte il disagio, la musica è in questa tensione. Se perde questa tensione diventa vuota.
La conversazione con Corrado Dottori è stata accompagnata da alcune canzoni eseguite da Federico Fabbretti della Scuola Musicale Pergolesi di Jesi, e dalle letture di alcuni brani dal libro eseguite da Maria Grazia Tiberi e Tullio Bugari dell’associazione ARCI Voce.
LE MARCHE IN BIBLIOTECA 2018
Sul libro di Corrado Dottori, vedi anche:
la foto di Mario Boccia, nella copertina del libro
la recensione di Valerio Calzolaio