“L’uomo che voleva nascere donna”, di Joyce Lussu

Uomo-che-voleva-nascere-donnaTitoloL’uomo che voleva nascere donna. Diario femminista a proposito della guerra.
Autore: Joyce Lussu (a cura di Chiara Cretella)
Casa editriceGwynplaine edizioni

Il titolo nasce da un episodio della seconda guerra mondiale, raccontato all’inizio, in cui un soldato impreca che avrebbe voluto nascere donna, così avrebbe evitato l’inferno di quella guerra reale in cui si trova immerso. Subito, questa scena di per sé quasi banale – nel nostro orizzonte culturale – si rovescia nel suo opposto, attraverso il lungo racconto dell’autrice, che è donna, e anche pacifista, e la guerra non l’ha evitata.
Il titolo e il sottotolo potrebbero, anche, far venire in mente un libro rivolto ai ricordi del passato, a un mondo che oramai non c’è più perché tutto è diverso. Invece è un libro attualissimo, anche per i giorni di oggi e anche se Joyce Lussu lo ha scritto nel 1978. Un esempio: “Il 15 aprile (del 1978) andai a Ottana, nella Barbagia di Nuoro, a parlare con gli operai della petrolchimica che producono fibre artificiali in un’immensa fabbrica, la cui presenza ha distrutto e conomicamente e culturalmente l’unica zona d’Italia dove si producevano fibre naturali di lana di pecora, le quali, come è noto, sono sempre piùrichieste sul mercato internazionale (l’allevamento di pecore è raddoppiato nel mondo in questo dopoguerra) mentre sempre meno si richiedono i sottoprodotti del petrolio per le loro caratteristiche negative.” Si tratta dello stabilimento della Montedison, “una specie di astronave da film di fantascienza”, la famosa razza padrona dell’epoca. “A pochi chilometri c’è lo stabilimento della Sir di Rovelli, realizzata con i soldi della Regione destinati all’agricoltura: “un’altra astronave, che peraltro non è ultimata e non ha mai prodotto nulla.”
Di cosa si parla se non del nostro mondo di oggi? Oggi che per lamentarci del presente rimpiangiamo i bei tempi d’una volta, dimenticando che se sono stati davvero belli è perché qualcuno se li è guadagnati, e che comunque i nostri mali di oggi è da là che sono nati, e non riusciamo a comprenderli davvero se da lì non ripartiamo.
Il libro, allora, ci appare nella sua veste di riflessioni, domande, osservazioni, di caparbio recupero delle ragioni di fondo di una lotta partigiana, con i suoi sacrifici, per inaugurare questa repubblica. Aggiunge però l’autrice, a scanso di equivoci: “Debbo tuttavia far presente (…) che la lotta contro il fascismo non è stata per me un sacrificio, ma una scelta convinta e soddisfacente…”.
E’ in corso il rapimento di Aldo Moro mentre Joyce Lussu sta compiendo questo viaggio in Sardegna raccontato nelle prime pagine. E da qui, anche da qui, da questo viaggio, parte una serie di riflessioni sulle armi e sulla guerra: “Sulla guerra e sulla pace, da che mondo è mondo, è stato già detto tutto, in maniera egregia e ineccepibile” ma “evidentemente, per liberarsi della guerra, bisogna fare analisi nuove, partire da angolazioni diverse, che non siano solo emozionali, morali o filosofiche (…) ma politiche e aderenti alla realtà di oggi, ai livelli tecnologici e civili nei quali viviamo.”
Il filo conduttore, dunque, è una riflessione sulla guerra vissuta, e sulla rezione alla guerra, attraverso la sua esperienza di donna: “E’ probabile che una presa di coscienza delle donne potrebbe costituire questo fatto nuovo, al di fuori delle complicità e dei servilismi dei poteri costituiti. Forse riusciremo a superare l’incancrenita assuefazione all’estraneità e alla delega, a sfondare le sette porte del potere militare… cominciamo con l’analizzarlo. Non demandiamo l’analisi agli esperti e ai professionisti. Esercitiamo i nostri diritti di cittadini che vogliono sapere e intervenire.”
Questo è l’incipit delle prime pagine, scritte quasi quarant’anni fa. Tutte le altre pagine che vengono dopo le lascio alla lettura diretta di chi è curioso di analizzare, appunto, da angolazioni sempre nuove. Sono pagine tutte altrettanto dense, e mobili, come di chi usa la scrittura avendo tutti o molti degli elementi e riferimenti davani a sé, già vissuti direttamente ( “ho conosciuto molte guerre nella mia vita”) o che ancora si succedono davanti a sé, non li perde di vista ma vi si immerge di nuovo, cercando dentro la realtà nuove angolazioni, connessioni, relazioni, strade, incontri. Per parlare, tutto insieme, degli altri e di noi.
Il libro si struttura in dieci capitoli, come altrrettanti periodi storici o tematici, dalla sua esperienza nella guerra partigiana, ai movimenti di liberazione degli anni Sessanta, a “come il movimento del ’68 portasse qualche idea nuova e importante rguardo alla pace che però non fu accolta dai partiti e dao poteri e tantomeno dalle superpotenze”, o sulle femministe e i movimenti femministi, o sulle conferenze sul disarmo e l’industria delle armi.
Lo stile adottato, dunque, non può essere quello del saggio, o di una riflessione che l’autrice fa tra sé e sé, ma quello di lungo racconto rivolto a noi, condividendo la sue esperienze, le persone che ha conosciuto, i luoghi che ha attraversato, i pensieri che ha avuto. Il tono usato è quello che già conosciamo, sempre molto deciso e molto umano.
Gli ultimi due capitoli sono dedicati alle storie di un partigiano e di un legionario, “i due poli opposti dell’attività militare”. Il partigiano è Jalai Talibani: “Che cosa può indurre un uomo equlibrato e pieno di umanità, di temperamento allegro e senza fanatismi e idee fisse, buon avvocato e affermato pubblicista, ad affrontare quella cosa terribile che è una guerriglia di montagna combattuta in condizioni di assoluta inferiorità….?” Si chiede l’autrice, e poi scrive ancora, a proposito della moglie, Hero Talabani, bloccata in esilio a Damasco con un figlio appena nato: “E perché una bella donna e gentile come Hero, realizzatissima da un punto di vista femminile tradizionale, si considera un fallimento se non riuscirà a far la sua parte in prima linea nelle lotte della gente, autonomamente e non solo per solidarietà con il suo compagno?”
Tutto sempre molto attuale; potremmo riferirci alle donne curde che difendono in questi giorni Kobane, o anche alle due ragazze cooperanti liberate in Siria e rientrate oggi in Italia, bastonate da tutti perché “se la sono andata a cercare”.
Sono tante le citazioni che si potrebbero fare dal libro, per riaprire momenti di discussione più consapevole; concludo con questa: “Vogliamo provare a parlare di noi tenendo presente questo fattore essenziale? A scrivere il nostro diario ricordando che il vero stupro, la più grande violenza che l’umanità sia costretta a subire è appunto l’accettazione, attiva o passiva, della guerra con tutti i suoi annessi e connessi?”

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