“La narrazione fatta e non ascoltata”, ricordando Primo Levi

Primo-Levi-24Oggi è la ricorrenza della nascita di Primo Levi, il 31 luglio 1919. Quel giorno il parlamento tedesco approvava la costituzione della repubblica di Weimar e quello italiano la modifica in senso proporzionale della legge elettorale. Appena dieci giorni prima, tra il 20 e il 21 Luglio, in diversi paesi europei s’erano svolte grandi manifestazioni – con uno sciopero generale anche in Italia – contro quanto previsto dal trattato di pace firmato a Versailles dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, in nome della solidarietà tra i popoli, per la difesa delle rivoluzioni in Russia e in Ungheria e contro il sostegno agli eserciti “bianchi” offerto dai paesi vincitori. A Berlino, già nel mese di gennaio si era consumata la repressione contro l’insurrezione spartachista, con la morte di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Il mondo sembra già essere andato da un’altra parte quanto Primo Levi, all’età di 24 anni, è arrestato dalla milizia fascista in Valle d’Aosta – durante un rastrellamento contro i partigiani – e tradotto prima a Fòssoli e poi ad Auschwitz, a cui sopravvisse e di cui raccontò nel libro “Se questo è un uomo”.

Personalmente, ho conosciuto questo libro grazie a un bravo professore – Fabio Fornaroli  – che durante l’anno scolastico ce lo aveva letto ad alta voce : correva l’oramai lontano ’68. È stata per me una lettura formativa. L’ho riletto più volte e di tanto in tanto, quando mi occorre, perché devo affrontare questi temi, continuo a consultarlo. Uno dei brani che più mi piace citare, è quello del sogno del ritorno a casa, un sogno che Primo Levi faceva quando ancora era chiuso nel lager, e che anche altri suoi compagni di sventura facevano identico. Non ho mai capito se è per un malcelato timore di indifferenza oppure per la consapevolezza di vivere un’esperienza oltre qualsiasi soglia del verosimile, o quale possa essere davvero il confine tra questi due pensieri. Primo Levi racconta il suo sogno così:

“… c’è mia sorella e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. E’ un godimento immenso, fisico,inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola.
Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è un dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini piangono; ed è meglio per me risalire ancora una volta in superficie, ma questa volta apro deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio.
Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché sveglio, sono tuttora pieno della sua angoscia: e allora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già sognato, non una ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche d’averlo raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? Perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni così costantemente, nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata?”

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