L’uomo di Elcito, conversazione con l’autore Maximiliano Cimatti

Giovedì 11  ottobre, per il secondo appuntamento di “LE MARCHE IN BIBLIOTECA: i Giovedì Letterari della Planettiana”, incontro con Maximiliano Cimatti, per conversare con lui sul suo romanzo L’uomo di Elcito (editore Meridiano Zero);
durante la serata sono previsti interventi musicali di Silvano Staffolani e Lorenzo Cantori e letture di brani dal libro a cura del gruppo ARCI Voce.
Di seguito, l’intervista a Maximiliano Cimatti di Matteo Tarabelli, pubblicata il 23 gennaio 2018 sul giornale online Centropagina.

ROSORA – Un paese arroccato sulle montagne, ben serbato dall’Appennino, e dunque ignorato dalla modernità, che scorre “arrogante” a valle, lungo i binari in costruzione della tratta Ancona-Roma. Siamo nella seconda metà del 1800 e questo è il luogo dove un bandito fuorilegge si rifugia per sfuggire all’esercito che gli dà la caccia.
“L’uomo di Elcito”. È questo il titolo dell’opera prima di Maximiliano Cimatti, un ravennate che ha mollato la città per vivere nelle colline marchigiane e che, un anno fa, si è persino candidato a sindaco a Rosora.
Un romanzo, pubblicato nel 2017 da Meridiano Zero, in cui il monte San Vicino e la costa fanno da suggestivo e aspro sfondo a un percorso esistenziale e sociale. Dove banditi e tutori della legge si confondono scontrandosi. Dove il progresso diviene regresso semplicemente ribaltando la prospettiva.

Cimatti, qual è la genesi di questo romanzo?
«L’idea è nata appena mi sono trasferito nelle colline marchigiane per un cambio di vita radicale. Ho mollato il lavoro e le abitudini consolidate per venire a vivere in mezzo alla natura con Francesca, la mia compagna, per mettermi a scrivere e per tentare di recuperare l’unica ricchezza vera ma limitata di cui disponiamo tutti: il tempo. Quindi: colline marchigiane come scenario naturale del romanzo. Poi, c’era il mio immaginario, la mia formazione culturale: l’epica dei grandi spazi americani, la letteratura e il cinema della frontiera, il West selvaggio che diventa poi un mondo interiore, e poi i libri di McCarthy, Steinbeck, Conrad, ma anche un romanzo recente e clamoroso come “Il figlio” di Philip Meyer, per citarne alcuni. Da qui, l’obiettivo di trasportare il tutto nella realtà italiana. Il tempo della storia: l’800 post unitario come sfondo storico e politico, anche se la trama ne risente appena. Il 1866 per due favorevoli coincidenze storiche: l’inaugurazione della ferrovia Roma-Ancona e l’epidemia di colera ad Ancona. Poi volevo parlare dei fuorilegge e questo è il filo conduttore. Tutto molto romanzato e piegato alla mia necessità più importante: mostrare la natura complessa degli esseri umani».

Briganti contro Esercito. La rivolta è un crimine in questo romanzo? O una esigenza di vita?
«La disobbedienza è un tema cruciale. Esattamente come la percezione della libertà e della giustizia. I briganti disobbediscono alle leggi del nuovo Stato ma ne costruiscono di nuove, adatte al loro sogno e al loro senso di libertà. Eppure sono criminali. Il soldato Anselmo Toschi e i suoi uomini sono rappresentanti della legge e ubbidiscono per ragioni che a volte non capiscono, ma agiscono per senso del dovere e per portare le ragioni della legge, dell’Unità, del progresso. Sono “giusti”, eppure efferati come criminali. Nel romanzo ho tentato di non dividere i buoni dai cattivi. Ci sono gli uomini, le tenebre della natura umana, ma anche l’amicizia tra i personaggi e la loro umanità. E poi c’è lui, Anselmo Toschi, romagnolo che viene mandato in missione nelle Marche e che dovrà fare i conti con se stesso».

Elcito, invece, cos’è? Una prigione? Un sogno? Il suo percorso di vita?
«Elcito è l’utopia, il sogno di un paese libero, senza padroni, dove i problemi si superano attraverso il rispetto di regole condivise e l’aiuto reciproco. L’asperità del territorio è una specie di anello di congiunzione tra il buio dell’uomo e l’armonia brutale della natura. Un personaggio dice, a un certo punto: “il freddo tiene insieme le persone non meno delle regole”».

E il progresso? È, secondo lei, una ferrovia che corre verso l’orizzonte o un paesino circondato da roccia e boschi dove sognarlo quell’orizzonte?
«Il progresso del libro è la certezza che il mondo va avanti e che porterà la gente da un mare all’altro in poche ore, che curerà la pellagra, che porterà lavoro nei paesi lungo la ferrovia e nelle cave delle colline. Ma il progresso è anche la fine del sogno, l’eterna vittoria del più ricco, la perdita dei valori. Il tema del progresso è quello con maggiori riferimenti autobiografici, a bene vedere. Elcito rappresenta in effetti la scelta di tornare indietro dopo aver tentato di vivere secondo i canoni della società contemporanea (un facile riferimento può essere il rapporto dell’uomo con la tecnologia). Il progresso può diventare, quindi, la scelta del freddo, del poco e del difficile, delle giornate invernali sotto la neve, dell’isolamento. Elcito è un utopistico ritorno alla natura e a uno stato primordiale come risposta all’inadeguatezza di fronte al presente».

C’è anche tanta autobiografia, insomma, in “L’uomo di Elcito”.
«Nel romanzo sono presenti alcuni temi/valori della mia vita: la disobbedienza civile come affermazione di sé, il ritorno a una vita sobria, il senso della giustizia, l’idea che il destino degli uomini sia segnato dall’ambiente in cui nascono».

Classe 1971, Cimatti è autore di racconti apparsi in varie antologie, tra cui La semantica del crimine (Fernandel). Nel 2016 vince il primo premio al concorso letterario “Luciano Pittori” di Castelplanio (AN) per racconti inediti. Oggi tiene lezioni di scrittura per l’agenzia letteraria Scriptorama ed è cofondatore dell’innovativo format letterario fAutori.

 

Alcune recensioni al libro:

 

 

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