Titolo: Cascina Novecento
Autore: Gioacchino Allasia
Casa editrice: Infinito edizioni
Tradizione contadina, emigrazione e radici nell’Italia del secondo dopoguerra. Prefazione di Amasi Damiani, introduzione di Luigi Botta.
Un lungo racconto nel quale sembra che a parlare non sia il protagonista e autore ma direttamente i luoghi, sempre presenti dentro lo sguardo narrante, non solo i luoghi dei ricordi del proprio paese, Murello, nel cuneense, ma anche quelli dove l’autore vive nel momento in cui racconta – durante una permanenza a Boston, nel 1983 -, parlandone con altri amici a loro volta spinti a rammentare, immaginare e confrontare, come in una “maieutica” reciproca. Non c’è mai, però, alcun velo di nostalgia o di malinconico senso di lontananza. Al contrario, è un ricordare e ricostruire con serena leggerezza vite e tradizioni, storie umane ricche di significati che forse si riesce ad apprezzare più pienamente proprio grazie a quel trovarsi lontani, in nuovi luoghi che a loro volta non sono estranei ma accoglienti, come ulteriori prolungamenti di sé, perché anche loro sono luoghi sono carichi delle proprie storie, e delle storie di altre persone che ci hanno preceduto: “… sono qui a Boston; pensare che le strade che sto percorrendo sono le stesse che hanno calpestato Sacco e Vanzetti mi fa venire i brividi. Fremo nel ricordare le foto in bianco e nero dei cortei di protesta a difesa dei due anarchici innocenti…”
Bartolomeo Vanzetti veniva da Villafalletto, pochi chilometri da Murello. Il mondo è qui e là, siamo sempre noi che ci viviamo.
C’è, nel modo di raccontare, il senso del tempo, e dei luoghi nel loro tempo: ricordi personali, atmosfere e situazioni dentro l’alternarsi delle stagioni, i paesaggi, i lavori, le famiglie, i giochi. Le rivalità campanilistiche nelle feste e nei tornei. La vita di casa; la cascina, dove l’autore ha vissuto fino all’età di quattordici anni. La nonna che voleva diventare ballerina. I personaggi, che nelle parole e nell’immaginazione riprendono vita, un mondo con un senso.
La grande neve: “Quando la nevicata era tanto abbondante da impedire gli spostamenti, si restava in casa, riscaldati per quanto possibile dalle sole stufe a legna (…) Di solito si dormiva nel pagliaio, uno spazio chiuso recintato da muri di pietra, dove venivano calate le balle di fieno usate come giaciglio per le mucche. Dormire in quel luogo, così riparato e naturalmente caldo, mentre fuori nevicava copiosamente, era un vero godimento; ci si sentiva protetti dal mondo esterno, mentre l’atmosfera ovattata rendeva il tempo un meraviglioso alleato. Più passavano le ore e più si creava armonia tra esseri umani, animali e quella dimora ancestrale che affondava le radici nella tradizione.”
“Credo che anche nelle campagne del Quebec – gli risponde il suo interlocutore – fosse così fino a qualche decennio fa. Non dimentichiamo che siamo diretti discendenti dei francesi, di cui manteniamo lingua e tradizioni.”
Sono John e Joseph gli amici con cui dialoga; sembra quasi un’atmosfera da ‘tre uomini in barca’, anche se la loro permanenza in quel periodo, tra Boston e New York, non è un’esplorazione da evasione.
Boston è l’altra faccia di Murello e con Murello si alterna e mescola. La città sullo sfondo della campagna cuneense, con i suoi ritmi e i suoi riti, come i fuochi nei campi a novembre, quasi una sorta di manutenzione della propria mitologia e della fertilità della terra: “… le ‘mutere’, caratteristiche montagnole composte da letame, cenere di legna e terriccio raccolto in luglio in mucchi dette ‘murene’. Si tratta di un meraviglioso espediente di sapienza contadina; il risultato di questa combustione era la riduzione dell’acidità del terreno dei prati. Dopo San Martino questo composto era sparso sui campi fino a coprirli, in modo da concimarli in maniera naturale e sana.”
Passeggiando per le strade di Boston, riemergono nelle conversazioni tra gli amici sensazioni di odori, sapori e atmosfere, e insieme i paesaggi, le coltivazioni e il lavoro nei campi, compresa la lavorazione della canapa, e insieme tanti personaggi con le proprie storie. Dai concittadini cosiddetti più illustri – come la famiglia Calandra, lo scrittore Edoardo e lo scultore Davide, che oltre ai soggetti più “illustri” scolpiti, come la scultura di Montecitorio, non ha trascurato nella sua carriera di ritrarre anche i contadini – ai più cosiddetti più “umili”: ecco così ricordata anche la tragedia del piroscafo Mafalda, al largo del Brasile, nel 1927, carico di emigranti. Fu una delle tragedie maggiori, con centinaia di vittime, e come accadeva sempre allora in questi casi, i numeri dei corpi recuperati in mare superavano di gran lunga i nomi dei registrati all’imbarco.
I luoghi e i tempi s’intrecciano anche in altri modi, nel racconto, e così anche l’occasionale incontro – ma non dipende dal caso bensì dall’attrazione per la folla che l’autore confessa di aver sempre avuto – con l’attivista dei diritti umani Geraldine Ferraro, candidata all’epoca alla presidenza del Stati Uniti per i democratici, che nel parlare alla folla dei sostenitori cita Martin Luther King, riporta per analogia l’autore indietro ai suoi anni, all’inizio degli anni Settanta nel suo paese e in Italia, al clima politico e di partecipazione di allora, con gli scioperi e le manifestazioni del “Movimento”.
La storia, i ricordi, le tracce di tanti sedimenti sgorgano da sé ad ogni passo, con facilità. L’autore ricostruisce un mondo e un’epoca il cui senso non è affatto scomparso, anche se è proprio questo ciò che si potrebbe pensare leggendo l’ultimo capitolo, dove l’autore ci riferisce – trent’anni dopo il suo racconto – del suo ritorno di nuovo a Murello, in cerca della sua cascina.
E tuttavia quel senso non è scomparso. C’è un passaggio, nel racconto che, oltre ad aver risvegliato in me sensazioni personali precise, che io stesso non ricordavo più, della mia campagna, mi sembra sia anche una buona metafora per provare a spiegare il tipo di approccio con la memoria che questo libro mi ha trasmesso: “Mi sono rotolato spesso nel granaio pieno di frumento, immergendomi tra milioni di chicchi come se fosse acqua. Il profumo era delizioso e passare ore a rovistare con mani e piedi nell’immensità del grano era una delizia impagabile.”