Giovedì 4 ottobre alle ore 21.15, alla Biblioteca Planettiana di Jesi, primo appuntamento della rassegna Le Marche in Biblioteca: I Giovedì letterari della Planettiana, edizione 2018.
Presentazione dell’antologia Poesia di strada 1998 – 2017, con la presenza del curatore e alcuni autori.
Titolo: Poesia di Strada 1998-2017
Casa editrice: Seri editore
Sarebbe troppo semplice
(dalla postfazione di Renata Morresi)
Sarebbe troppo semplice citare Fortini: “La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.” Troppo facile consolarsi con un imperativo che rivendica un senso ulteriore alla bistrattata, marginale arte poetica. Quanto è bello quel verso nel fare della disillusione e della vulnerabilità un invito al dubbio che si possa, dopotutto, credere? Tanto bello che è facile scordarsi le parole che lo precedono: “Fra quelli dei nemici / scrivi anche il tuo nome.” E allora anche accampare sicurezze sull’altezza o la funzione della poesia va guardato con sospetto.
Ogni volta che mi butto in un progetto poetico, ma che dico, che apro un nuovo file word e mi trovo davanti al bianco, mi risuona quell’invito a fare attenzione, persino a se stessi. Anche quando abbiamo pensato a questa antologia ho passato qualche giorno a chiedermi “a cosa serve?”, a dubitare il senso dell’ennesima collezione di testi poetici…
(…) Mi aspettavo di trovare molta poesia lirica – perché la lirica meglio si adatta alla modalità ‘portatile’ di “Poesia di strada” e alla sua ambizione comunicativa – non mi aspettavo di sorprendermi a vederne rappresentate così tante variazioni, tanto da farmi chiedere se il sintagma non sia ormai così diluito da essere inservibile. Così tanti toni diversi innervano questi testi che non so più come contenerli nel solo ‘lirico’: il realismo (quello più intimo di Alessandrini e D’Andrea, incandescente per De Lea), il narrativo (caldo in D’Agostino, sfreddato da Tuzet, con l’inflessione dialettale di Ariano, o l’andamento pop di Corsi), l’ermetico-simbolico (la misura sobria di Cornali, le sinestesie di Di Pasquale, il taglio caustico di Ruffoni), il politico (personale per Crippa e Magazzeni, dal rigore modernista in Mari), il proiettivismo (Bonin, Alicudi), il conversevole (esempi luminosi quanto diversi: De Gregorio, Montieri, Ruggieri), il civile (col passo sublime di Maroccolo, quello ritmico di Cohen, il quotidiano di Franzin), l’imagismo (icastico in Babino, confessionale in Perugini), il meditativo (quello empatico di Pinzuti, quello sarcastico di Lefevre), l’ironico (jazzato in Bompadre, caustico in Tipaldi), il confessionale (col brio pungente di Pumhösel e Romagnoli, la malinconia divertita di Di Prossimo), il neo-metrico (pieno d’echi interiori in Mandolini, allegorico in Scaramuccia), il percettivo (Testa, Minola, Guazzo), per non contare i lirici ‘puri’ (molti oltre ai più noti Mancinelli, Turina), chi canta sapendo di cantare, chi mescola memoria e desiderio, chi cerca un simbolo non dico in lettere di fuoco, ma almeno fiamma di candela. E ancora, altri autori dall’impulso mitopoietico bruciante, in cui la sintesi tra inconscio e visionarietà produce uno stile difficile da addomesticare in una definizione: mi riferisco alla scrittura ‘espansiva’, quasi epica, di Calandrone, all’impulso mitico di Pugno, alle intensità simboliche di Ariot, Bossini, Nota, al vigore trattenuto di Sannelli, agli esperimenti vibratili di Greco, e, sul versante più rastremato, l’oggettivismo di Giovenale, sotto spinta ricognitivo-elencativa, e l’elegia quasi astratta di Agustoni. Da qui ci affacciamo sulla soglia di una scrittura sperimentale sfidante, quella che mi piace chiamare del gioco profondo, su un lungo crinale che va dal surreale di Socci verso le melodie spiazzanti di Simonelli, il punk minimalista di Chiamenti, l’andamento ecfrastico di De Marchi, l’interlingua sconvolgente di Carnaroli, fino all’incedere corrosivo più oscuro (Menicocci, Rizzatello), e la complessità politica (e la politica della complessità) di Teti.
Non riesco a citare tutti, chiedo venia, non riesco a ricomporli in un unico recipiente (non voglio), e questa disamina (una carezza più che un esame) potrebbe svolgersi in altri termini, attraversare i temi o i motivi ricorrenti (c’è molto altro in poesia oltre l’amore e la morte), tracciare isoglosse, disegnare alberi genealogici (presunti), azzardare proiezioni sul futuro della poesia o sulla sua estinzione. Mi basta, per ora, contarci. Sapere chi siamo e siamo stati, piccoli o grandi, almeno per un po’.
Erano solo dieci fermate ogni volta, dopotutto, dieci poesie che ogni anno, per qualche giorno, per un minuto, mescolavano pensiero, visione e interpretazione, dieci installazioni minime che non hanno cambiato il mondo. ‘La poesia non cambia il mondo’, ‘basta coi buonismi’, ‘con la cultura non si mangia’, bla-bla, e si ritorna alla solita obiezione, l’ossessione dei disincantati, troppo spesso incapaci di incanto. In fondo nulla cambia davvero il mondo, neanche un grande leader, un grande papa, una grande invenzione, e così via; nulla cambia il mondo se non la somma di tanto, faticoso lavoro collettivo. Allora, in questo tempo tanto più disilluso di quanto fosse il tempo di Fortini, mi dico di non dare troppo ascolto a chi crede solo al niente offerto dalla disillusione e dal cinismo, “scrivi, mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente”.
(L’antologia ospita una sezione iconografica, con le opere che alcuni artisti dedicano ad una poesia da loro scelta: in alto Raffaella Tirabasso per la poesia di Antonio Bux, in basso Max Volpa per la poesia di Alessio Alessandrini)