Nel proseguire la riflessione sul nostro tema “AL ROGO, profezia & memoria”, raccolgo alcuni commenti di questi giorni sulle vandale imprese dell’Is in Iraq, compiute non solo contro le persone ma anche nei confronti delle opere d’arte, come i roghi dei libri di qualche settimana fa, la distruzione delle mura di Ninive e ora le statue del museo archeologico di Mosul, prese a mazzate.
Barbarie già viste, nel corso della storia, e purtroppo sempre accompagnate dalle uccisioni di persone, e che ci riportano sempre alle stesse domande. Domande che forse meritano una riflessione in ogni caso più pacata e ragionevole, anche se quelle gesta al tempo stesso producono un forte impatto emotivo e reazioni spesso scomposte, o comunque di vario tipo. Tralascio, volutamente, quelle più isteriche e mi soffermo solo sulle altre, talvolta anche “curiose”, per trarne degli spunti. Ad esempio, lo scultore Gaetano Russo lancia una proposta a Vittorio Sgarbi: “Riproduciamo gratuitamente le statue millenarie distrutte del museo di Mosul, in Iraq (…) che dopo verranno rimesse al proprio posto dentro il museo. Certo non avranno lo stesso fascino ma è un segnale di civiltà e di condivisione artistica contro tale crimine. Questo progetto è fattibile ed invito il prof. Sgarbi ad aiutarmi e diffondere questo appello”. Pare, comunque, che in diverse casi, quelle che vediamo distruggere siano già copie.
Tutto questo mi fa venire in mente lo Stari Most, il Vecchio Ponte di Mostar, abbattuto con centinaia di cannonate e poi fatto saltare nel giorno del 4° anniversario della caduta del muro di Berlino. La leggenda attribuisce ad un generale, a proposito dell’antico ponte, la frase “lo ricostruiremo più bello e più antico di prima”; non so se davvero sia di un generale oppure di qualche autore di satira, comunque dopo 11 anni il ponte l’hanno ricostruito, sicuramente più bianco di prima e senza, ancora, il colore del tempo. In tutta quella guerra i simboli riconducibili alle etnie avversarie, e ai marcatori etnici che si tentava di consolidare, furono presi di mira con lo stesso accanimento dedicato alle persone, colpendo chiese e campanili cattolici, moschee e minareti, basiliche ortodosse, ma anche simboli civili, come la Viječnica, la biblioteca di Sarajevo. Una delle distruzioni di questo tipo, più popolarmente note, in anni recenti, è quella dei Buddha di Bamiyan ad opera dei Talebani. E ora l’Is. tra le grida sollevate per reazione e sdegno, si tende a utilizzare anche la parola Iconoclastia. E’ davvero il termine appropriato?
“Avallare la rivendicazione ideologica dell’Is, che riconduce i vandalismi di Mosul alla tradizione dell’iconoclastia islamica, è tanto storicamente rischioso quanto parlare di medioevo in riferimento alla barbarie integralista delle frange estreme dell’Islam contemporaneo”, scrive Silvia Ronchey su la Repubblica del 28/2, nell’articolo “Iconoclastia: il fanatismo politico che si nasconde dietro la furia teologica“. Il medioevo è stato lungo, multiforme e complesso, sottolinea la Ronchey, che tanto per dare un’idea di questa complessità, ripercorre a grandi linee sia le devastazioni di opere d’arte da parte dei condottieri cattolici della quarta crociata, quando nel 1204 entrarono a Costantinopoli, sia quando “nella primavera del 1453 Mehmet II Fatîh, conquistatore di Costantinopoli, entrò nella Città delle Città, fece risparmiare i palazzi e le chiese e la Polis, una volta sottomessa all’islam, rimase la città conquistata con più altari consacrati alla religione dei vinti.” Quale iconoclastia, verrebbe da dire, ma nell’articolo sono ricordati anche i riferimenti di base per un corretto uso di questa parola, e della relativa disputa nel dibattito religioso dei primi secoli del cristianesimo, per rendere più evidente quanto in realtà, oggi si tratti di altro, o quanto meno non sia riconducibile esclusivamente ad una questione di scontro tra concezioni religiose.
Interviene sull’argomento anche Salvatore Settis, “Chi devasta un’idolatria ne produce un’altra” (La Repubblica, 28/02/2015). Inizia con una citazione letteraria: “È l’anno 2061, sulla piazza c’è una lunga coda. Avanza, disciplinata. A due, a tre per volta si fermano davanti alla Gioconda appoggiata al muro, sputano sul quadro e se ne vanno. «Perché lo facciamo?», chiede Tom, un ragazzo. Gli risponde Grigsby: «Ha a che fare con l’odio. Odio per qualsiasi cosa che appartenga al passato. Come siamo arrivati a queste città in rovina, strade a pezzi per le bombe, campi di grano radioattivi, le case distrutte, gli uomini nelle caverne? Dobbiamo odiare il mondo che ci ha portato fin qui. Non ci resta più nulla, se non fare festa distruggendo». Così un racconto ambientato in un’America post-apocalittica, scritto nel 1952 da Ray Bradbury, lo stesso che poco dopo avrebbe pubblicato Fahrenheit 4-51, dove leggere un libro è reato.” Però, specificando subito: “Ma la storia non conferma queste fantasie. L’iconoclastia bizantina del sec. VIII-IX, quella protestante del Cinquecento, l’abbattimento delle statue di Mussolini, di Stalin, di Saddam Hussein non sono mai la negazione in toto del passato, ma la scelta rituale di distruggere qualcosa per esaltare qualcos’altro (la purezza della fede, il trionfo della democrazia…).”
Eh sì, è una questione davvero complessa. Forse, anche perché “in Mesopotamia come in Europa, nessun territorio è mai stato di un solo popolo né di una sola religione: la sovrapposizione, la mescolanza, il contrasto nella convivenza hanno costantemente arricchito le nostre città, le nostre letterature, il nostro patrimonio di immagini e di parole, la nostra anima,” e, pertanto: “la furia iconoclasta che si è scatenata a Mosul è però anche profondamente contraddittoria. Distrugge immagini di antiche divinità e sovrani, ma lo fa sotto gli occhi delle telecamere. Devasta spietetamente, ma su un palcoscenico, e per produrre nuove immagini, i filmati diffusi all’istante allo scopo di mostrare i muscoli e ricattare il mondo. Accusa di idolatria un museo archeologico, ma dissemina dappertutto l’auto-idolatria di chi si fa filmare mentre devasta; e si fa filmare per essere visto, perché la propria immagine che distrugge altre immagini diventi una nuova icona.”
Un altro commentatore, Marco Enrico Giacomelli (“Ma quale iconoclastia? L’Isis, le opere d’arte e il denaro” sul sito Artribune, 28 febbraio) ci propone un’analisi più articolata del meccanismo di “questo tipo di propaganda”, comparandola innanzitutto con le iniziative di Goebbles nel 1937 sull’arte degenerata, al fine di chiarirne le differenze, al fine di chiarire che l’iconoclastia c’entra poco o niente. E’ un’escalation di propaganda quella a cui assistiamo: “Per proseguire su quella china di provocazione che deve essere continuamente alimentata e variegata. Le decapitazioni non scioccano più? Allora facciamo sparare agli ostaggi da un dodicenne. Assuefatti? Li bruciamo vivi. E via dicendo. E poiché una buona fetta degli “occidentali” ci tiene di più al proprio gattino che al clochard che muore di freddo per strada, va da sé che una capatina ogni tanto nei territori del simbolico va fatta. E allora giù con le opere-nei-musei.”
Ma anche perché l’enorme valore simbolico che attribuiamo all’arte ha un suo pendant economico non trascurabile:
“Insomma, quella roba vale parecchio, e c’è un fiorente mercato sotterraneo che ne è interessato. Ora, senza voler fare alcuna dietrologia, vi invitiamo a riguardare con attenzione il video postato dall’ISIS. Qualcosa non torna in diversi casi, con sculture imponenti buttate a terra con un minimo sforzo e che si sfracellano nel momento in cui toccano il suolo, mentre per scalfire altre sono necessarie mazze enormi. Nel primo caso si tratta di copie in gesso? Così sostengono alla commissione nazionale per il patrimonio (lo riporta Sponda Sud). E non stupirebbe affatto che alcuni manufatti originali stiano già viaggiando in direzione di altri lidi. Perché le guerre si fanno sempre per ragioni economiche: il petrolio, certamente, ma anche far arrotondare qualche “corpo intermedio” con il patrimonio dell’umanità conservato in un museo, male non fa.Torniamo così al nazismo: quelle che bruciavano in piazza erano opere d’arte, certo, ma quelle “migliori” stavano nei caveau e venivano monetizzate. E visto che parliamo di Iraq: ricordate dove furono ritrovate molte delle opere sparite durante la seconda Guerra del Golfo? Certe portaerei avevano la linea di galleggiamento più bassa di cinque centimetri…”
Sì, è davvero una questione più complessa, che richiede uno sguardo più ampio e un’analisi più completa, non liquidabile con condanne frettolose. Non vorrei essere stato, però, frettoloso anch’io, nel sintetizzare gli articoli citati, che comunque, chi vuole, può leggere con più calma e per intero. Al tempo stesso, non vorrei, nemmeno, a questo punto, che chi evita condanne frettolose sia tacciato di minimizzare: vorrei fosse chiaro che è esattamente l’opposto.
Mi viene in mente un vecchio aneddoto: anni fa, stavo accompagnando alla stazione ferroviaria un amico tedesco ospite alcuni giorni in città per lavorare ad un progetto comune. Mentre siamo lì ad aspettare, ad un certo punto lui legge un cartello: “E’ severamente vietato attraversare i binari”. Che significa?, mi chiede. Lo guardo perplesso e poi, alzando le spalle come di fronte all’ovvio, gli rispondo, beh, è vietato attraversare. Sì, sì, mi fa lui, questo l’ho capito, ma perché “severamente?”
(l’immagine utilizzata è tratta dal video diffuso dall’Is e pubblicato da tutti i media)
Qualche aggiornamento, con alcuni articoli sulle ruberie di beni d’arte all’interno delle guerre degli ultimi anni e di quelle in corso in medio oriente.
– UNESCO IN ALLARME PER IL MERCATO NERO NEI PAESI ARABI, da Arte.it del 16/11/2013 (http://www.arte.it/notizie/salerno/unesco-in-allarme-per-il-mercato-nero-nei-paesi-arabi-8926)
– REPERTI TRAFUGATI TORNANO IN IRAQ, da Atre.it del 22/10/14 (http://www.arte.it/notizie/roma/reperti-trafugati-tornano-in-iraq-9832)
In questi stessi giorni delle distruzioni dell’IS, il governo irakeno ha deciso di riaprire in anticipo il museo di Bagdad, dopo la devastazione e ruberia del 2003 (http://www.huffingtonpost.it/2015/03/02/iraq-riapre-museo-nazionale-di-baghdad-_n_6782128.html)
Già!, il 2003, in piena invasione americana: “Toccava agli americani proteggere il museo” accusò la vicedirettice (era il periodo dell’invasione americana) “se solo avessero messo un carro armato o due soldati davanti all’ingresso, tutto questo non sarebbe successo: considero le truppe americane direttamente responsabili per ciò che è accaduto” ( http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Iraq-risponde-agli-scempi-Isis-e-dopo-12-anni-riapre-il-museo-di-Baghdad-af68c1f3-f216-4b79-86eb-6ced3e5257a0.html)
Sul 2003, vedi anche LA STRAGE DEI REPERTI da la Repubblica del 25/06/2005: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/06/25/bagdad-la-strage-dei-reperti.html
Esiste anche una galleria dei beni rubati, in un’apposita sezione del sito dei Carabinieri: http://tpcweb.carabinieri.it/tpc_sito_pub/simplecerca.jsp
Insomma, l’elenco degli articoli e dei siti è anche lungo, e complesso da riordinare.