“Non mi basteranno due occhi per piangere”, di Angelica Paolorossi

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Titolo: Non mi basteranno due occhi per piangere
Autore: Angelica Paolorossi
Casa editrice: Gwynplaine edizioni

Recensione di Tullio Bugari:

«L’ho letto d’un fiato, come quando ti manca il fiato. Trascinato dallo stile, come una scrittura in presa diretta, che si presta molto bene anche ad una lettura ad alta voce. L’ho provato anche scegliendo pagine a caso e funziona sempre. La storia di per sé potrebbe anche essere banale, così come sono purtroppo banali tante porcherie che accadono nel mondo e a cui siamo quasi assuefatti, senza indignarci, di solito le ascoltiamo distratti mentre a tavola ascoltiamo il telegiornale all’ora di pranzo o in auto ci rechiamo al lavoro. Una giovane migrante attirata da un’amica che la inganna per metterla al suo posto in un night a prostituirsi: “Neanche due settimane e ci sono dentro completamente. La notte ballo intorno a un palo. Il giorno mi nascondo nel letto.” Frasi brevi, secche, dirette, che scrutano un mondo alieno e ci invitano a vederlo – questo nostro mondo normale – attraverso altri occhi. Anche lo sguardo dell’autrice sembra farsi da parte per non intralciare. Non c’è nulla di sociologico, nessuna spiegazione o interpretazione, psicologia, riflessione o considerazioni, tutte quelle cose che, insomma, anziché avvicinarci ci allontanano. L’autrice entra dentro lo sguardo della protagonista e si sforza di guardare attraverso quello, descrive ciò che vede, che avviene in quell’istante: “Questi maledetti maschi mi infettano. Con il loro incontenibile essere maschi. Con la loro violenza congenita.”   E’ un racconto in prima persona ma non è scritto nemmeno come un’autobiografia perché l’autobiografia è già uno scrivere vedendo il pensiero mentre si forma, attribuisce un significato, trasforma la vita in racconto e ce la mostra sempre da un’angolazione in cui possiamo scorgerla per intero. Chi la scrive riesce a muoversi con una duplicità di sguardi, qui invece lo sguardo è uno solo e procede a tentoni, come una telecamera in una endoscopia, è atroce: “Non c’è più niente da dire”.  Non c’è un senso: “Che cosa cerca un uomo in un amore sconosciuto. Che cosa compra posando i soldi sul bancone.” Tutte domande senza punti interrogativi, che dunque non attendono risposta, oppure anche le risposte somigliano ad altrettante domande. Uno sguardo che è un rumore di fondo, un monologo ininterrotto e solitario: “Non un’anima che mi rivolga parola. Non una persona che riesca a vedermi.” C’è un momento in cui la ragazza, tornando a casa, si ferma in una bar a bere e chiacchierare con degli studenti, come una di loro ma poi… “Poi c’è uno che mi fa quella domanda terribile. Tu che cosa fai nella vita. Io non so cosa rispondere. Vorrei avere qualcosa da dire. Qualcosa che non mi faccia sembrare una prostituta. Qualcosa che non mi faccia incendiare le guance. Dico il mio bicchiere è vuoto. Non vedi che il mio bicchiere è vuoto. Insiste. Dico io sono una ballerina. Ridono. E fanno bene. Un signore dice che è vero. E’ vero che ballo. In un locale di zoccole. E quelli ridono ancora di più. Tutti hanno ragione di tutto. Ce l’hanno o se la inventano. Io non so costruire ragioni. Non so difendermi. Me ne vado.  Non indosso un alter ego. Non indosso un alter ego fantastico.”»

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