Titolo: BILAL, viaggiare lavorare morire da clandestini
Autore: Fabrizio Gatti
Casa editrice: BUR
Il deserto non è buio. Anche senza luna, continua a riflettere la luce argentea delle stelle. Troppo debole perché si riesca a vedere cosa c’è davanti. Ma abbastanza intensa per riuscire a scorgere le sagome delle cose e delle persone vicine. Il ruggito del camion copre tutto. Non si sente altro. Soltanto il proprio respiro, imprigionato dentro il velo del tagelmust, vince lo sforzo del motore. L’unico, intimo compagno di viaggio, l’unico che non tradirà mai, che non lascerà mai soli questi ragazzi fino all’ultimo soffio, è il respiro. Il nostro respiro.
“Ehi, hai visto come è bello?” La voce è quella profonda di Daniel. “È bello, sì. ma come hai fatto a scavalcare tutti i passeggeri?” Daniel non sente la domanda. Guarda le stelle e scandisce qualcosa di insolito: “Attimo fermati, sei bello”. Serve giusto una traduzione mentale dall’inglese. Il tempo necessario a riconoscere chi ha scritto questo verso. “Daniel, ma è il Faust di Goethe.” “Sì.” “Non mi aspettavo di sentir recitare Goethe su un camion nel deserto.” “Adoro la Germania. Se parlassi tedesco, andrei lì.
Il brano è tratto da “BILAL” di Fabrizio Gatti. “Viaggiare, lavorare, morire da clandestini” recita il sottotilo. Si trovano su uno dei tanti camion che attraversano il Sahara da sud a nord, simile a quello che si vede nella foto. Fabriazio Gatti, per raccontare questo viaggio attraverso gli Inferi si è mascherata da “migrante”, ha scelto un nome falso, Bilal, si è privato di documenti di riconoscimento e di un passaporto europeo, e si è mescolato ai ragazzi che tentano l’impossibile. Daniel è uno di questi ragazzi. Il frammento di conversazione riportato da Fabrizio Gatti, mi fa venire in mente “Odio gli indifferenti” di Antonio Gramsci, perché siamo ancora indifferenti a tutto questo che accade attorno a noi. Ma contro questa indifferenza, mi fa venire in mente anche il racconto di Primo Levi, quando nel lager recita a memoria a Pikolo, suo compagno di prigionia, cercando di tradurlo anche in francese, il canto di Ulisse dalla Divina Commedia. Quanta cultura disperdiamo nei deserti di questa società?
Il libro è del 2009, ma le sole cose che, purtroppo, cambiano nel tempo sono soltanto le rotte seguite, che si adattano di volta in volta alle congiunture politiche. Tutto il resto è immutato, alimentandosi di continuo di quelle stesse congiunture. Dalla quarta di copertina:
Un nome falso. Gli euro avanzati e la capsula con i dollari. Il tubetto di colla per nascondere le impronte digitali. Il borsone nero. Il giubbotto salvagente. La camicia. Il pile. Le vecchie ciabatte.
La bottiglia d’acqua da un litro e mezzo. Sei panini. Tre scatolette di sardine e tre schede telefoniche. Ecco cosa è servito a Fabrizio Gatti per trasformarsi nel clandestino Bilal e raccontare il dramma sconvolgente di chi si mette in marcia dal Sud del mondo per conquistare una vita migliore al di là del Mediterraneo.
Fabrizio Gatti ha attraversato il Sahara sugli stessi camion che trasportano i migranti. Ha incontrato affiliati di Al Qaeda e scafisti senza scrupoli. Ha superato indenne le frontiere. Si è infiltrato nelle organizzazioni criminali africane e nelle aziende europee che sfruttano la nuova tratta degli schiavi. Si è fatto arrestare come immigrato senza documenti. Ha scoperto i nomi, le alleanze e le complicità di alcuni governi che non fanno nulla contro il traffico degli schiavi, anzi, ci guadagnano.
Bilal è la cronaca della più grande avventura del Terzo Millennio vissuta in prima persona dall’autore. Un viaggio nell’impero di chi si arricchisce commerciando carne umana, raccontato con un linguaggio teso che avvince il lettore come in un thriller. Un resoconto lucido e spietato – perché “approdare vivi a Lampedusa è come sopravvivere a un incidente aereo” – che segna la scoperta di un nuovo talento letterario che sa parlare della realtà. Perché Bilal è una storia vera.
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