Titolo: La malora
Autore: Beppe Fenoglio
Casa editrice: Einaudi
L’incipit del romanzo:
“Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia. Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m’avesse saputo così rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza. Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia. Mi fermai all’osteria di Manera, non tanto per riposarmi che per non arrivare al Pavaglione ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche gesto dei più brutti. Tobia e i suoi mi trattarono come un malato, ma solo per un giorno, l’indomani Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro mi sembrava di non aver mai lavorata una giornata come quella. Mi fece bene. Un po’ come fa bene, quando hai lavorato tutta notte nella guazza a incovonare, non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del sole.”
Dalla prefazione di Paolo di Paolo:
“La terra e la sorte non hanno dolcezza, né lusinghe. La malora racconta una storia di povertà, di servitù vissuta come una condanna da scontare da secoli e per secoli. L’orizzonte non si rischiara nemmeno sul finale. (…) Dentro questo tempo che rimane uguale, Agostino racconta la propria storia in prima persona: la voce che Fenoglio gli presta è il più possibile scabra, spiccia. Serve a non separare realtà e racconto, a fare sì che l’uno si sviluppi dall’altra, che ne resti il più possibile parte, che si presenti come un gruppo di quella stessa realtà.”
“Bisogna portarsi via da questo libro il vento che sa “d’erba marcia e di rane”; l’idea che guardando una ragazza il cuore possa caderci giù, “fino ai garretti”; la polenta strofinata a turno “contro un’acciuga che pendeva da un filo”, per darle un po’ di sapore; l’invidia che si prova, da provinciali, per chi ha visto una città; la gente seduta in anticamera che si guarda le scarpe impolverate. E il vino: quando scende a toccarci il cuore (“Dev’essere il vino che gli è andato per la vita”). Un prete che non vuole muoversi da Costalunga per un funerale altrove: e “dovevano mandargli una bestia se lo volevano avere in chiesa”. Una nonna che custodisce una riserva di fernet nel vaso da notte (“una goccia di fernet nel caffè t’arrangia lo stomaco”). Il furto di un “culettino di salame”: “Mi sentii tanto in colpa e così perso come se avessi ammazzato un cristiano”. E una scena, almeno. Quando Agostino va a trovare il fratello in seminario, crede di trovarlo bene, invece lui gli dice: ho fame, Agostino, comprami qualcosa da mangiare.
– Cosa ti compero? – Mi ricordavo sì di quello che gli piaceva mangiare a Emilio, ma ai tempi di casa, adesso mi sembrava di dovergli domandare anche come respirasse.
– Comprami qualunque cosa.
Io subito mi mossi, stavo coi miei dieci soldi in mano e negli occhi di mio fratello vedevo me come in uno specchio me e lui al paese, un dopo pranzo di festa, che pescavamo con le mani i gamberi in Belbo.
– Comprami qualunque cosa che mi rallegri, – e mi toccò sul braccio per farmi svegliare e partire. E quando io ero già alla porta mi corse dietro per dirmi di comprargli delle mele in composta.
Dalla introduzione di Maria Antonietta Grignani:
“Di fatto un formidabile elemento equilibratore è l’impasto linguistico, per effetto di parlato popolare-regionale non alterato da escursioni tra registri alti e registri bassi, tipiche della scrittura espressionistica. La tensione verso la stringatezza, con la fusione a ciò funzionale di lingua e dialetto, non produce nella Malora un italiano abbassato, ma – come ha visto benissimo Beccaria – un “arcaizzamento-straniamento dell’italiano stesso”, con il dialetto regionale a dare il tono a una lingua inusitata. … Anna Banti, che propone la formula felice di “cantare storico” per questa narrazione di arcaica semplicità, simile più alla narrativa di Bilenchi che al realismo in quanto tale. L’assunzione del punto di vista e della voce di Agostino produce innanzi tutto un ispessirsi dell’apporto vernacolare nel libro, che segna il momento di massima fusione tra lingua e dialetto. Dunque non solo un dialogato reso più “orale” e verosimile dall’elemento piemontese come nei Ventitre giorni, ma l’intero tessuto narattivo quale “forma interna” della parlata collettiva, come un procedimento di immedesimazione che ricorda quello dei Malavoglia. La delega al narratore autobiografico siginifica qui assunzione globale del modo di pensare e di vedere di un ambiente…” (…) Fenoglio non si abbandona da intellettuale alla riscoperta mitizzante del paesaggio o delle passioni primitive né indaga il rapporto città-campagna con i filtri ideologici di un Pavese; semplicemente perché lui non è tornato in pellegrinaggio sulle Langhe, ma è vissuto lì da autodidatta, a due passi da una popolazione rurale attaccata alla terra e alla “roba”, perseguitata dalla “malora”, chiusa in una separatezza che non prevede deroghe alle leggi ferree del rapporto di lavoro, nemmeno all’interno del nucleo familiare.”
in copertina, un particolare della foto di Paul Strand, Luzzara, 1953.