Titolo: L’eco di uno sparo, cantico delle creature emiliane
Autori: Massimo Zamboni
Casa editrice: Einaudi
L’eco di uno sparo è un racconto che scava nel proprio mondo e si fa esso stesso traccia di un qualcosa che, mentre costruisce per sé, lascia segni a noi che leggiamo, per renderci partecipi. Traccia, sia come sostantivo che come azione, o intenzione, che segna, incide, lascia echi e s’immerge in altri echi che scova, cercando l’angolo migliore per osservarli e restituirli, mentre si svolgono e si riavvolgono. Cose che si scoprono proprio mentre tornano a coprirsi, ma ora con un’evidenza in più: “Non c’è niente da fare, da qualche parte resta sempre una traccia di noi. Un eco che rimbalza”, scrive in un piccolo inciso l’autore. È quasi una scrittura per incisi, pensieri che prendono vita da dettagli, reali, cercati, letti, capaci di evocare uno sfondo, stanare un senso: “Io non sapevo nulla, del nome che avevo. Non poteva bastare, non è adatto a me vivere nella leggerezza del non sapere nulla. Ora qualcosa so, imparo che il sapere comporta il carico di pesi.”
L’eco di uno sparo è fatto di ben altre onde, rispetto a quelle sonore; non è l’esitazione di un suono prima di sottrarsi alla nostra attenzione, o di richiamarla ad un silenzio attonito; è la nostra stessa attenzione, piuttosto, ad esitare, quando non sa o non vuole distogliersi da quell’eco. Echi anche come silenzi bisbigliati nella casa dove l’autore è stato bambino, frasi taciute, non detti, presenze assenti o sospensioni di respiro, quando qualcuno pronuncia, quasi furtivamente, certi nomi. Di un mondo, di una storia, di una trama già scritta, ancora capace di squassare certezze conquistate nel frattempo, opposte a quelle della famiglia, e che sembrano date o immediate, e invece sono intessute comunque di un tutto, che quando lo cerchi inizia a emergere, un poco alla volta, a mostrarti altri lati.
La lettura della prima parte del libro è scorsa via come un viaggio in un mondo di miti – cantico delle creature emiliane; è il contesto del tempo, della vita come era, dove nulla è dato così come appare ma ogni storia è già data nella sua realtà; un mondo che, pur con tutte le sue asprezze e aperte e ineliminabili contraddizioni, a me che leggo appare anche ovattato. Lo stesso autore, mentre lo rievoca, si trova a citare dei film, come l’Albero degli zoccoli, o una poesia che parla della bicicletta, di Zavattini. Un viaggio a ritroso che procede anche per lacerazioni, quando a tratti svela, o semplicemente conferma: “Avrei preferito un colpo in piena faccia, una sberla piena, ben assestata, con le dita a ventaglio….”; e diverse pagine più avanti: “Torniamo a (…) vi ho nascosto qualcosa, e ho dovuto allungare la scrittura per attutirmelo un po’…”, e di nuovo, dopo qualche pagina ancora: “Devo interrompere la lettura del verbale. Lo schiaffo brucia. Credo che (…) se ne sia accorto, lui sapeva che mio nonno era tra loro.”
Sembra quasi il metodo di un antropologo delle memorie – m’era venuta in mente, nelle prime pagine, Marguerite Yourcenar, e poi più avanti l’ho trovata addirittura citata, e vista dall’esterno, con uno sguardo insolito, giovane straniera diciannovenne mentre osserva la marcia delle camicie nere che entrano a Roma – o di un archeologo della propria famiglia che vuole restare scientifico nel metodo, non vuole anticipare o distorcere nulla ma affidarsi soltanto ai nudi documenti e nulla più, che sono già più che sufficienti a colmare di senso un senso che già c’è nell’aria e va soltanto – soltanto? – riafferrato, riordinato, ricollocato: “Ho una fiducia istintiva – partigiana – verso quelle rimozioni che mi obbligano ad accettare. È vero: quello che so mi basta. Il libro è già scritto in me.”
La lingua usata nel racconto è aderente a questo percorso a misura umana; è una lingua leggera, educata, completa, attenta ai dettagli e non nel senso di non tralasciarne nessuno ma in quello di restituirli con cura e rispetto, che non sono solo dettagli ma sostanza, centralità, continuità di quel mondo che non c’è più, se non nei suoi echi: siamo noi, però, quegli echi. Nell’inseguirli, l’autore si chiede anche come quel mondo avvertiva se stesso mentre il suo destino aveva già imboccato una direzione a senso unico: “Attorno a quel loro sguardo da bambini che tutto vorrebbe raggelare, la storia si raggruma. Guerre di conquista, l’Albania, il confino, le eliminazioni. Avranno sentito parlare, forse, bisbigliare almeno, di un Gramsci in carcere, di un Lussu e tutti gli altri: ma così come oggi e sempre nemmeno noi sappiamo intravedere le mille sofferenze inascoltate che riguardano il nostro tempo, così sarà stato per loro, al tempo loro, nei confronti dei luoghi lontani, di nomi lontani, indistinti, intoccabili. Nulla mai che si possa fare, se non contribuire a precipitare”.
Se vogliamo, si conosce già anche l’esito della storia, è evocato già nel titolo e anticipato già dalla prima riga del libro, non viene mai nascosto, è un esito certo e che incombe ad ogni riga – “Non riesco a non vedere come il senso di un destino cercato, scritto in forma di proiettile, accompagni ogni sua posizione”– e al tempo stesso sempre rinviato, come se il rinviarlo consenta già di raccontarlo con quel qualcosa in più che ci vorrebbe, o offrisse allo sguardo il tempo di non trascurare il contesto. Essendo un esito certo, è come un dato documentato, ma qui occorre rovesciare il metodo, non è il dato in sé ciò che si cerca, è piuttosto il non detto, ciò che sfugge al dato, che bisbiglia e che deve osare guardarsi.
Nella seconda parte prende corpo un’altra storia, o un altro lato della storia, più vicino e intrecciato a quello sparo. Storia che ancora oggi avvertiamo come recente, seppure sia trascorso oltre mezzo secolo. C’è un altro sparo, diciassette anni dopo lo sparo al centro del racconto, e sedici anni dopo la fine della guerra, quello a bruciapelo del partigiano Robinson al suo ex amico partigiano Muso. Una storia pubblica e conosciuta nel reggiano, anche se la parola conoscere racchiude qui un eco più ampio di significati. L’autore la osserva e la maneggia questa storia anch’essa assai delicata, scrutandola da più punti di vista. Anzi, non di vista, perché è un’ espressione che rinvia a punti di vista politici, o giudiziari, o forse storici. Direi, piuttosto, da più sguardi, nel senso fisico dello sguardo che si pone o cerca di porsi da prospettive diverse, cercando ulteriori angolazioni di senso. Nei bisbigli sussurrati in casa, quasi con vergogna o timore, c’erano proprio i nomi di quei due partigiani, quali possibili autori dello sparo al centro del racconto. Lo sparo è l’unico dato certo, finché era chiuso nel silenzio era come se non ci fosse mai stato, ora invece è di nuovo un rimbalzare di echi.
Un intero capitolo è dedicato ai fratelli Cervi e inizia dalla loro casa: “E tutti passano da lì, da quel portico chiuso sul fondo – da cui «porta morta»: le galline, le mosche, i secchi con il latte, gli stivali degli uomini, l’erba a asciugare, gli odori e gli umori di tutti che s’impastano in un’unica vita, tumultuosa e ordinata secondo canoni che paiono oggi spaventosi. Ma basta così, la nostalgia è un sentimento che raschia nei cassetti chiusi, certo non è il tono elegiaco quello adatto a rendere giustizia alla loro umida bellezza”.
Il contesto è anche questo, i Campi Rossi di Campegine. La guerra è in corso e la Resistenza in arrivo, c’è anche il nonno dell’autore da quelle parti, con incarichi nel fascio che lo espongono: “Estraggo un foglio archiviato tra i mille inutili alla mia ricerca, una nuova fonte che mi riguarda. Un sussulto; ogni volta che questo avviene la gioia si mescola alla preoccupazione per ciò che verrà rivelato, per ciò che il foglio saprà scardinare.” E la storia si fa densa, inventa nuovi intrecci e inizia a correre, segue vie inaspettate, talvolta anche le parvenze di un gioco o di una burla, ed è solo l’inizio di questo ultimo atto, dopo l’8 settembre arrivano la RSI e la Resistenza: “Adesso comincia la guerra vera. Quella nelle case, la guerra di tutti, una vertigine che non abbiamo mai voluto definire: civile.”
Confesso che faccio fatica, al primo impatto, a seguire l’autore in questa unica e secca definizione, civile, quando dal mio angolo visuale ne ho sempre intraviste, mescolate assieme, anche altre di dimensioni – ci fu ad esempio un dibattito, anni fa, tra lo storico Claudio Pavone e Norberto Bobbio. Ma nemmeno in questo racconto sono assenti, e certamente esiste anche questa dimensione ed è direttamente in questa che l’autore s’immerge, o si trova già immerso: “E le vite che finora hanno potuto procedere nel bene e nel male secondo un qualche schema conosciuto, cominciano a precipitare le une sulle altre, a perpendicolo, con ferocia senza scampo.” E più oltre: “Tutto il mio ramo materno aderirà in massa alla RSI. La mia famiglia assume in prima persona l’incarico di riscattare il Paese da quello che sentono chiamare disonore.” E tutto si mette in moto, segue il suo corso, a senso unico.
Anche questo momento storico, e il contesto sociale descritti in questa parte del racconto, sono restituiti con dovizia di dettagli, fatti, indicazioni precise, una ricostruzione storica e anche umana mai approssimativa o sbilanciata, ma il distillato di una paziente ricerca e altrettanto paziente assimilazione, il desiderio di non trascurare nulla e non accorciare mai le distanze come se in mezzo non ci fosse nulla. I Cervi muoiono fucilati, il padre Alcide evade dalle mura del carcere sgretolate dai bombardamenti aerei. “Dura vendetta verrà dal partigian”, diversi i fascisti cadono e arriva anche il turno del nonno, due sconosciuti lo inseguono in bicicletta e gli sparano tre colpi. Ma dall’altro fronte arrivano anche i rastrellamenti, il più terribile è quello di Bettola, “trentadue persone umane bruciate in piazza”. Poi la guerra finisce e altre vicende accadono nel reggiano, proseguono, si intrecciano, si sommano, c’è chi le racconta in modi diversi, non si placano; l’autore gli dedica alcune pagine, non riportandole di fretta ma soffermandosi quanto basta: “Addentrarsi in quell’intrico di canne di palude significa uscirne con le ossa rotte. Non lo voglio fare. Se non per rilevare come in tanti, con dovizia sospetta di particolari, suggeriscano…”, e più avanti: “Non intendo praticare psicologismi d’accatto. C’è un’intera letteratura su queste vicende nostrane.”
È vero, c’è un’intera letteratura, che siamo noi, che va al di là delle singole storie, e le riconnette tra loro. Preferisco terminare la mia lettura come se non fosse conclusa; gli ultimi capitoli sono dedicati alle sepolture, alla terra che grida forte. C’è una citazione di Emily Dickinson:
Dicono che il tempo «lenisce»:
il tempo non «lenisce» –
un soffrire autentico si rafforza
come fanno i nervi, con l’età –
Il tempo è una prova del dolore
non un rimedio
se così fosse
non c’era malattia –
(Alcuni estratti del romanzo sul sito Il lavoro culturale)
Intenso in crescendo dalle prime alle ultime toccanti pagine…