Letture di terra

International day of peasant struggle, Dia internacional de lutas camponesas. Il 17 aprile è la “Giornata internazionale di lotta contadina“. La data è stata scelta da Via Campesina; sui manifesti che circolano compare nelle diverse lingue anche la scritta Venti anni di resistenza: quest’anno, infatti, è anche il ventesimo anniversario della strage di Eldorado dos Carajas, in Brasile, quando la polizia militare uccise 19 lavoratori rurali senza terra e ne ferì altri 69, i quali avevan12140792_995451573858747_8980665193989862407_no deciso il blocco di una strada per obbligare il governo di quello stato a mantenere le promesse fatte, durante una lunga e difficile vertenza.
Qualche anno dopo Amnesty international denunciò che molte persone erano state uccise dopo essersi arrese e che prima erano state anche torturate, mentre  i poliziotti indiziati della strage non erano stati allontanati dal servizio.
Le lotte contadine non hanno confini di nazione o di tempo, in una dinamica che si ripete ma resiste e sempre riemerge. Quest’anno da noi coincide con il referendum per fermare (simbolicamente) le trivelle, ma forse me ne sono accorto solo io di questa coincidenza (e, lo ammetto, quasi per caso), perché non ho trovato molte iniziative dedicate a questo evento, eppure quello contadino continua ad essere un mondo in fermento, ricco di mille iniziative.
Sul piano storico, la strage di Eldorado dos Carajas mi ricorda tante vicende della storia del nostro paese, ad alcune delle quali dedico i racconti contenuti nel libro L’erba degli zoccoli, in rappresentanza di tante altre storie. Mi stimola anche, questa giornata, a prestare un po’ di attenzione alla letteratura dedicata oppure scritta dai contadini: le scritture di terra.
Una letteratura che ho scoperto anche di essere molto vasta, ma io non sono un esperto e non ho svolto nessuna analisi critica comparata e così mi limito soltanto a pescare tra le poche letture che negli anni ho avuto occasione di fare, e che di recente ho ripreso. Una piccola raccolta di schede, senza nessuna pretesa di completezza o di chissà quale indicazione o interpretazione. Soltanto il piacere di condividere un po’ di letture, pescate in quella zona di confine tra narrativa e ricerca storica e sociale, iniziando da Rocco Scotellaro, del quale nel mio libro riporto molte citazioni, passando poi per Carlo Levi, Corrado Alvaro e altri, più noti e meno noti.

copL’uva puttanella, Contadini del Sud, di Rocco Scotellaro (Editori Laterza)
In realtà è un doppio libro, in questa edizione di Laterza che ha in copertina una foto di Franco Pinna, uno dei fotografi che in quegli anni collaborò con Ernesto De Martino. Il primo è un romanzo autobiografico, diviso in tre parti: i primi anni e le prime partenze, poi il paese e l’esperienza da sindaco, e infine i tristi giorni del carcere. Il secondo libro è una raccolta di cinque storie di vita che Scotellaro raccolse per una più ampia indagine culturale e sociale sui contadini meridionali, ma che a causa della sua prematura morte restò purtroppo incompleta. In questo momento mi piace citare l’inizio di L’uva puttanella, dove la partenza di Rocco è già anche un ritorno, e un incontro, con il ricordo del padre, nella sua vecchia vigna: “Uscii per la seconda porta di casa, che mena alla parte a monte del paese; con la borsa che avevo, ognuno, dallo spiazzo di Sant’Angelo fino in campagna, mi chiese con meraviglia dove andavo, perché sapevano tutti che sarei dovuto partire e pensavano a una delle solite improvvise decisioni: quando mi caricavano troppo, io ero solo di fronte ai loro malanni, alle loro grida, ai loro problemi recenti e remoti, taluni irresolubili e disperati, allora prendevo il biroccio o la corriera  o mi mettevo la via sotto i piedi (…) Arrivai  presto al vignale , abbandonando la mulattiera, fui subito nel grano che cresceva e nelle erbe altissime (…) Tra le viti e gli alberi, sono attento ai piccoli rumori: le foglie delle canne, lo sventolio sui rami, un sasso che rotola, uno scarabeo che si arrampica, le lucertole. So che questo posto ti piaceva, padre, più che ogni altro, mamma non vuol venire sola perché ti incontra vestito di serpente o ti ode borbottare sotto le fabbriche. Questo tra tutti è il posto, dove sei rimasto, qui, potando, mi dicevi la tua vita…”

12Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi. Nel ricordare i giorni del carcere, in quei primi mesi del 1950, Scotellaro racconta di quando alla sera arrivava l’ora del libro, cioè la lettura ad alta voce del libro di Carlo Levi, con i compagni di cella attorno a lui: “Noi ci addormentavamo felici bambini con l’ultima parola di quella lettura che era una preghiera comune: chi pensava più all’interrogatorio e ai giri di vite del processo, al tragico momento della gabbia? Con un libro al capezzale, anche la morte è una tenera amante.” Che dire ancora del libro di Carlo Levi, così conosciuto anche attraverso il film, se non di riprenderlo e leggerlo? Carlo Levi era un pittore e ci ha lasciato di quell’esperienza, alla fine degli anni Trenta, prima a Grassano e poi ad Aliano, anche tante immagini, tra cui il grande racconto pittorico Lucania ’61, eseguito in occasione del centenario dell’unità d’Italia e dedicato proprio a Scotellaro (il pelorosso che si vede nel particolare qui a fianco), ora esposto a Matera. Forse sono influenzato dalla sua pittura, ma ci sono molti passi del libro che mi appaiono proprio come dei ritratti: “Era il pane nero di qui, fatto di grano duro, in grandi forme di tre o di cinque chili, che durano una settimana, cibo quasi unico del povero e del ricco; rotonde come un sole, o come una messicana pietra del tempo. Cominciai ad affettarlo, con il gesto che avevo oramai appreso, stringendolo e appoggiandolo al mento, e traendo verso di me, attento a non tagliarmi il mento, il coltello affilato. La brocca, come quelli di Grassano, e tutte quelle che, là e qui, le donne portano in capo, era un’anfora di Ferrandina, di terra giallorosata, a stretture e rigonfi, come un’immagine femminile arcaica, dalla vita sottile, dal petto e dai fianchi rotondi, con le piccole braccia ad ansa.”

GENTE-IN-ASPROMONTE-di-Corrado-Alvaro-331812783094-500x710Gente in Aspromonte, di Corrado Alvaro. Un racconto lungo, seguito da altri dodici racconti più brevi, scritti all’inizio degli anni Trenta, nei quali lo sguardo poetico dell’autore incontra toni ancora più aspri di quelli di Scotellaro e di Levi, toni che rovistano letteralmente dentro la vita dei contadini calabresi, o forse dentro la nostra di lettori partecipi. La critica letteraria spesso l’ha accostato a I Malavoglia di Verga. Ritroviamo la stratificazione sociale, resa fisicamente anche dalla struttura del paese o dalla descrizione della casa padronale, ma poi anche il riprodursi da una generazione all’altra di quelle durezze, che si scontra con il tentativo costante e incessante di modificare la sorte: “Qui in questo paese non c’è scampo per nessuno, con questi mariuoli che comandano. Bella rivincita che sarebbe per me, per noi tutti, che da casa nostra uscisse qualcuno che potesse parlare a voce alta, e li mettesse a posto. Il prete ci vuole. Tu mi devi aiutare”.
Riporto l’incipit del primo racconto: “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d’erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande pei porci neri.”

dannati-terraI dannati della terra, di Frantz Fanon. Questo libro l’avevo letto da ragazzo e poi di nuovo di recente, con la sensazione però di leggerlo di nuovo per la prima volta, e trovandomi a confrontare di tanto in tanto, alcuni passaggi proprio con le riflessioni di Scotellaro o di Levi. Scrive Fanon: “Non basta raggiungere il popolo in questo passato che non è più, ma in quel movimento ribaltato che esso ha appena abbozzato e a partir dal quale, improvvisamente, tutto sarà messo in discussione. È in quel luogo di squilibrio occulto in cui sta il popolo che dobbiamo portarci, poiché, non dubitiamone, è lì che si accende la sua anima e s’illumina la sua percezione e il suo respiro”  Fanon non è certo un autore che si può racchiudere in poche e sbrigative righe, come del resto non lo è mai nessuno. I suoi libri, questo e anche gli altri, dovrebbero rientrare tra i testi che uno tiene sempre a portata di mano, per riconsultarli di tanto in tanto. Non è un romanzo ma un saggio, ma la lingua di Fanon e la visione che c’è sotto ad animarla a me sembra poetica e capace di mantenere una forza delle parole che ci accompagna per tutta la sua lettura.

 

cop.aspx_Contadini sulla strada, di Fabrizio Bottari (Pentagora edizioni). Qui andiamo su autori forse meno noti al grande pubblico di quelli citati fino ad ora, ma quando ho trovato quasi per caso il libro, incuriosito dal titolo, è stata una piacevole e assai interessante sorpresa. Si tratta della pubblicazione in italiano di alcuni reportage scritti da John Steinbeck negli anni Trenta, sulla grande epopea, e grande espulsione dei mezzadri americani dagli stati del centro, e il loro gigantesco esodo verso la California. Insomma, parafrasando la triste cronaca odierna, è come una rotta balcanica all’interno degli Stati Uniti. Gli articoli che Steinbeck scrisse allora, sono qui riproposti per la prima volta in italiano, e accompagnati dalle foto di Dorothea Lange, una grande fotografa. Sono molti i fotografi che in quegli anni raccontarono quelle vicende, come poi qualche anno dopo fecero anche nelle nostre campagne. Steinbeck in seguito a quei reportage scrisse il suo romanzo più celebre, Furore (The grapes of wraht), che qui a Jesi abbiamo inserito tra i libri condivisi dal nostro circolo di lettura. Anche il libro di Bottari ci aiuta, come tutti gli altri, a ritrovare un po’ di noi stessi oggi; conclude Bottari:“L’attualità delle parole e delle immagini di due testimoni d’eccezione, John Steinbeck e Dorothea Lange, possono aiutarci a capire che siamo anche noi parte di quella storia e che possiamo ancora salvare quel poco di fertilità e dignità che la terra e l’uomo, nonostante tutto, hanno saputo fin qui conservare.” Per questo libro è d’obbligo citare anche l’editore, Pentagora, perché nelle sue collane offre molti altre letture interessanti su questi temi.

phpthumb_generated_thumbnailjpgIl canale, di Salvatore Paolo. Proseguo con i meno noti al grande pubblico. Qui siamo in Salento e ad un certo punto nel racconto compare anche un’occupazione di terre che fa riferimento alle occupazioni storiche della terra di Arneo, nei due capodanni consecutivi alla fine del ’49 e poi del ’50. Alle occupazioni di Arneo dedico personalmente il racconto di chiusura della mia raccolta L’erba dagli zoccoli, e voglio qui citare anche un romanzo storico su queste occupazioni, “Vento freddo sull’Arneo” di Tina Aventaggiato. Il romanzo di Salvatore Paolo però è anche altro. Anche il suo lavoro è stato accostato talvolta a I Malavoglia di Verga, – e in alcuni punti sembra quasi che Salvatore Paolo citi volutamente Verga, ad esempio quando chiama I Mangialerba la famiglia al centro dl suo racconto.  Il suo sguardo però è più individuale e introspettivo, psicologico. L’io narrante è Assuntina, ragazza e poi donna, che racconta, ricordandolo dopo, con il tono di chi è riuscito, almeno un poco, a distaccarsi dal duro ambiente in cui è cresciuta. Sono gli anni che attraversano la guerra e si affacciano sulla nostra era, un mondo che certo ci appartiene ancora, nel fondo di noi stessi anche se abbiamo perso l’abitudine di riandarlo a cercare. L’accento narrativo di Salvatore Paolo forse sottolinea ancora di più la tensione verso un riscatto di tipo esistenziale e non soltanto sociale.

rossa-terra-miaRosa terra mia, di Vincenza Castria e Ciro Candido. Qui è assolutamente importante riportare anche il sottotitolo: Le lotte per il riscatto della Lucania nel nome di Giuseppe Novello. Giuseppe era il marito di Vincenza, morto dopo tre giorni di agonia quando all’alba del 14 dicembre 1949 a Montescaglioso, un paese a sud di Matera, teatro di lotte per la terra. Anche questo è in qualche modo un libro doppio, con una duplicità di sguardi. Nella prima ampia parte è Vincenza che racconta, non solo di quella notte e degli immediati giorni successivi, ma della vita in quanto tale, che comunque è più ampia e non la si può racchiudere in pochi seppure centrali episodi. “Le prime impressioni che affiorano alla mia mente riguardano il palazzo dove ho vissuto fino a dieci anni…”, inizia così il suo racconto, come per cercare una prospettiva solida e robusta, fatta di tutto ciò che porta con sé, per mettere in scena la sua storia. Per capirlo basta leggere i titoli dei vari capitoli o paragrafi: Alla scoperta della realtà; Il primo viaggio in treno; Il ritorno a via Balconi Sottani e l’arrivo di Filippo; Le prime lotte per il lavoro; e poi naturalmente l’epilogo di questa prima parte della vita.  Me l’hanno ammazzato, è il titolo di questo momento centrale del racconto, lo stesso grido che Vincenza lanciò quella mattina, in un’alba ancora buia: “Il crepitio delle armi sconvolse la gente, non si capì più nulla, un fuggi fuggi, ognuno cercava di salvare la propria vita”.  La seconda parte del libro è attraverso lo sguardo di Ciro Candido, il nuovo compagno di Vincenza nella seconda parte della sua e loro vita. Anche Ciro era in strada quella mattina, e poi costretto anche alla latitanza nei giorni successivi, per sfuggire agli arresti di massa di quella repressione; ma poi segue la vita di nuovo nella sua interezza, nel suo alternarsi di difficoltà e soddisfazioni. Di questo libro possiedo una copia con una dedica autografa molto gradita, regalatami da Filippo Novello.

Mi fermo qui con queste scarne note e suggerimenti alla lettura. Mi accorgo, mentre scrivo, che ne esistono tanti altri di libri sull’argomento, mi vengono ad esempio in mente Fontamara di Ignazio Silone, La malora di Beppe Fenoglio, Il mondo dei vinti di Nuto Revelli, – ma anche il suo La guerra dei poveri, cioè la guerra vista dal basso, oppure i libri del poco conosciuto Ezio Taddei, come Il Pino e la rufola o anche L’uomo che cammina, che ci mostrano invece la vita in quanto tale vista dal basso, ma con una capacità poetica e di parola che la spoglia la vita, – e poi Trilogia dell’Altipiano di Mario Rigon Stern, La malapianta di Rina Durante e altri ancora, compresi quelli, non pochi, che ho già adocchiati ma non ancora letti. E mi rendo conto di non essere ancora uscito da una lettura in qualche modo sociale e forse politica, e di avere del tutto trascurato altri libri, più direttamente dentro la dimensione antropologica oppure che toccano più direttamente l’agricoltura proprio come attività e vita da ripristinare, tra i quali inserirei, ad esempio, anche Non è il vino dell’enologo, dell’amico Corrado Dottori. Ma anche su questo terreno l’elenco poi diventa ampio.

(pubblicato in data odierna anche sul blog del libro L’ERBA DAGI ZOCCOLI).

 

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