“Il viaggiatore residente”, di Alessandro Moscè

foto-mosce1TitoloIl viaggiatore residente
Autore: Alessandro Moscè
Casa editriceCattedrale

Che cos’è la residenzialità? “Risiedere in un luogo e andare in profondità, vuol dire concepire l’universale attraverso la concretezza”, dice ad un certo punto l’autore, citando Franco Scataglini.  E il viaggio, allora, in che consiste? “Intervistare la gente ed afferrare il passato, scrivere le storie”, scrive ancora l’autore, nel titolo di un paragrafo.
Come in un viaggio – un altroviaggio – incontra tante persone, che l’accompagnano per alcuni tratti. Una di queste è Mino, una specie di Virgilio custode dei boschi, o dei greti e delle penombre del Giano, il fiume di Fabriano. “Non hai età, Mino. Non sei mai diventato adulto” gli dice durante una delle immersioni in questi luoghi e nelle storie. E l’amico gli risponde: “Come questi scorci. Non ci accorgiamo che ci sono. Li vediamo ma non li notiamo. Ecco l’uomo senza età, c’è ma è come se non ci fosse.” E le storie in questi luoghi sono tante, si rincorrono con la loro aurea di fiaba o di leggenda, ed è proprio perché sono storie vere che sembrano impalpabili. La sommossa di Ruce del 1854, con la sua protagonista ricordata col nome di Lumachella, o La gallina dalle uova d’oro, del 1904 a Fabriano, e così via.

Il libro è ‘un breviario dell’Appennino’. Mi pare che lo stesso autore usi ad un certo punto questa espressione ma devo essere onesto, quasi mi confondo, non sono sicuro ora se a dirlo sia direttamente lui o qualche altro. Non è esattamente un racconto. E’ una raccolta di racconti, o forse è più esatto dire di frammenti che s’inseguono, annotazioni, di storie e di pensieri, come un girovagare tra i luoghi e tra le parole. “Il Viaggiatore residente di Alessandro Moscé è un’opera che difficilmente si lascia inquadrare all’interno di una definizione restrittivia di genere”, scrive Giulia Brecciaroli in una recensione sulla rivista online ARGO.

“Non è la narrazione di un viaggio ma un viaggio dentro la narrazione” leggo dai miei appunti presi già durante la lettura delle prime pagine, subito immerso nel girovagare dello scrittore poeta dentro luoghi intimi, domestici, naturali. E anche luoghi dell’anima, del sentire, dello sguardo. E gli incontri con le scritture, tante, che a questi luoghi si compenetrano. E’ un girovagare inquieto ma anche leggero, come un chiedersi. “Il Dio del dubbio” lo chiama, ma è un dubbio che se angoscia lo fa con delicatezza, o con la consapevolezza di dover sorreggere il racconto, mantenere un itinerario e non confonderlo. L’autore nel suo viaggio/ricerca intervista poeti e scrittori, parla con loro, medita sui loro versi, li annota, ce li legge, compone con i versi nuove domande, prolungamenti degli sguardi, discute con loro o immagina, anche, di discutere con loro. Insieme a loro descrive luoghi che si disvelano come prolungamenti di noi stessi, o dei nostri lati intimi. Il poeta Umberto Piersanti: “…la distinzione da fare è tra il poeta del pesaggio e il poeta della natura. Io devo metterci il naso nella terra, devo sentire il contatto. D’estate ci dormo nei boschi. Prendo il sacco a pelo e ci dormo nelle Cesane…”. Oppure, Alberto Bevilacqua: “Ma c’è ancora posto – gli chiede l’autore – per lo scrittore e per il regista nella società di oggi? E per il poeta?” e Bevilacqua risponde: “L’uomo non può fare a meno di raccontare”.

E poi le donne, inquiete compagne di un tratto del viaggio. Sembrano tutte farfalle notturne o del chiaroscuro, risvolti larghi dei sensi e delle sensazioni, voci di parole che non si posano, anche l’eros è nel tempo. “La realtà ha fantasia. Hai una donna?” gli chiede Bevilacqua, che poi aggiunge: “ Parlane. Chi è? Fanne un elemento di poetica. Un procedimento narrativo che parta dalla realtà, una declinazione del quotidiano, capisci? Ha un corpo questa donna, ha una tensione. E’ felice? E’ triste? Come vi siete conosciuti? Dove la vedi? Ci passeggi mano nella mano?”

E il dialogo/viaggio prosegue, insegue, annota: “Il quotidiano è solcato di relazioni – dice ancora Bevilacqua – metti in scena le tue giornate, una ad una, salda la tua identità, il tuo essere, i tuoi luohi, il tuo universo, piccolo e grande….”
Tanti incontri con tanti poeti e scrittori, è popolato lo spazio del viaggio residente: “Nulla sappiamo se non il raccontare” dice Giorgio Saviane. E poi Davide Rondoni, Alberto Bertoni, Isabella Leardini, Ennio Cavalli e altri ancora, odierni e passati, ma non sono incontri d’accademia, sono tutti immersi nei luoghi di questo altro cammino, lungo le intersezioni della vita e del tempo, sono reali.

Il capitolo centrale del libro è anche il più ampio, è dedicato al tempo, le memorie, alla gioventù, è un viaggio nel viaggio, il dialogo diventa intervista, approfondimento, ricerca di uno smarrimento perduto: “Mi dia una definizione del tempo se le va” chiede a Eleonora, che vive reclusa nella contenzione di una casa di riposo, che l’autore va a trovare su segnalazione dell’amico Mino: “Il tempo è come i tarocchi” – risponde lei -, “leggevo i tarocchi, m’ingegnavo, i miei clienti venivano a fare l’amore e a sapere il loro destino. Se ne andavano stralunati, ero la più richiesta, modestamente. Bella e intrigante. Il desiderio non finiva mai con me. Piacere e futuro, ecco cosa trovavano. I tarocchi erano una magia, come il mio corpo di latte…”
“Mi racconti una storia” la incalza l’autore, e a lei piace quello scambio serrato di parole che le fa rivivere il suo tempo: “Con voi marchigiani si possono scoprire i letti senza vergogna. Non avete superbia e odiate l’ipocrisia. Un vizio dal quale anch’io sono immune.”

Le storie nel tempo. Essere e tempo, di Kiergaard, compare citato nelle riflessioni filosofiche di un poeta, quale l’autore è. “Il tempo è borioso, presuntuoso. Non ci lascia neanche il permesso di fermarlo” conclude la donna dei tarocchi.
Un breviario dell’Appennino, dicevo. Oltre ad ‘incursioni’ verso Urbino, o Senigallia ed Ancona, c’è la terra di Fabriano e Sassoferrato, tanti piccoli anfratti, borghi, Canterino, Catobagli, Rotondo e altri, il greto del Giano, le ombre e i chiaroscuri, e anche la città, certo, secondo prospettive che danno un senso anche alle periferie. C’è sempre qualche persona presente, come una storia. Non c’è mai folla, il dialogo richiede un contatto diretto, stretto, intimo, che riesca a toccarsi, entrare dentro. E dentro i dialoghi i pensieri filosofici, che vi entrano come poesie, o altrettanti frammenti di vita: Rimbaud, Kiergaard, Kant, Sartre, Newton, Fromm. Anche Leopardi e il dialogo di un fisico e un metafisico.

È un caleidoscopio. Mi sembra che usi quest’immagine una delle tante persone che l’autore intervista, quando chiede “Che cosa è il tempo?” La vita come un flusso continuo, una lettura che a tratti mi ha spiazzato, o mi ha distratto stuzzicandomi verso altri cammini, che l’autore accenna appena e poi ti lascia. Io stesso ne sto parlando per frammenti, come per un vero breviario. “Il Dio del dubbio” è una delle citazioni più frequenti dell’autore. Tra metafisica e dettaglio. Uno dei personaggi incontrati è un frate, o un prete. Introdotto sempre dall’amico Mino. E’ divertente la lunga discussione notturna, tra castagne e rosso lacrima: “Su Dio e i filosofi Don Martino ha raccolto una serie di massime che porta sempre con sé, un quaderno pieno zeppo di appunti, note, frasi, indicazioni”. Ad un tratto mi sembra che sia lui, Martino, il vero viaggiatore residente in cui specchiarsi, con il suo fagotto di massime annodato sulle spalle, come un viandante. “Il tempo siamo noi” risponde Martino.
Il libro termina quando “lo scrittore di vento se ne va”: all’improvviso tutto sembra rovesciarsi, è l’autore stesso ad essere intervistato, ma da chi? “Con chi ho parlato? Chi mi ha intervistato?” si chiede.

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