“Gli angeli a Sarajevo”, di Maria Grazia Maiorino.
I due brani che seguono sono stati letti durante l’incontro con l’autrice sono rispettivamente da Cristina Corsini e da Maria Grazia Tiberi, del gruppo di lettori ArciVoce.
Brano estratto dal racconto “La villa”:
(…) Sono seduta di nuovo sui gradini, Marco viene a sedersi vicino a me, mi chiede a che cosa sto pensando.
Ascoltavo, rispondo.
Che cosa?
Le loro voci… La mia. Pensavo a che cosa ricorderei se fossi vecchia. A una storia da raccontare.
Raccontala.
Adesso?
A me.
La tromba. Ecco che cosa vorrei raccontare, la storia della mia tromba. La porto sempre con me, nella sua custodia color argento foderata di rosso. Era lì dentro quando la vidi per la prima volta, in casa di un amico che aveva deciso di disfarsene. Sembrava un cane abbandonato dal suo padrone. Divenne la mia tromba. Gli amici volevano dissuadermi, non avrai la costanza di imparare a suonarla, mi ripetevano, è faticoso, sarà solo un peso in più da portarti dietro nei tuoi continui spostamenti. Io non ne volli sapere e cercai in ogni modo di racimolare la cifra richiesta, un prezzo altissimo per le mie possibilità di attrice giovane alle sue prime scritture. Lo strumento era nuovo, ogni volta che lo prendevo in mano lo lucidavo con cura in ogni sua parte. All’inizio emetteva solo strani rumori, ma appena presi le prime lezioni scoprii la varietà dei suoni che potevo ottenere e cominciai ad esercitarmi con entusiasmo. Un giorno portai la tromba con me a un provino. Non era un provino qualsiasi, era la mia grande occasione: potevo essere scelta per recitare una parte importante in uno spettacolo che avrebbe girato nei migliori teatri italiani. Il regista era anche il primo attore della commedia, mi aspettava seduto in platea e mi fece cenno di salire. Vedevo il viso concentrato, simile a una maschera intagliata nel legno, con ciocche di capelli grigi intorno alla fronte stempiata. Lo ammiravo moltissimo, lo consideravo un maestro e avevo una grande soggezione di lui. Mi disse poche parole, non mi ricordo, ricordo il tono basso, profondo della voce, la stessa che mi affascinava nei suoi spettacoli, e lo sguardo sorpreso rivolto alla custodia della tromba salita insieme a me sul palcoscenico. Recitai un monologo in dialetto napoletano e poi suonai il motivo di una vecchia canzone. La tromba mi portò fortuna. Non solo piacque al maestro, ma entrò anche lei nello spettacolo. Immaginate la mia emozione quando la sera della prima recitai la mia parte in un teatro pieno fino agli ultimi palchetti e alla fine attraversai lentamente il palcoscenico immerso nella penombra suonando. Poche note, un lamento, un’ombra fra le ombre di un funerale. Avevo vinto. Gli applausi scrosciarono, lessi il mio nome nelle recensioni dei giornali, ebbi camerini tutti per me nei migliori teatri. E ogni sera, dopo essermi vestita e truccata, tiravo fuori la tromba, la lucidavo, anche se nessuno del pubblico avrebbe potuto vedere come era bella e fiammante, ed eseguivo il mio pezzo. Sul filo del suo suono scuro entravo nella parte, sprofondavo nella solitudine e mi caricavo di dolorosa passione. Diventavo Filumena Marturano…Ci baciamo in silenzio. Ormai è quasi completamente buio, è ora di andare a prepararci per lo spettacolo di stasera. Per raggiungere il cancello che ci divide dal teatro ritorniamo sul davanti della villa, attraversiamo il giardino ancora ben tenuto, passiamo accanto a busti di pietra fra i cespugli fioriti e le aiuole. Le frasi altisonanti incise sui piedistalli di marmo tacciono nell’oscurita. (…)
Brano estratto dal racconto “La casa delle iris”:
(…) Si partiva per i campi Emmaus come ondate di uccelli migratori, nell’estate del Sessantotto l’appuntamento era in Francia, ma le tre coppie di amici si divisero alla frontiera per una banale dimenticanza. Stefano non aveva la carta d’identità e dovettero ritornare indietro. Ricorda la delusione, mentre erano incolonnati nel traffico della costa, un campo di lavoro in Italia le sembrava molto meno attraente in quel momento e non erano neanche sicuri di trovarlo. Adesso rivede visi, visi allegri di ragazzi che sorridevano stringendole la mano, avevano gli abiti sporchi, erano circondati da vecchi materassi, rottami di ferro, giornali. La rassicurarono che lì avrebbe trovato le cose meravigliose che cercava. Ricorda il distintivo, la tavola a ferro di cavallo, i battimani. Lo squallore del luogo, un vecchio edificio nella periferia di Milano, subito cancellato. Rivede soprattutto loro due, Milo e Antonella, sicuramente i leader del campo, quelli che attiravano su di sé più attenzione e curiosità. Anche la gelosia, perché Antonella era molto carina, con il caschetto di capelli biondi, il corpo ben modellato dai jeans di velluto blu a costine, che sarebbero diventati una divisa per ragazze e ragazzi, il modo spavaldo e indifeso che aveva di starsene rannicchiata vicino a Milo mentre lui raccontava. Le tendopoli dei terremotati, le rivolte studentesche, in Francia e in Germania, i viaggi con l’autostop attraverso l’Europa, la soffitta di Parigi dove avevano vissuto insieme.
Alida aveva confusamente scoperto il Diario di Che Guevara e i fermenti del Sessantotto, un sentimento di libertà che usciva dalle regole dell’educazione cattolica e le sembrava più eccitante rispetto agli interminabili discorsi sull’amicizia, l’impegno, la vita comunitaria, insomma ai progetti di Stefano, nei quali sembrava non esserci spazio per i bisogni individuali. Quella coppia fragile e inquieta trasmetteva una vitalità nuova, mettendole voglia di fare altre cose.
Alida vorrebbe dirlo a Stefano, mi fa tenerezza il mio Sessantotto, conosciuto un po’ per caso e per sentito dire, ma forse ora possiamo vederlo meglio. Anche noi senza saperlo ne facevamo parte. Raccoglievamo quel seme, insieme agli stracci e ai ferri vecchi, e non ci rendevamo conto di quanto avrebbe cambiato le nostre vite. E tu? E tu? Quante cose ci sarebbero da chiedere a Stefano che se ne sta in silenzio a guardare la festa dietro i suoi pensieri. Anche lui, come Gianni e Serena, con la sua solidità, fatta di alberi da frutto, figli e una donna che non andrà via alla fine della festa. Dove saranno Milo e Antonella? Dove li avrà portati il destino? Ogni tanto Alida ripensa agli innumerevoli amici incrociati negli anni, se si potessero radunare tutti, che stanza ci vorrebbe.
Le foto di famiglia in bianco e nero, il pranzo per le nozze d’oro dei genitori di Stefano, Alida con abito di cadì e messa in piega del parrucchiere. Timida, fuori posto, anche se non sembra nelle foto. Annaspava Alida fra vetrine, mondanità, trucchi, discorsi salottieri, si sentiva a disagio come una scolaretta. Goffa. Quanti anni dovevano trascorrere per raggiungere la pazza Suzanne, la libertà della fantasia, il regno della solitudine, nel quale si sarebbe sentita simile a una delle eroine di Henry James. Un lampo attraversa la mente di Alida. Senza quel doppio non riuscirebbe a concepirsi, è come se le facesse compagnia, insieme alla donna del fiume di Leonard Cohen, proettandola in un mondo romantico, estremo.
Ecco, tra quelle foto di famiglia ne riappare una che non c’entra niente, in bianco e nero come le altre, ma lei ricorda ancora bene il colore dell’abito di lana bouclé, un insolito e luminoso pervinca. Gliela aveva scattata Stefano alla fine di una passeggiata al porto, quando era ancora uno spazio aperto, suggestivo in qualsiasi ora del giorno e soprattutto al tramonto, l’ora preferita da Alida, che aveva sempre conservato nel cuore la sua prima visione di Ancona, in cartolina: un golfo sospeso tra acqua e cielo, quasi liquefatto in rossi accesi e ombre viola, punteggiato di luci. Nella foto dietro di lei c’era la Lanterna verde con il sedile rotondo, in fondo a un molo che non esiste piu. (…)