“L’odore della polvere da sparo”, di Attilio Coco

web_copertina2015_1Titolo: L’odore della polvere da sparo
Autori: Attilio Coco
Casa editrice: edizioni spartaco

“Il suono di quello che è il vento della Storia.”
La Storia ci sfiora oppure ci avvolge?, mi chiedevo leggendo questo libro. Di sicuro va di fretta quando qualcosa accade, anche se poi lascia tracce che restano impresse per sempre, in quei luoghi, o nei tempi delle memorie, o nei libri che si dovrebbero leggere. O, anche, nelle abitudini di un Potere che si riplasma in altre forme.

Confesso che all’inizio ho faticato un po’; la scrittura che ci introduce in questi mondi è di quelle che ti costringono a fermarti, quando invece nei tempi attuali, diseducati oramai alla lettura come impegno – un impegno che non sottrae piacere alla lettura, gli conferisce piuttosto una diversa intensità – ci vogliono abituare a scritture veloci, che guizzino da un frammento all’altro senza sfiorare nulla.
Poi ho realizzato che era questo il ritmo adatto, costruito su frasi lunghe, che ritornano su se stesse e indugiano sulla storia narrata, la accarezzano come per assicurarsi di un contatto, sentirla sotto la pelle, scovare i varchi da dove affacciarsi sulla vita di sotto, sui dettagli intrisi di Storia, e sentirlo come un abisso, “un luogo da percorrere, da conoscere e nel quale perdersi… sicuro che da quel momento in poi in quell’abisso non sarebbe più precipitato, ma ci sarebbe scivolato dentro, lentamente, come trasportato da un piacevole soffio di vento.”

Sembra il ritmo di un’opera teatrale – il filo conduttore del racconto l’autore l’affida a un attore, Gianni – che si svolge in due atti e ha bisogno di tre o quattro scene appena. Le due principali sono una libreria di Potenza, con le sue vite dentro e le vie attorno, e un bar nascosto in un angolo nei pressi di Castel Sant’Angelo a Roma.

Nella prima, troviamo delle persone che sono come antenne di altri mondi, o altri tempi, toccati dalla Storia o come se la Storia non se ne andasse mai, perché ritorna sempre seppure in forme camuffate e visibili a pochi. È la libreria dei libertari – gli anarchici – e i libri non sono solo documenti, o testimonianze anacronistiche, ma il prolungamento di un’immaginazione capace di affacciarsi su quell’abisso e sentire realmente, come una seconda pelle che vibra dentro. Più che la condizione sociale a cui quei libertari appartengono – o nonostante – è un sentimento intriso di sensibilità sociale quello che entra in sintonia con la loro seconda pelle, è un tipo di sguardo, o di bellezza, dove diversa e più immediata è la luce che illumina gli scenari a cui partecipano, esposti ai colpi della repressione, al sapore della polvere da sparo. Ho scritto sapore, d’istinto, anziché odore, forse perché quando Gianni lo sente, prima ancora delle voci che gli arrivano concitate dalla piazza il giorno della strage, quell’odore aspro gli scende subito giù, attraverso il naso fin dentro l’esofago.

È l’odore della polvere da sparo che si avverte in piazza della prefettura a Potenza, quel 29 aprile del 47, i contadini sparati addosso, e due giorni dopo a Portella della Ginestra in Sicilia; o quello immaginato da un Gianni ancora giovane a Porta San Paolo a Roma, sulle tracce del sacrificio del 10 settembre ’43; o più avanti nel romanzo, nel secondo atto, quando Gianni è più maturo e la sua seconda pelle oramai può vibrare, sempre in sintonia con quella particolare sensibilità, sui palcoscenici dei teatri, e ritrova quell’odore attraverso il racconto di altri, a ritroso nel tempo, nelle giornate di Barcellona o nell’assassinio di Camillo Berneri, e poi in anni più recenti e in luoghi più vicini a lui, che in quell’epoca di ‘strategia della tensione’ lo sfiorano, e che sono parte anche della nostra Storia, di noi che leggiamo.

La Storia, dunque, ci sfiora o ci avvolge? Certe volte ci colpisce, è un attimo, un attimo che dura. A occhi disattenti appare solo l’attimo, seppur tragico, ma comunque estraneo, come se la nostra innocenza fosse stata dissolta solo in quell’attimo; a occhi più sensibili, capaci di vedere oltre l’inganno dell’attimo, il colpo si rivela preparato da tempo, con il suo odore di polvere da sparo. Riuscirebbe un veggente, o una Cassandra, a tirarsi di lato e osservare la traiettoria di quel colpo? Lasciando magari che colpisca, al suo posto, un altro? O può soltanto osservarlo al rallentatore il colpo in arrivo, “la fatalità del momento nel quale è stato gettato”? Non può tirarsi indietro, la veggente.

Nel secondo atto del racconto gli sguardi si duplicano. Gianni ha assecondato con il teatro il vibrare della sua seconda pelle, e vede se stesso come un privilegiato, quando confronta il suo con lo sguardo proiettato altrove di una ragazza – una veggente? – che per alcuni giorni ha incrociato la sua vita. Ha lo “sguardo lungo” quella ragazza: “Proprio questo le rende la vita disperata. Vede quello che è accaduto e quello che potrà accadere. Ma non immagina neanche lontanamente i motivi del perché è accaduto o accadrà quello che lei vede… cosa può fare per evitare questo suo terrore? Non lo sa. Ecco la sua disperazione… vedere con disperato anticipo il dramma che si sta preparando.” Che cos’è davvero la veggenza, se non un’estrema sensibilità a ciò che nel mondo si sta caricando, per aspettarci? È questo il destino, o la Storia come se fosse già scritta? La ragazza ha sempre con sé due libri, che legge e rilegge: Sobre héroes y tumbas, di Ernesto Sabàto, e Rayuela, il gioco del mondo, di Julio Cortàzar: “l’inevitabile destino che intreccia la realtà del lettore alla realtà della storia che legge” commenterà tra sé Gianni, quando anche lui li leggerà cercandovi risposte agli enigmi della realtà.

Confrontandosi con la ragazza, Gianni si sente un privilegiato: “Il teatro… gli ha dato la possibilità di vivere in una zona d’ombra… ha potuto essere uno spettatore a cui è stata riservata la possibilità di guardare tutte le tempeste della Storia da una posizione relativamente sicura… avrebbe potuto vivere da vicino un’esplosione, imbattersi in un proiettile vagante, sbattere contro un manganello… e quell’odore di polvere da sparo sentito per la prima volta a Potenza più di venti anni prima sarebbe stato forse l’odore costante dei suoi giorni… invece non è andata così. Il teatro è stato la sua piazza e la sua Storia. La sua denuncia e la sua rivolta. Ma per…” gli altri, i libertari che Gianni ha conosciuto, come è andata? In che modo la Storia li ha sfiorati, avvolti, oppure colpiti?

Gianni è un traghettarore di storie, le assorbe con la sua seconda pelle e le rivive a teatro; in quanto attore è il mediatore tra i due mondi usato dall’autore, che qua e là, nelle pagine del romanzo, non resiste ad affiorare anche in prima persona, per esserci un po’ anche lui, essere tirato dentro, lui stesso testimone di un qualcosa che il suo traghettatore gli fa intravedere. O che lui immagina, mentre cammina sulle tracce di chi ha scelto di farsi avvolgere dalla Storia, e ora lui trovandosi negli stessi luoghi prova l’emozione di “ascoltare il rumore dell’acciotolato sotto i piedi”: “Allora mi giro intorno e mi pare davvero di sentirlo il suono di quello che è il vento della Storia.”

E il finale? Non sono sicuro se questa è la prima volta che dico a me stesso ‘il finale non conta, potrebbe essere anche un altro”, anche se l’autore ha scelto questo per sé, con una piccola sorpresa per noi, e dunque è questo il finale giusto che ha un senso per la sua storia. Voglio dire: non è all’epilogo che dobbiamo correre, per risolvere un enigma che non si risolve ma si vive. ‘Il viaggio non è la meta, è quando si viaggia’, ricordo di avere scritto una volta da qualche parte, e forse è vero anche qui, la storia non è il suo epilogo, è piuttosto nel modo del suo narrarsi e di tutto ciò che di emozionante e di vero, di vivo, incontra in questo cammino. Un tutto, di cui io in queste poche righe ho potuto citare solo una piccola parte.

Mi concedo, invece, questa piccola curiosità personale: sono stato personalmente a Potenza una sola volta e la prima cosa che ho fatto – tanto per restare in tema – ho cercato di immaginare Carmine Donatelli Crocco in catene da Porta Santa Lucia, per un breve tratto di via Pretoria; come scrive lui stesso nella sua autobiografia “Come divenni brigante”: “La notizia del mio arrivo aveva attirato sulle vie i sedicimila abitanti della città, mancava S. Gerardo eppoi c’erano tutti. A maggior soddisfazione di quei cittadini, già da me malmenati, giunti a Porta S. Lucia mi fecero discendere dalla carrozza ed a piedi, percorrendo la strada Pretoriana, fui condotto alla caserma dei carabinieri reali e di là alle carceri giudiziarie in attesa del mio processo.”

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